Niente di più urgente e di più doveroso, insegna S. Ambrogio, che il ringraziare.
Compio adunque in questo momento gradito e dolce dovere e innanzi tutto rivolgo a Dio il mio fervido grazie per questi cinquant’anni di sacerdozio, che sono stati ricolmi di favori celesti, di divine predilezioni. Dal giorno in cui nella vetusta Cattedrale della mia Piacenza le sante mani del mio Vescovo santo, Monsignor Scalabrini, si posavano sul mio capo e colle sacre unzioni mi conferivano l’altissima dignità di sacerdote; dal giorno in cui nella mia parrocchia dedicata a S. Pietro, salivo la prima volta l’altare, come in questa veneranda Metropolitana allo stesso Apostolo sacra, l’ho risalito dopo cinquant’anni, quale cumulo di immensi doni si sono versati dalle mani di Dio sopra di me, indegnissimo e immeritevole di riceverli. Sieno grazie al Signore della sua infinita bontà! Quando nel 1932 celebravo il venticinquesimo dell’Episcopato, ricordo, che affermai aver voluto il Signore fino all’ora, guardando alla fragilità delle mie forze, risparmiarmi molte croci, e non caricarmi di troppe sofferenze. In verità, al compiersi del mio cinquantesimo di sacerdozio, debbo dire che in questi ultimi anni la croce non é mancata, e soprattutto in questo quinquennio, quando scatenata l’immane catastrofe della guerra ho dovuto assistere, partecipare a tante scene di pianto, subire tante devastazioni, tante rovine, veder sparso tanto sangue e sapere barbaramente uccisi tanti miei dilettissimi figli spirituali, e fra essi ancora sacerdoti miei carissimi e degni e giovani chierici colpiti crudelmente tra il vestibolo e l’altare come i profeti d’Israele, indubbiamente provocando o presto o tardi gli inevitabili castighi, che la Divina giustizia non manca mai di infliggere, inesorabile, su chi osa empiamente di mettere le mani sacrileghe sugli eletti del Signore. Sta scritto: "Nolite tangere christos meos". Ma anche delle croci dobbiamo rendere grazie al Signore e più vive grazie, quanto esse sono più dolorosi e pesanti, poiché é la croce la via regale per giungere al Cielo, battuta dal Santo dei Santi - Gesù Cristo figlio di Dio - dalla più santa delle creature - Maria - da tutti coloro che in Cielo sono redimiti della corona della eterna gloria. Dunque in questo giorno di letizia e di riconoscenza sieno grazie al Signore anche delle croci delle quali ha voluto infiorare la mia vita sacerdotale ed episcopale specialmente in questo ultimo e soprattutto di quelle croci, preparate dagli uomini che si fanno tormentatori dei loro fratelli e dei loro padri e sono poi da Dio lavorate magistralmente e delicatamente da buon padre e da savio medico, perché sieno sorgenti di merito e di santificazione, di salute temporale ed eterna.
Rese grazie al Signore debbo ringraziare dal profondo del cuore quanti mi hanno fatto del bene, hanno con me collaborato nel sacerdotale ed episcopale ministero, quanti oggi con me rendono grazie al Signore per le sue ineffabili e divine misericordie.
In primo luogo l’Augusto Pontefice che con la preziosa lettera autografa, testè a voi letta da questo luogo, ha voluto essere presente colla voce di preghiera e di augurio paterno a questa armonia di voci e impreziosire questa data giubilare colla indulgenza plenaria che, impartendo nel suo nome la Benedizione Apostolica, sarà elargita a voi tutti, figli e fratelli carissimi, dopo il solenne rito pontificale, come é prescritto, nella festa dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo in questa nostra Metropolitana, che in quel giorno si allieta e si adorna come sposa, che vada incontro e festeggi il suo sposo.
Grazie a voi tutti d’ogni ordine, Autorità e cittadini, uniti in un sol cuore intorno a me.
Ma come potrò rendervi grazie che non sieno solo espressione del labbro, ma sieno una dolce e feconda realtà?
Ogni giorno, assunto il Corpo santissimo di Gesù nella comunione della Messa, la Sacra Liturgia ci mette sul labbro con impeto poetico e profondo entusiasmo le parole tolte dai Salmi: quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? Che cosa renderò al Signore per tutto quello che Egli mi ha dato? E risponde: io prenderò il calice della salute e invocherò il suo nome potente. Calicem salutaris accipiam et nomen Domini invocabo. L’ho dette queste parole or ora all’altare e le ho dette con il più vivo sentimento di fede e con un fervido palpito di amore paterno. Le ho dette al Signore e le ho dette per voi. Prenderò il calice della salute, col Sangue divino dell’Agnello senza macchia, sangue che ha voce più potente ad implorare grazie, che quella del sangue innocente di Abele. E quel Sangue divino dirà al Padre Celeste un grazie infinitamente efficace, per tutto soddisfare il debito della mia intensissima gratitudine al Signore. Ma lo ho detto anche per voi per soddisfare il debito della mia gratitudine anche verso di voi, ho invocato il suo nome potente, colla virtù di quel Sangue divino. E due doni ho implorato, con gemito di padre dal profondo dell’anima. Il dono di una viva, grande, inconcussa fede, il dono di una infiammata, ardentissima carità.
Il dono di una grande fede! E’ il dono di cui ha bisogno questa povera umana famiglia in quest’ora. Non sente la Fede, non la gusta, non la vive! Il mio Santo Vescovo Monsignor Scalabrini nel giorno stesso della mia sacra ordinazione, dopo pochi momenti dal sacro rito, rivolgendo a noi - diciotto novelli sacerdoti - la sua paterna parola nelle sue stanze (e io non le dimenticai mai quelle grandi e sante parole e le ho ripetute spesso ai miei sacerdoti novelli) ci disse: siate santi preti e toccherete il soprannaturale colle mani! Il soprannaturale! Ecco quello che non si sente, si attenua, si oscura anche nei cuori e nelle menti dei buoni. Dio, anima, eternità. Non ho mai potuto comprendere come uomini, che io penso dicano in piena sincerità di volere il bene del popolo, possano così tenacemente cercare di rapire al popolo e agli uomini: Dio e l’anima, negare il soprannaturale. Senza Dio, senza anima, senza eternità che cosa é l’uomo? No! In alto i cuori e la mente, solo così si spiega l’uomo, il suo genio, la sua vita. Questo grande dono dal fondo del mio cuore io invoco in questo giorno a tutti i miei figli che mi circondano e mi fanno festa.
E il dono della carità, dell’amor fraterno: il dono grande che recò sulla terra il Figlio di Dio, che luminoso scrisse come il programma, il contrassegno della sua famiglia, che fiammeggiò nel suo cuore e dal suo cuore vuole fiammeggi in tutti i cuori dei suoi discepoli, dei suoi figli. Ahimè! Con quale profonda angoscia ho veduto e veggo ancora l’odio oscuramente propagarsi in mezzo a noi, le vendette correre feroci di casa in casa, il sangue arrossare le nostre vie; le vie della città già martoriata dalle inumane azioni di guerra; le vie delle campagne devastate dai saccheggi e dalle omicide armi che il genio umano scoprì in meravigliose forze della natura, e che avrebbe dovuto soggiogare per il benessere dell’uomo, secondo il divino piano della creazione. Amiamoci! Questo ho implorato ed imploro per tutti voi figli carissimi, qui presenti o sparsi in tutta la mia diletta Archidiocesi e che vi stringete intorno al vecchio Padre, che celebra la sue nozze d’oro, per offrire il divin sacrificio dell’amore. Ne’ cuori si spenga l’odio, dalle mani cadano tutte le armi!
Dopo tanto patire, dopo tanto lutto, dopo tante lagrime, dal Cielo la candida colomba apportatrice di letizia e di pace scenda spiegate le sue due belle ali d’argento: la fede e la carità: e in tutte le case e in tutti i cuori porti il ringraziamento affettuoso e l’affettuosa benedizione del Padre, che risalito l’altare nella spirituale giovinezza del Sacerdozio di Cristo, il quale mai invecchia, dopo cinquant’anni dalla prima messa, ripete festante: nella viva fede e nell’amor fraterno sia in voi e per voi sempre la vera pace, la pace, che l’umanità, non solo stanca ma affranta, invoca dai grandi e dai piccoli.