Il bancone del bar e il cioccolatino.

Giorgio Borghesani, artista, da anni trasferito a Palestrina (Roma)

Frequentavo l’Istituto Statale d’Arte di via Cartolerie a Bologna quando nell’opera parrocchiale G. Fanin si stavano ultimando alcuni importanti lavori di finitura interna.

Un mio carissimo professore, architetto Focaccia, aveva ricevuto l’incarico per tali lavori e mi chiese se ero disposto a dargli una mano; non sembri ora tanto strano che un alunno possa dare una mano ad un professore: la scuola che frequentavo non aveva il compito di formare artisti bensì bravi artigiani con doti “artistiche” e ci si cimentava con l’architettura, col disegno dal vero, con la ceramica e il legno, con la creta e con la decorazione pittorica; proprio con quest’ultima mi stavo impegnando e il buon Focac­cia mi incaricò di eseguire la decorazione del banco del Superbar che stava nascendo. Con grande entusiasmo mi misi all’opera lavorando sodo: nove metri per 70 centime­tri di cristalli da decorare con foglia d’oro, smalti e lavorazione particolarmente im­pegnativa in quanto svolta a specchio, cioè rovesciata rispetto alla visione definitiva.

In quel periodo avevo l’abitudine di recarmi in canonica quando il pranzo (chiamia­molo così) non era ancora finito e con la scusa di aspettare il momento del caffè mi piaceva partecipare all’argomento del giorno quasi sempre proposto da don Guido. Solo oggi mi domando come mai mi fosse permesso di partecipare a quei conversari, ospite non invitato ma epidermicamente sempre ben accetto: la canonica era quasi una seconda casa per me. Alle volte arrivava anche don Enelio. Fratello un po’ più minuto del parroco, ai miei occhi appariva grandissimo per via di quella medaglia d’oro al valor militare conferitagli per la sua carità verso i commilitoni durante la prigionia in Russia. Altre volte c’era don Antonio Pasquali e così via, ma i ‘pranzi’ erano sempre frugalissimi e si concludevano con l’immancabile caffè (almeno una portata ‘forte’!).

Don Guido, pur con tutti i pensieri volti a reperire fondi e finanziamenti per l’opera Fanin, dedicava sempre un’attenzione particolare ai problemi dei suoi parrocchiani. Erano gli anni della ricostruzione, quelli in cui le preoccupazioni non mancavano. Il parroco aveva sempre in mente in particolare i ‘suoi’ malati e non mancava mai di visitarli; conosceva per nome tutti i parrocchiani ed oltre alle parole buone elargiva ciò che poteva, in segreto, ai più bisognosi. Aveva bisogno anche lui, non per sé (di cui… non si curava tanto) ma per l’opera che portava il nome di “Pippo” Fanin; allo­ra partiva di notte col treno (mio padre era capostazione e lo salutava) per arrivare a Roma il mattino presto ed essere il primo davanti all’interlocutore di turno: qualcosa il ministro gli avrebbe concesso dopo le sue parole tanto convincenti! E al ritorno verso sera, con il suo sorriso alla Charlton Heston, portava a San Giovanni i fondi necessari e l’ottimismo per un futuro migliore.

Complessivamente una ventina d’ore tra andata e ritorno con lo stomaco riempito da un solo cioccolatino e il senso di colpa per la golosità!!!!

(quel cioccolatino gli fu offerto una volta da mio padre in stazione: ecco perché ne sono a conoscenza).

Uomo frugale per sé ma ‘concreto’ con gli altri, quando chiesi di essere pagato per il mio lavoro, durante uno dei soliti momenti del caffè in canonica, mi rispose che sarei stato io a dover pagare… in quanto la mia opera, esposta al tanto pubblico del bar Fanin, sarebbe stata un bel biglietto da visita per me: tutta pubblicità gratuita a mio favore.

D’istinto mi sentii offeso e minacciai di dare una martellata ai cristalli senza aver capito la bonaria provocazione del parroco sornione. Sapeva anche ridere, come in quell’occasione, e non solo sorridere. Spesso vedeva più in là degli altri.

Fui naturalmente remunerato poiché don Guido non evitava di concedere la ‘giusta mercede agli operai’… magari cercando di risparmiare un po’.

Volle sapere il mio parere sul nuovo altare, sul nuovo organo: i nostri pareri artistici erano a volte discordi ma alla fine sempre aveva (o avrebbe poi avuto) ragione lui.

Ho un indimenticabile ricordo di don Guido e nelle ormai rare volte che tornando a Persiceto riesco a fare una visita al cimitero, non posso fare a meno di riflettere sulla croce della sua tomba da lui voluta sulla nuda terra.

A volte abbiamo discusso anche con foga, caro don Guido, ma ti voglio sempre bene, altrimenti perché mai avrei chiamato mio figlio col tuo nome?