Non ho più parlato con nessuno da quando partii da S. Giovanni, in quella sera dell’uno febbraio che chiudeva una storia, una lunga storia di quasi 23 anni, per me la più interessante della mia vita.
Non ha parlato neanche coi tanti (e chiedo scusa, ma risponderò) che sono venuti a parlare con me, compiegati nel fragile velo di carta, col quale, a volte almeno, si dice di più parlando di meno.
Avevo pensato a dir vero, di far giungere un saluto ad ogni famiglia, da Voce che chiama, il saluto del commiato; ma poi, stordito com’ero al mio arrivo mi ero messo in posizione di folle, in attesa di ingranare la marcia, in avanti.
Solo l’invito squillatomi dal telefono mi ha scosso, e di buon grado l’ho accolto.
Ora le labbra non si contraggono più non mi tremano più, le parole sono più calme.
Forse saranno meno ispirate di quelle che escono di getto in momenti di forte emozione, attingendo alla vena di quel mistero che portiamo qui dentro, che improvvisamente colora e riscalda e dà volume al nastro di quel famoso “quotidiano”, prossimo e remoto, che pareva tanto monotono e quasi insignificante.
Parlo a voi.
E sono contento di indirizzare a Voi, a Voi Tutti indistintamente. Diecimilatrecentosedici, le prime righe che mi escono dopo
la partenza.
Duro e fortissimo è stato questo gennaio trascorso, dal 5 al 31; da quando cioè seppi esaudita la mia domanda all’ultimo giorno della mia cura pastorale in mezzo a voi.
I miei preventivi, frutto di tanta riflessione, maturati pensando e pregando, mi sono spariti: mi sono trovato così in una S. Giovanni, in un paese di sogno, senza passato, per così dire, perché disancorato ormai dai ventitrè anni persicetani, e senza futuro, perché privo di esperienza del mio domani.
Direte: dove sono allora quei famosi sessantanni che non le sono serviti neanche per un progetto di così facile redazione?
Penso che possiamo chiamarci tutti in colpa, voi e me.
Voi mi avete parlato di un Don Guido che io sinceramente non conosco.
A mia volta, io che pensavo di conoscervi tanto, vi ho visti e vi ho sentiti come non mai.
Ho letto tante lettere; mai ne avevo avute di così belle, toccanti e commoventi; ho incontrato tante persone che mi parlavano con autenticità; ho viste tante lacrime; mi pareva di sognare ad occhi aperti.
Tante e tante cose ho visto in questo mese!
Duro e fortissimo è stato questo gennaio!
Debbo aggiungere che è stata la pagina più religiosa della mia esperienza persicetana e della mia vita.
Non mi sono illuso, non mi sono esaltato, ma penso doveroso riconoscere che se al filtro di una realtà fredda e senza suggestioni si arresta una dose abbondante di emotività momentanea, resiste però un forte senso religioso che ha radici profonde nello spirito.
Ho visto che le anime si intendono anche a distanza, e a volte inconsapevolmente, comunicando tra loro con canali potenti: il pensiero ricorrente, sollecito del loro bene, la sofferenza, il dialogo con Dio; ho visto alcuni che, anche col tono del linguaggio sembrava venissero a dare risposta a tanti pensieri, a loro segretamente rivolti, a tante parole dette per loro al Signore.
Ho visto che la bontà rende parenti; e saldo è il vincolo di questa parentela. La memoria, il cuore, potranno anche fallire, ma il vero bene incide lo spirito; e ciò che è scritto nello spirito non si cancella.
Ho visto la Chiesa, bella, giovane, senza rughe, con il cuore acceso di amore e di bontà, viva nel battesimo e nella fede in Cristo, in Cui siamo famiglia.
Ho vissuto un mese di dolore e insieme di intensa gioia; ringrazio e benedico il Signore perché ho sentito fortemente la paternità che Egli mette nel cuore dei suoi sacerdoti.
Bella e grande e forte è l’avventura del sacerdozio.
Ho avvertito che bisogna sempre più aprire le porte della Chiesa, e prendere il largo; e tanti faranno schiera con noi ed entreranno.
Sono partito col cuore e con gli occhi in piena, e con una punta amara. “Che cosa Le abbiamo fatto?” “Questo è un dispetto che ci fa. ”
Queste ed altre frasi martellate a cadenza mi hanno ferito; partendo ho avuto quasi l’impressione di passarvi sopra, facendo male a voi ma specialmente a me, quasi non curante del vostro affetto.
Questo mi ha fatto triste, il non essere cioè riuscito a convincervi delle motivazioni di questa mia decisione, motivi che vi lessi e vi dissi in Collegiata in quel 24 gennaio in cui il cielo piangeva con noi.
Ora basta!
Non so perché con tanti capitoli di storia comune di questi anni, pieni di tanti ricordi, non sia riuscito a togliere l’occhio da questo epilogo; forse perché è vivo ancora ed ha avuto punte che sanno di dramma.
Vi rinnovo il mio “GRAZIE”!
Tu Don Giovanni, con la tua voce di punta, cantalo a tutti il “GRAZIE”, a te per primo, a Don Carlo, a tutti per quanto avete fatto in tanti anni, per i doni di cui mi avete arricchito alla partenza, per la sopportazione che mi avete usato.
Ho visto in voi la bontà di Dio e la sua misericordia che tanto sa compatire e perdonare.
Grazie per avermi decorato del vostro affetto e del vostro pianto.
E ora un compito nuovo attende voi e me.
Voi vi preparate all’incontro con il nuovo Pastore; io mi preparo all’incontro con la nuova famiglia.
Facendo questo passo ho creduto di compiere il mio dovere, animato dalla certezza, non dico fiducia ma certezza, che giorni belli e ricchi di tanto bene verranno per S. Giovanni.
Tutti saluto, particolarmente quanti portano più marcati i lineamenti di Cristo, i sofferenti, i bisognosi, bianche e neri, voglio dire “Makiro” il cui gemellaggio, sono certo, non sarà tradito.
Saluto i persicetani della diaspora, in Italia e nel mondo, specie quanti tenevano corrispondenza e beneficavano la loro terra natale.
Sei bella nella tua Collegiata sempre in aria di festa.
Sei grande nel tuo cuore sempre aperto a bontà.
Persicetano fui e resterò, perché anche partendo ti porto con me nel cuore.