La parola del papa e dei vescovi - 29

OMELIA NELLA STAZIONE QUARESIMALE ALLA «BOTTE» DI SALVARO

Botte di Salvaro
Domenica 1 aprile 1984

Oggi, quarta domenica di Quaresima, la Liturgia ci presenta Cristo che ridona la vista al cieco.
Siamo anche noi consapevoli di non godere pienamente della luce, perché spesso ombre dense calano sui nostri occhi: dubbi, esitazioni, passioni e tensioni. Abbiamo bisogno di luce: abbiamo bisogno di occhi che amino la luce e la sappiano accogliere.
Siamo venuti a questa "Botte" che immediatamente richiama la piscina alla quale Gesù inviò il cieco a lavarsi.
Sentiamo vive emozioni. Ma non ci bastano. Non debbono bastarci.
Incamminati verso la Pasqua, desideriamo occasioni e stimoli che ci aiutino a riflettere sul Mistero della Redenzione. Da esso, infatti, viene la luce per il nostro tempo e il nostro impegno.

Comprendere e accogliere il mistero della Croce.

Noi sentiamo tanta difficoltà a comprendere e ad accettare questo mistero. La strada della croce - della croce di Cristo e della nostra croce -per noi riesce difficile. Davanti ad essa siamo ciechi.
Qui, ora, comprendiamo quello che è successo 40 anni fa?
Noi esaltiamo il sacrificio di tante vittime. Diciamo che esse hanno vinto la violenza, che il loro olocausto ripara e sconfigge la barbarie che qui è stata consumata.
C’è del vero, in queste espressioni, ma non dicono tutto: non dicono la realtà più profonda e difficile.
Se non vediamo che di qui è passato Cristo portando la croce, che qui si è realizzata una continuazione della sua passione e morte per la salvezza del mondo, non vediamo il centro della verità.
Allarghiamo allora il nostro orizzonte fino a prendere dentro tutto il dramma del male e del dolore.
C’è del male che è più direttamente legato a cause di forza maggiore non umana: terremoti, inondazioni, siccità, malattie... Qui è meno visibile e operante il rapporto col peccato, per opera del quale ogni male è entrato nel mondo.
C’è un male di cui gli uomini sono causa almeno indiretta: cattiva distribuzione dei beni, disuguaglianze, incomprensioni, negligenze: attraverso questa responsabilità umana è operante, in maniera più evidente, il mistero dell’iniquità che dilaga nel mondo.
C’è infine un male di cui gli uomini sono causa diretta e volontaria: quando l’egoismo diventa odio e l’odio diventa violenza distruggitrice contro inermi innocenti. É il termine ultimo dello scatenamento satanico.
Cristo ha voluto portare la sua presenza qui, perché qui si combatte, nel suo operare più chiaro e inequivocabile, Satana, nemico di Dio e dell’uomo.
Dovunque qualche persona porta la croce, lì Cristo porta la croce. Non è un richiamo consolatorio: è la realizzazione della solidarietà di Cristo con l’umanità.
Dovunque l’innocenza inerme è schiacciata, lì c’è una più evidente configurazione con Cristo, e una più manifesta partecipazione alla sua passione.

Una comunità celebra la Pasqua ultima.

Nei luoghi ove ora siamo, i nostri fratelli nella loro tremenda sofferenza, non soltanto hanno portato in sè l’immagine di Dio, che appartiene ad ogni essere umano; non solo hanno espresso una somiglianza più aderente alla figura del Salvatore, perché, come Lui, inermi e indifesi, hanno subito violenza.
Nei loro ultimi tre giorni sono diventati "Popolo di Dio", "Comunità ecclesiale" nell’atto di celebrare la Pasqua terrena definitiva. I lamenti sono diventati preghiera: le tenebre dello scoraggiamento hanno lasciato posto a una visione di immortalità: la condanna inumana e ingiustificata, ha fatto loro intravvedere braccia paterne e accoglienti, che ispiravono la certezza che il loro sacrificio non sarebbe stato vano.
Questo cambiamento fu opera, in gran parte, del ministero presbiterale di due sacerdoti che, per impulso del loro zelo, si erano messi dalla parte degli oppressi, così da condividerne la sorte: il dehoniano Padre Martino Capelli e il salesiano Don Elia Comini.
Figlio di questa terra era Don Comini, e ad essa ancora legato per i vincoli che l’univano alla madre che qui abitava, al veneratissimo Arciprete di Salvaro Mons. Fidenzio Mellini, e a tutta la gente. Essa ricambiava con stima e attaccamento il suo ministero sacerdotale che, con impegno e stile veramente salesiano, svolgeva a tratti qui, particolarmente nelle vacanze estive di quel 1944, per essere più vicino alla mamma.
Padre Capelli, originario di Nembro in Provincia di Bergamo, era stato portato fra di noi dalla sua vocazione sacerdotale, attuata nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore, fondati da Padre Dehon. Aveva studiato teologia al Seminario Regionale di Bologna, nella nostra città era stato ordinato. In quella stessa vacanza 1944 dalla sua comunità religiosa sfollata a Castiglione dei Pepoli veniva - richiestissimo - in aiuto alle Parrocchie di questa zona. Durante l’estate, praticamente, aveva svolto predicazioni in tutte quelle che stavano per subire la tragedia, e aveva conosciuto i giovani parroci che avrebbero seguito il cammino doloroso che egli stava per terminare.
Don Elia e Padre Martino svolsero il loro ultimo ed efficacissimo ministero alla scuderia di Pioppe a alla "Botte". Formarono e ressero la loro comunità con la Parola di Dio e la preghiera. Animarono e sostennero l’impegno più profondo del battezzato: quello della conversione e della riconciliazione: riconciliazione che non mancò anche della celebrazione sacramentale e che qui alla "Botte" si coronò di gesti che rimangono indelebili.
Quando cominciò il crepitio delle armi automatiche, fu la voce di Don Comini che dominò gli spari con un grido rivolto a Dio e agli uomini: "Pietà, pietà".
E quando cessò il cupo frastuono, e il silenzio agghiacciante sembrava imporre il trionfo della distruzione, dalla fanghiglia sanguinolenta, tra i corpi straziati, Padre Martino, inspiegabilmente si levò, come una strana risurrezione, e tracciò sulle vittime - e sul mondo - ampi segni di croce.
Un atto penitenziale che introduce immediatamente a un sacrificio e infine, un gesto di croce che insieme assolve e benedice: potevano esserci segni piò espressivi della presenza salvatrice di Cristo?

Un impegno di approfondimento per la Chiesa di Bologna

Abbracciando con uno sguardo tutta l’umanità, in cui tanto ancora operano le tenebre della violenza e di ogni peccato, non ci lasciamo nè sedurre, nè scoraggiare. Diciamo: "Ti adoriamo, o Signore, e ti benediciamo, perché con la tua santa Croce, alla quale ci associ, redimi il mondo".
Abbracciando con lo sguardo la nostra vita, in cui non sempre appare chiaro il nostro impegno di collaborare con Cristo a combattere il peccato, diciamo: "Signore, non ti abbiamo finora seguito come ci insegni e come è doveroso, ma vogliamo protenderci in avanti, ad imitarti, perché tu solo sei e dai la vita".
Come Chiesa di Bologna, depositaria di esempi e insegnamenti così sublimi, di generosità così preziose ed efficaci, intendiamo non solo custodire queste eredità, ma valorizzarle.
Per tale motivo un gruppo di fratelli e sorelle, sacerdoti, religiose, laici, è stato incaricato di una lavoro di ricerca, di studio, di illustrazione del significato ecclesiale e sociale dei fatti e della testimonianza offerta dalle vittime.
Ma la storia si fa non solo discernendo e valutando ciò che è stato prima di noi: è scoprire e far nostra l’attualità efficace di ciò che è entrato nella nostra vita ecclesiale e sociale.

Valori più urgenti per la società e i giovani

Dobbiamo attingere anche noi, in modo particolare, al ministero di Padre Martino e di Don Elia: ministero che esprime il carisma specifico delle rispettive famiglie religiose, e che è necessario nei tempi nostri, particolarmente in una comunità ecclesiale complessa e vasta qual'è la Chiesa di Bologna.
Tanto più che tale carisma è presente e vissuto nelle comunità religiose dei figli di San Giovanni Bosco e di Leone Giovanni Dehon, per grazia di Dio largamente presenti e generosamente attive in Diocesi.
Da Padre Martino attingiamo l’invito a rivolgerci al "cuore trafitto del Salvatore", espressione ideale di tutta la personalità e l’attività di Cristo Redentore. La vita del cristiano deve essere non tanto una denuncia contro il rifiuto che il mondo oppone all’amore di Cristo, ma la decisione di darsi senza riserve a questo amore, a consumarsi per riportare a Cristo tutta l’umanità, sia con il sacrificio personale, sia con l’apostolato, ivi compreso quello sociale, cui Padre Dehon attendeva con straordinaria dedizione.
Sottolineando il fatto che l’eccidio dei nostri fratelli fu consumato in un luogo che fu ed è il centro di lavoro, dobbiamo dare rilievo a questo richiamo.
Sono tanti i problemi e le urgenze che andrebbero messe in rilievo. Mi fermo a ricordare la necessità che i valori etici, attinti dal Vangelo siano accolti come principi ispiratori e punti di verifica della complessa attività umana: economia e politica rapporto delle varie componenti della nostra società, cammino verso una maggiore giustizia sociale, verso una più generosa solidarietà, verso la pace.
É doveroso, in questo contesto, mettere in guardia contro i tanti rischi dell’invadente cultura dell’effimero, per cui il tempo libero diventa evasione e alienazione; per cui anche, nonostante le parole, gli ultimi sono sempre più dimenticati o addirittura offesi, dal momento che l’attenzione concreta é rivolta a ben altro!...
E qui mi richiamo al carisma di Don Elia, al carisma salesiano, che é quello dell’apostolato dei giovani, ovunque essi conducano la loro vita: scuola, lavoro, impegno cristiano e distensione...
La nostra società - così come praticamente vive e si esprime, con le molteplici e spesso contrastanti spinte che la compongono - non é favorevole ai giovani. Forse é loro di ostacolo.
Non li fa crescere, non li aiuta, perché non li guida rettamente. Forse li sfrutta. Li sfrutta approfittandosi della loro esuberanza e mobilità, interiore ed esteriore, per cui, soprattutto a loro, offre l’effimero; emozioni senza valori, vitalità senza orientamenti, soddisfazioni senza impegno. E così nascono disadattamenti: dalla difficoltà del lavoro, a quella di formarsi una famiglia, a quella di comprendere l’urgenza e la bellezza di rendersi utili.
Abbiamo bisogno di vedere che cosa é l’uomo, creato da Dio e salvato da Cristo con la sua dolorosa passione. Abbiamo bisogno di vedere Cristo.
"Nel mistero del Verbo incarnato, del Dio fatto uomo, morto e risorto per l’uomo, trova vera luce la realtà dell’uomo stesso, perché Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo e a se stesso, e gli manifesta la sua altissima vocazione" (Giovanni Paolo II, Discorso a Porta Saragozza, n. 2).
Abbiamo bisogno di apostoli come Don Comini, Padre Capelli, Don Fornasini, Don Marchioni, Don Casagrande, di cristiani impegnati come la maestra religiosa Antonietta Benni, come Suor Maria Fiori, e le altre maestre che condivisero, nella furia devastatrice, le sorti dei piccoli cui dedicavano le loro attività.
Abbiamo bisogno che le nostre comunità, e tutta la società, imparino ciò che é duraturo per l’eternità e valido anche qui sulla terra per un’autentica felicità, da quanto hanno subito le comunità di San Martino e di Casaglia, e i gruppi sempre troppo numerosi di vittime di questi monti.
Ci invitino ad un impegno sincero per rinnovare la società questi esempi, la intercessione dei nostri Santi e dei nostri Martiri e, in particolare della Beata Vergine Maria, Madre nostra, alla quale ci siamo da pochi giorni solennemente affidati.

La parola del papa e dei vescovi
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