Ero comunista?

    Questa domanda me la faceva in tutti i toni, dal piattissimo al tempestoso, ed insistentemente, il clero di Hong-Kong. E dietro la domanda — mi accorsi ben presto — c'era la certezza che qualcosa nelle prigioni di Mao mi aveva travolto ed aggiogato al carro di Marx.
    Ma, ero comunista?
    È l'interrogativo che pongo alla mia coscienza nel tentativo di capire, da una posizione di recuperata libertà, i fenomeni della mia lunga odissea e della tremenda prigionia.
    Li ricordo come un film di sogni e di spettri. Oggi mi pare assurdo che i miei confratelli potessero buttarmi in faccia quella domanda e tenersi in cuore quella certezza. Ma tant'è; essi piansero per il rimbecillito P. Tiberi fattosi comunista!
    Il verdetto fraterno di Hong-Kong che ora sono in grado di valutare, mi dà la misura degli orrori che si vivono nelle bolge del comunismo e del mio annichilimento psichico. Mi fa spavento. Ancora tremo.
    Che cosa c'era segnato sul mio volto? Di che cosa erano intrise le mie parole, quando giunsi ad Hong-Kong, perché i Missionari diffidassero di me? Che avevano messo nell'anima mia gli apostoli e gli aguzzini di Mao perché i miei fratelli tenessero e temessero questo povero fraticello come un agit-prop. del bolscevismo?
    Ritornavo con la coscienza di non aver tradito la Fede che mi spinse in Cina, anzi di averla difesa e collaudata con mesi di torture, sempre anelando il riabbraccio dei miei commilitoni; invece trovavo la loro fraternità congelata dalla persuasione che P. Fortunato non c'era più. Quello di Hong-Kong era il compagno Tiberi!
    Si vede che allora, nell'eclisse di me in me, avevo smarrito proprio la bussola e l'alfabeto, che non riuscivo più a distinguere le tesi della mia ortodossia dalle antitesi dell'ideologia rossa. Credevo di essere stato fedelissimo e intanto crollai; m'illudevo di farla da leoncello mentre mi cambiavano, scientificamente, in pecora...
    Brutta metamorfosi: un frate che diventa pecora rossa! Senza accorgermi, pian pianino, ma inesorabilmente.
    Il nemico contro il quale avevo lottato con tutte le forze, a cui più di tre volte avevo cantato la gioia del martirio, entrò, clandestino, nelle mura della mia cittadella per distruggerla e riedificarla secondo lo stile delle cinque stelle.
    Ma è poi vero tutto ciò? Ero proprio — e fino a che punto — sconvertito? Ricordo che, giunto ad Hong-Kong, mi chiusi in un mutismo quasi assoluto. Non era melanconia, né stravaganza, né emozione, né intontimento per il ritorno improvviso dalla schiavitù alla santa libertà; era invece in me un proposito freddo, lucido di non aprire bocca per lamentarmi della mia via crucis cinese. Nulla di logico o di calcolato in quel mio proposito. Non partivo da nessuna premessa né miravo ad alcuna finalità. Quando la tentazione di parlare mi tremava sulla lingua, le labbra mi si chiudevano come una morsa di silenzio.
    Io considero questo fenomeno una conseguenza della tortura morale cui venni sottoposto: quell'inumano stillicidio di interrogatori e confessioni ripetuto all'infinito, quell'incubo creato dall'alternarsi incessante di speranza e di delusione, l'immobilità e l'isolamento assoluti, l'insonnia e la fame prolungate, e quei ferri!... alla fine sgretolano la personalità; si annienta ogni potenza di resistere e la vittima cade umiliata ai piedi degli assassini, confessa colpe mai commesse, ringrazia con immensa gratitudine del capestro che gli si stringe al collo, non osa pronunciare una parola di critica per i suoi carnefici. Anzi, li loda. I comunisti conoscono ben quest'arte!
    Così io credo. E così spiego tutti i capitoli della mia cronaca rossa e nera fino alla grande promessa dell'ultima ora, fino al mio pugno chiuso. Non ero più compos. Sfinito e svilito, si va a cadere, più per fatale psicologico che logico, nel meccanismo degli automi. Ad Hong-Kong, specialmente chi mi conosceva, si aspettava di rivedere il «duce della resistenza cattolica». Ma dov'era più «l'eroe di Pechino?». C'ero, tra essi, ma non più quello. Mi sognavano escandescente come un ferro appena cavato dalla forgia; e mi rividero nello scandalo dell'indottrinato che non diceva più neppure «Cristo vincerà!».
    Se parlavo, parlavo pro comunismo. Esageratamente, con superfanatismo, polverizzavo le obbiezioni del «clero» legato — con le corde del Vaticano — ai preconcetti della vecchia mentalità borghese e poi, con occhio di profeta e mimica di tribuno popolare sgranavo il rosario glorioso della pace, della giustizia, del pane. Come Di Vittorio! Cristianesimo sì, ma quello di Cristo e non quello di marca U.S.A.
    Ero pazzo?... Forse un pochino. Molto più ero squinternato; come chi non sa quello che dice e dice ciò che non vuole.
    Agli psichiatri l'ardua sentenza! È un fatto che sotto i tormenti dei primi mesi di prigionia, agognavo di uscire per gridare a tutto il mondo la perfidia diabolica del partito comunista. Poi, durante il periodo d'indottrinamento, il desiderio mi si illanguidì fino al punto da apparirmi una tentazione che ricacciavo in corpo al diavolo. E dopo la mia liberazione, avendo in animo di continuare il mio lavoro missionario in Giappone, mi ero imposto il riserbo in materia di comunismo. Qui il mio catecumenato proletario si sposava con la fifa di ricadere — non si sa mai — sotto i tribunali del popolo nipponico, in un domani che pure il Giappone fosse diventato terra rossa.
    Dunque, ero comunista? Se sì, come ero giunto dal Vaticano al Cremlino, da Pio XII a Mao?...
    Il mio dramma può essere — come tanti altri — un grosso problema di psicanalisi. I fatti sono quelli che furono; piccola storia di un piccolissimo frate. Ed ognuno è libero di vedere e di giudicare. A me basta per adesso il giudizio della mia coscienza e domani quello di Dio. Che spero favorevole.

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    Qualcuno aveva avvertito Mons. Riberi, ancora ad Hong-Kong, della mia metamorfosi compagnarda. Ci sentimmo per telefono e ci rivedemmo nella sua dimora.
    L'incontro fu simpatico e commoventissimo.
    — Ah! tu saresti la mia spia segreta di Pechino!? Bravo, senza di te, sarei stato all'oscuro di tutto. —
    La conversazione durò cinque ore, più il tempo della colazione; egli si interessò particolareggiatamente di tutto.
    Infine, elogiando, con evidente larghezza, la mia «preziosissima, unica ed importantissima esperienza che rivela tutto il metodo comunista», mi comandò di stendere subito una breve relazione che sarebbe «rimasta solo negli archivi segreti»; appena arrivato in Italia, avrei dovuto scrivere un libro!
    Fu quella udienza a ridonarmi la prima serenità.
    La proposta di scrivere l'accettai, in un primo momento, come una condanna; ma poi le infinite insistenze di tanti e tanti mi convinsero che un pizzico di bene avrei potuto farlo per qualche ingannato che ancora s'illude. Così nacque questo libro.
    So di avere appena scritto l'indice, qualche frammento, pochi attimi... E la mia penna non ha nulla di magico né di aristocratico. Ma non era in voto di fare «un bel libro». Ho cercato semplicemente di rivedermi e di rivedere il processo che ebbe come imputato me. Nient'altro! Sarà una testimonianza per quelli che mi considerarono un Sacerdote finito e per gli altri che mi attaccarono l'etichetta di... minorato.
    Per i compagni di Pechino e per quelli d'Italia sia una pubblica diffida, senz'odio e senza odore di rappresaglia, ma schietta, incondizionata e francescana.
    «Ciò che hanno fatto a me, lo faranno anche a voi».
    Ho la coscienza di aver partecipato alla passione di Cristo in quella parte del Corpo Mistico che è la Cina. Perdono tutto a tutti. E ringrazio Dio che mi ha concesso di ricominciare una seconda vita italiana. Mentre aspetto — con la preghiera e con la speranza — di ricominciare la mia seconda vita «cinese». Ma quando?
    Non lo so. E non lo sa neppure Mao; non lo sanno le guardie delle mie prigioni, non lo sanno i colleghi del mio apostolato, non lo sanno i miei giovani che hanno giurato di perdere la vita piuttosto che perdere la fede, non lo sanno i miei cristiani di Pechino che tanto amo ancora... Dio lo sa; e nel Suo calendario nessuno può leggerci.
    Intanto ho ritrovato il mio breviario, la mia Chiesa, la mia tonaca bruna, il mio bianco Papa, il mio divino Vangelo.
    I libri dell'indottrinamento li buttai a mare anche per non aver noie dagli «imperialisti» di Hong-Kong. Li studieranno i pesci... ed allora anche i pesci prenderanno la tessera P. C. Ma non il frate di queste confessioni, totalmente cattolico ed apostolico.

FINE