«Nostris lacrimis, vestris laudibus»
Ricorre quest’anno il 50° anniversario della solenne inaugurazione del Lapidario dei Caduti, compiuta in questo chiostro romanico della Basilica di S. Stefano. Con quanta cura si era provveduto, allora, al restauro di questo luogo!
L’iniziativa di un’Associazione che intendeva ricordare i propri Familiari caduti nella prima guerra mondiale aveva trovato rispondenza in tutta la città, che qui volle fissare i nomi dei morti e il luogo lontano, segnato dalla loro testimonianza di fedeltà e dedizione.
Nessuno, in quei momenti, poteva pensare che non sarebbe trascorso un altro ventennio dalla solenne commemorazione, senza che si scatenasse un secondo conflitto, ancora più cruento e di più vaste proporzioni, e che la nostra patria sarebbe stata ancora coinvolta in una così grave tragedia.
Mentre celebriamo il 30° anniversario della fine di questo secondo conflitto e della liberazione del nostro Paese, desideriamo associare, nella comune preghiera, i Caduti delle due guerre, invocando da Dio pace, e conforto per quanti vivono nel rimpianto e nel dolore.
Il nostro ricordo può trovare espressione nella stessa epigrafe dedicata ai Caduti in quella inaugurazione ormai lontana di mezzo secolo. «Nostris lacrimis, vestris laudibus»: «Per il nostro dolore e per vostro onore». Le nostre lacrime vogliono essere un tributo al loro eroismo.
Un’altra espressione, che è stata rivolta in questi giorni dai Vescovi italiani, rileva come non possiamo non ricordare con commossa gratitudine coloro che, disposti piuttosto a morire che ad uccidere, immolarono la loro vita con il supremo sacrificio.
Noi li ricordiamo proprio in questo complesso monumentale, in cui si venera la memoria del protomartire cristiano e dei martiri bolognesi.
Il pensiero ritorna al periodo che, dopo lo spargimento di sangue e dolorose conseguenze della guerra, vide la ripresa e la ricostruzione, soprattutto lo sforzo di ricomporre la concordia degli animi, straziati da una lotta fratricida nell’ambito della stessa nazione.
E davvero sembrò - trent’anni or sono - che nonostante le ferite dell’immane tragedia, avesse inizio una nuova epoca di pace e di intenso lavoro.
La nostra Patria, in molti settori, non si dimostrò seconda ad altre nazioni, nel sacrificio e nella collaborazione, superando la povertà delle proprie risorse materiali.
Ma, da qualche tempo, il cammino si è reso faticoso con rinnovate tensioni. Mentre si acuiscono difficoltà di ordine economico, viene meno il vero rispetto per la persona umana; si accentuano i conflitti di carattere sociale e politico, si moltiplicano sequestri e rapimenti; da diverse parti sorgono grida minacciose, esplodono aggressioni pericolose, con ferimenti e devastazioni, nell’ignobile inclinazione a levare la mano omicida contro i propri fratelli.
Sarebbe vano concludere che, dopo tutto, simili situazioni si verificano anche in altre nazioni. A noi compete vedere quanto sia da compiere nella nostra casa, per il bene della nostra terra.
Cerchiamo dunque di vedere e comprendere le esigenze di questo periodo storico. Siamo ormai molto lontani dalla retorica: la realtà dei fatti ci richiama a vive preoccupazioni e a pensieri profondi. Non hanno significato le parole superficiali. E neppure possiamo indugiare in esortazioni generiche.
Il nostro animo, attento alla parola del Signore, si lascia guidare da un pensiero fondamentale, suggerito dalla liturgia del giorno.
Oggi si celebra uno dei quattro Evangelisti: S. Marco. Egli ha scritto il secondo Vangelo, e ha aiutato gli Apostoli specialmente Pietro e Paolo, a diffondere nel mondo il messaggio di Cristo. E ha presentato, nel suo Vangelo, la graduale affermazione del Regno di Dio, che Cristo è venuto ad annunciare ed attuare.
Il Vangelo si inserisce nel mondo come la buona notizia, il vero annuncio di salvezza. E l’Apostolo Paolo chiama questo messaggio, destinato da Dio a tutti gli uomini, «evangelo di pace» (Ef. 6, 15).
Ma sarebbe inutile ripetere queste parole, qualora non le si attribuisse un preciso significato; perché potrebbe così avvenire quanto riferisce il Profeta. «Si cercherà la pace, ma pace non vi sarà» (Cf. Ez. 7, 25). «Essi curano la ferita del mio popolo... ma bene non va» (Ger. 6, 14)
Sarebbe vano celebrare la ricorrenza di una liberazione storica, se non si lavorasse effettivamente per costruire una vera libertà, che è componente fondamentale della pace.
Nel senso evangelico, la libertà è sostanziata di contenuti e di valori, che non si possono trascurare o ridurre.
La libertà va affermata non solo per alcuni, per una determinata stirpe o nazione, per un ceto, per un gruppo di parte. La libertà è radicata nel rispetto per ogni persona: non perché questa si impone con la sua forza e intelligenza, perché può difendersi e manifestare le sue capacità: ma per tutti.
Non si può giungere a tale conquista, se non si accoglie l’idea e il valore della fraternità. Questo senso di profonda solidarietà va associato al senso della giustizia sociale e si rende attento e premuroso soprattutto verso i più deboli, i più indigenti, i meno validi, i più indifesi.
Non vi è libertà se non sono garantiti per tutti il riconoscimento dei diritti e la difesa, specialmente per chi versa in pericolo di aggressioni.
Non progredisce la libertà, se non viene favorito un costume, una sensibilità pubblica e privata, di rispetto assoluto.
Se dunque la realtà della liberazione richiama l’idea della libertà, questa va accolta nei suoi valori e nelle sue esigenze: altrimenti sarebbe inconsistente ogni celebrazione. Ciascuna ricorrenza dev’essere infatti fruttuosa e impegnativa.
La storia della nostra Patria (e anche di altri nazioni) ci ricorda che è molto facile perdere la libertà indispensabile per svolgere una vita veramente degna dell’uomo.
Insegna pure che è molto difficile riconquistare la libertà, anche con indicibile e prolungata sofferenza, dopo che si è perduta.
Si ha talvolta l’impressione che molti si siano dimenticati delle estreme difficoltà e dei gravi pericoli vissuti.
Segni dolorosi sono l’odio e la violenza che si vanno estendendo. Ma un segno preoccupante potrebbe essere anche la sfiducia, o la rassegnazione di fronte al male diffuso. Questo è da affrontare e prevenire con quei mezzi che le leggi ancora oggi mettono a disposizione anzitutto di quanti hanno maggiore responsabilità nella vita pubblica e anche di tutti i cittadini, liberi e coscienti.
Abbiamo visto in questi giorni grandi folle riunite per le ricorrenze che interessano la storia della nostra Patria.
Abbiamo visto e vedremo ancora le folle innumerevoli che convengono a Roma da tutto il mondo per l’Anno Santo di riconciliazione.
Queste realtà hanno valore nella misura in cui sapranno suscitare quel clima di fraterna comprensione e di decisa partecipazione, che occorre intensamente alimentare.
Ripetiamo le grandi parole di pace, di giustizia, di fraternità e di moralità, ma ne richiamiamo nello stesso tempo i contenuti e la sostanza, per poi inserirli nel tessuto della convivenza umana e, prima ancora, nella profondità del cuore e della vita.