Dai canapini ai centri professionali. E altro

Gianfranco Bongiovanni, già consigliere comunale, poi vicepresidente a Bologna delle ACLI e presidente di MCL (Movimento Cristiano Lavoratori)

L’incontro con mons. Guido Franzoni ha segnato un momento di svolta nella vita non solo mia ma in quella di molti giovani della mia generazione. Una svolta sia per quan­to riguarda la vita spirituale e religiosa sia per l’impegno civile e sociale.

Mons. Franzoni, per noi sarà sempre e solo ‘don Guido’, continuava la tradizione di quei sacerdoti (e laici) che alla fine dell’ottocento e all’inizio del secolo scorso crearo­no e avviarono una serie di opere e di iniziative a favore delle categorie più povere ed emarginate avendo come punti di riferimento le encicliche ‘Rerum Novarum’ di Leone XIII e la ‘Quadrigesimo Anno’ di Pio XI.

Casse rurali, cooperative di consumo, di produzione e di lavoro, centri per la forma­zione professionale, specie per le donne, hanno segnato momenti e traguardi significa­tivi nella trasformazione in opere concrete della Dottrina Sociale della Chiesa. Erano e sono ancora la risposta all’indicazione dell’apostolo: “ Cos’è la Fede senza le opere?” A questo proposito, appena giunto a San Giovanni in Persiceto, don Guido diede subi­to assistenza ed impulso alla cooperativa dei canapini e a quella di consumo.

La ‘cooperativa di produzione e lavoro’ (chiamata appunto ‘cooperativa dei canapini’) dava lavoro ad un gruppo di soci e socie specializzati nella lavorazione della canapa. Sede: alcuni capannoni in via Modena appartenenti al consorzio Nazionale Canapa. Durò fino a quando venne a cessare la coltivazione della materia prima.

La cooperativa di consumo delle “ACLI”, invece, è durata fino al momento in cui terminò la sua funzione sociale.

Fin dal 1950 don Guido collaborò con suor Nazarena Vecchi (a cui in seguito si ag­giunsero suor Marina e suor Anna) per avviare un laboratorio di maglieria e sartoria che consentì a centinaia di ragazze di trovare poi un’occupazione. Ebbe così inizio quell’opera che nel tempo si è ingrandita e consolidata ed oggi porta il nome di Fon­dazione Opera Madonna del Lavoro (FOMAL).

Notevole fu allo stesso tempo la volontà di don Guido di ottenere un moderno centro di formazione per giovani, di grandi dimensioni e al servizio della plaga persicetana: il centro INAPLI, (oggi ‘Futura’). Esso fu il risultato di una visione realistica dei pro­blemi del lavoro, accompagnata da un’intelligente strategia per realizzarla. Prima ci fu l’acquisizione del terreno (generosamente donato dall’industriale molitorio Cav. Tam­buri), poi la faticosa e sofferta opera di convincimento per indurre l’Inapli (organismo a carattere nazionale) a costruire un nuovo centro proprio a San Giovanni utilizzando quello stesso terreno gratuitamente messo a disposizione dalla Parrocchia.

Posso testimoniare personalmente della fatica e degli sforzi di don Guido per realizzare tale progetto, alla fine andato bene in porto, perché in piccolissima parte vi ho partecipato. Un breve riassunto di molte giornate. Partenza per Roma alle 3 del mattino in mac­china, poi ore nelle anticamere di dirigenti, funzionari, amministratori. Con tenacia e testardaggine dovute al profondo convincimento della bontà dell’iniziativa, lentamen­te si intravede uno spiraglio, infine si riescono a scardinare porte che non volevano aprirsi. Poi alle quattro del pomeriggio si riparte per Persiceto, col solo conforto di un panino ‘autostradale’. Altrettanto importante è stata la cura dedicata alla formazione religiosa e a quella sociale. Altri scriveranno della prima e io qui vorrei sottolineare l’impegno e la passione che don Guido profondeva per convincere i giovani a parteci­pare attivamente alla vita sociale e civile.

Questo era in sintesi il suo insegnamento: è dovere del cattolico contribuire alla co­struzione di una società giusta, apportando idee e proposte che traggano origine dal Vangelo e dagli insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa. Contribuire, non imporre. “Compito nostro è seminare e testimoniare; tocca ad altri far germinare. Il raccolto sarà per il bene di tutti”. Anche se la testimonianza comporta impegno, sofferenza, a volte incomprensioni e duri sacrifici, anche estremi, come la dolorosa vicenda di Giuseppe Fanin dimostra.

“Don Guido, studioso ed entusiasta delle idee cristiano-sociali dei filosofi francesi Mounier e Maritain, era convinto che i cattolici avessero il dovere civico e morale di partecipare alla vita pubblica apportandovi il contributo dei loro ideali, formazione e capacità umane al fine di costruire una società veramente libera e giusta nel pieno rispetto dei diritti della persona umana. Molti giovani dell’Azione Cattolica locale re­cepirono il messaggio ‘martellante’ del loro parroco e incominciarono ad interessarsi attivamente alle questioni politiche, sociali e sindacali del nostro comune, assumendo poi in breve impegni ed incarichi non solo locali e non solo nelle organizzazioni cat­toliche” (Citazione da un mio intervento pubblico per commemorare Alberto Candini, persicetano, giornalista, politico, già segretario nazionale di Gioventù Aclista).

Partecipare alla vita pubblica non è semplice. Impegnarsi come amministratori, as­sumere incarichi o partecipare a pubblici dibattiti (succedeva molte volte in passato), parlare in piazza... non è mai facile; specie quando facilmente si può essere presi dal panico. Ricordo la prima volta che dovevo partecipare ad una manifestazione pubbli­ca su problemi che riguardavano il nostro Comune. Don Guido, a cui rivelai che ‘non me la sentivo’, mi convinse con un ragionamento che mi rimase impresso per sempre: “Hai qualcosa da dire? Ti alzi, la esponi nel modo più semplice, onesto e conciso, poi ti siedi”.

Il cattolico impegnato nel pubblico, sotto qualunque forma, doveva (e deve) agire con spirito di servizio e mai con la prospettiva di trarne benefici personali. Seguendo questi principi di base, a volte potevano nascere dubbi sull’azione pratica da seguire in un certo problema complesso e allora trovavamo sempre in don Guido un punto di riferimento per averne un saggio consiglio interpretativo.

Questo per sottolineare che mons. Franzoni non abbandonava mai coloro che aveva spinto e convinto all’impegno pubblico.

Ricordo, ero capogruppo di minoranza, quando vennero trovati numerosi resti umani senza identificazione in un podere vicino al Poggio e feci al proposito un’interpellanza consigliare. Si era ancora molto vicini ai fatti violenti accaduti durante la recente guer­ra e immediatamente dopo il suo termine. Fatti di cronaca allora, non ancora di storia. Più di una trentina di persone persicetane erano scomparse da poco, ‘probabilmente’ per rappresaglie politiche od odi personali e non se ne sapeva più nulla. C’erano fon­date ragioni, in don Guido e nell’immaginario collettivo (e anche nella sentenza finale del Giudice istruttore), per collegare quei poveri resti alle persone sottratte localmente all’affetto dei loro cari.

Seguirono alcune polemiche ma posso affermare in tutta coscienza ed onestà che la cerimonia funebre voluta dall’arciprete per quelle bare anonime fu un chiaro e dovuto atto di carità, di pietas cristiana, per poter seppellire in terra consacrata quei resti.

E l’appello di don Guido di conoscere, anche per via anonima, i nomi dei morti, sareb­be servito per rimarginare definitivamente le ferite negli animi, permettendo a mam­me, spose e figli di piangere finalmente i loro cari in tombe a loro dedicate.

Una delle opere di misericordia personale a cui i cristiani sono da sempre dovuti è ‘seppellire i morti’. Ricordo che era stato proiettato alcuni anni prima al cine Fanin, con dibattito (cineforum) un bel film giapponese (L’Arpa Birmana di Ichigawa): un soldato giapponese al termine della guerra in Birmania diviene bonzo e dedica il resto della sua esistenza a raccogliere le salme dei suoi commilitoni e dare loro la dovuta sepoltura.

Don Guido citava spesso quel film ed ammirava molto il fratello don Enelio che anche dopo il ritorno dalla prigionia si recava spesso in Russia alla ricerca e al rimpatrio dei resti degli alpini morti durante la ritirata e inumati in quella terra. Penso che bastino questi accenni per chiarire il comportamento corretto e religioso del nostro parroco an­che in quella circostanza. Se poi moderne indagini scientifiche dovessero confermare che i resti del Poggio si riferiscono davvero a corpi di persone vissute in un passato più remoto, rimarrebbe sempre sospeso, forse per sempre, l’invito di don Guido a dare se­poltura cristiana a quella trentina di cittadini di cui da sessant’anni non si sa più nulla.

I 23 anni che mons. Franzoni ha trascorso a San Giovanni come parroco hanno lascia­to un profondo e positivo segno che quasi tutti i persicetani oggi riconoscono. Non a caso gli venne concessa la cittadinanza onoraria dall’amministrazione comunale nel 1993. Da parte sua don Guido ha voluto consolidare il profondo affetto che lo univa e per sempre lo unisce alla nostra comunità realizzando il desiderio, espresso nel suo testamento, di riposare nella nuda terra del nostro vecchio cimitero.