Volto ed ombra

    Gli interminabili interrogatori intorno alle mie relazioni con Mons. Riberi, furono preceduti da una nottata di discussioni sulla mia personale opinione riguardo alla triplice indipendenza. Non avevo nessuna voglia né alcuna forza per un dialogo; ricordo tuttavia di aver affermato che l'indipendenza economica e quella di propaganda, in linea di massima, potevano accettarsi senza venir meno ai principi della nostra santa fede; ma l'indipendenza gerarchica, importando una separazione da Roma; no, poi no, assolutamente no!
    — Allora quelli che l'hanno già entusiasticamente accettata, non sono buoni cristiani?
    — Saranno buoni patrioti, ma non buoni cattolici.
    — E che, per credere in Dio, bisogna ubbidire ai comandi imperialistici del Papa di Roma, il quale non è altro che uno schiavo dell'America?
    Esposi brevemente i principi della nostra dottrina cattolica; ma fui interrotto mille volte e maledetto. Almeno, convenne meco che, secondo la libertà di religione, avrei potuto credere alla mia dottrina; il Governo non me l'avrebbe impedito, purché non mi fossi mai ingerito negli affari politici, per separare il popolo dal Governo e per imporre ad esso una fede che non vuole assolutamente credere. «Come tu sei libero di professar la tua fede, così il popolo è libero di combatterla». Poi m'informò che la Direzione centrale dei Comitati cristiani progressisti di Pechino aveva indetto una riunione generale dove si era già proclamata l'indipendenza da Roma.
    Spiegatomi più del necessario il senso comunistico della «libertà di religione» chiuse con una battuta maestrissima: «Non avevano forse essi piena libertà di separarsi dal Vaticano imperialista?».
    — Sì, così come hanno la libertà di andare all'inferno !
    Dopo qualche rimprovero, mi espose la teoria del futuro paradiso terrestre, dove non saranno più necessari i principi della nostra fede «superstiziosa...».
    Nelle notti seguenti gli interrogatori riguardarono le mie relazioni con l'Internunzio e con quel Padre di Hong Kong. Confessai di aver scritto sette o otto lettere all'Internunzio e di averne ricevute da lui quattro o cinque.
    Le domande non finivano più: in quale giorno hai scritto la prima? con quale carta e penna? Con quale busta? Come era intestata? Chi ha scritto l'indirizzo? Dove la scrivesti? In quale stanza? Chi ti vide? Che veste indossavi? Da chi e dove fu spedita? Quale ne era il contenuto? Come incominciava? Come finiva? ecc... ecc... e tutto ciò di ciascuna lettera. Io mi sforzai di dire tutta la verità, salvo le cilecche di miss memoria, ma egli non credette nulla. E così si moltiplicarono all'infinito le funzioni dell'accoccolamento ed altre sofferenze. Dovevo confessare per forza — vero o no — d'essere una spia segreta dell'Internunzio e che sapevo, quindi, tutto di lui.
    Una notte fui interrogato contemporaneamente da sette giudici, e quando stavo per rispondere ad uno, dovevo rivolgermi ad ascoltare un altro, finché mi decisi di non rispondere più a nessuno. Allora il giudice di centro sussurrò all'orecchio di un suo vicino, con l'intenzione di far sentire anche me: «Telefona che venga una macchina a condurlo alla fucilazione!».
    Io capii benissimo che si trattava di teatralità, ma quando mi si disse che se non scoprivo tutte le carte in tavola era già pronta una nuova medicina, piansi, involontariamente, ma piansi. In certi momenti si diventa più che bambini! Non piansi, no, per le atrocità fisiche, ma perché, dopo aver esaurita la sincerità, mi dicevano che nella mia confessione c'era appena un decimo dei miei «misfatti» e di questo decimo la metà era menzogna!
    Mi rispedirono «dove non è che luca». Il vecchio giapponese stava scrivendo; passandogli vicino, tentai di abbassarmi un po’, ma di sfuggita, per leggere l'ora sul suo orologio a braccio. La guardia nel chiudere la porta, avvertì quel mio tentativo; riaprì, entrò dentro e mi gridò bestialmente: «Che cosa gli hai detto?».
    — Niente, non ho parlato!
    — Ardisci negare anche adesso che ti ho inteso?
    Io avevo un sol fiocco di voce, ma lo tirai fuori tutto e con disperato disprezzo dissi: — Se tu ci senti anche con gli occhi o con la fantasia, io non lo so! So soltanto di non aver parlato!
    — Vieni fuori.
    — No ! Il giudice mi ha detto di venire in stanza !
    Con tutta la rabbia provocatagli dall'affronto subito, mi afferrò per il braccio sinistro e mi trascinò nel corridoietto: «Nei miei otto anni di servizio al Governo non ho mai incontrato un uomo così ostinato e caparbio!» Poi pregò l'altra guardia di farmi ripetere l'esercizio dell'accoccolamento; egli andò dal vecchio. Non me la sentivo più di accoccolarmi; mi gettai per terra e preferii di essere pestato e maledetto. Quel brutto ceffo mi disse: «L'altro ha confessato quel che gli hai detto e tu neghi di aver parlato?». Nel dir così mi puntò la rivoltella sul petto: «Dove sta il cuore?». Glielo insegnai con un cenno della bocca; preparò convulsamente la rivoltella per la scarica, mi centrò sul cuore, dandomici un colpo con la canna. Balzai indietro. «Se non mi dici cosa gli hai detto, ti freddo!». Risposi calmo e solenne: «Io non ho parlato, ma se anche lo avessi fatto non te lo direi per farmi freddare; non ne posso più!».
    Non credo di aver parlato un cinese diverso da quello delle altre volte, ma egli: «Cosa hai detto?». Gli ripetei la frase; allora mi fece restare di fuori in piedi fino al giorno dopo.

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    Mi richiamò il giudice a quattrocchi; portando una diecina di buste scritte.
    — Le riconosci?
    — No — risposi io.
    — Va bene, le riconosciamo noi, — e nel dir così tirò il cassetto e le mise dentro!
    — Quanto ti dava Riberi per questo spionaggio?
    — Io non ho mai fatto la spia !
    Mi comandò di ridire il contenuto di ciascuna lettera scritta a Mons. Riberi o ricevuta da lui; e voleva costringermi a confessare e riconoscere che mandare certe informazioni non era altro che svolgere opera di spionaggio e tentare di dividere il popolo cinese. Io non potevo assolutamente né confessarlo né riconoscerlo. Fu così che escogitò un'altra genialissima arte per aumentare la mia tortura.
    Mi rimandò in basso, mentre egli saliva in una cameretta dell'ultimo piano; poi mi richiamò subito in alto per gli interrogatori.
    Appena giunto mi chiedeva: — Riconosci di essere una spia segreta dell'Internunzio?
    — Non posso affermare il falso! — Allora di nuovo, immediatamente in basso; non ero ancora arrivato in fondo che suonava il campanello per richiamarmi di sopra. Ad ogni piano c'era un soldato che mi stimolava a correre. Mi mancava il respiro! Feci questo saliscendi più di una diecina di volte; e per il troppo rumore su quegli scalini di legno mi tolsero gli scarponi. Le scarpe di pezza mi erano diventate piccole per il gonfiore dei piedi.
    Alla fine, non la mia volontà, ma il mio povero corpo, si rifiutò di salire ancora; chiesi una stilla d'acqua, mi si rispose con «umanità indegna di bestie...».
    In seguito gli interrogatori si svolsero ancora tutti intorno al Papa ed al Suo rappresentante in Cina, Mons. Riberi.
    Evidentemente io non potevo chiamare «assassino dell'umanità» Colui che offrì tutto per alleviare i sofferenti, i perseguitati e i prigionieri; non potevo chiamare «sostenitore o sobillatore di guerre» Colui che con le lacrime agli occhi e con tutte le risorse della diplomazia scongiurò gli uomini responsabili a non fare la guerra, l'inutile strage di innocenti, perché «con la guerra tutto si perde, mentre con la pace c'è tutto da guadagnare».
    Fui visitato spesso anche a «domicilio» ! Venivano per seguire meglio le condizioni della mia salute fisica e misurare la mia capacità di resistenza; laggiù non si istituivano degli interrogatori veri e propri, ma semplici conversazioni!
    Un giorno uno di questi giudici mi disse: — Cosa ne pensi del caso tuo? Che cosa dovrebbe fare il Governo popolare con te?
    — Io non posso saperlo, però penso che dovrebbe decidersi per una sentenza che sia più conforme ai principi che sostiene! — Il senso era: quello che fa, fa bene; quello che desidero è che lo faccia presto! Mi rispose che il Governo ancora non poteva agire, perché non aveva gli elementi sufficienti per giudicarmi, dato che io non mi decidevo a confessare; «il nostro sistema è di giudicare un individuo secondo gli elementi che egli stesso presta, pur avendo già tutte le prove per condannarlo; e questo per il principio di misericordia e nell'intento di riabilitare l'uomo che riconosce di aver errato; contrariamente al metodo giudiziale degli imperialisti che mira solo alla sopraffazione del delinquente, senza curarsi neppure della possibilità di una sua rieducazione morale!...».

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    Erano più di tre settimane che non dormivo. In un momento di lucidità decisi di non proferire più neppure una parola con nessuno. Il giorno 24 novembre, commemorazione di Maria Ausiliatrice. mi raccomandai a Lei così: «Mamma buona ! Tu lo sai se il Signore ha stabilito che io debba morire qui o no! Se io non dovessi uscire più da questo Getsemani, pur rimettendomi completamente nelle Tue Mani. Ti scongiuro con tutta la forza del mio essere a volermi abbreviare queste ore di agonia! Se poi il Signore avesse stabilito di non farmi morire qui, esaudisci pure presto la preghiera che tante anime buone ti rivolgono per
    me!».
    Qui emisi un piccolo voto privato! Con la sconfinata fiducia di essere in ognuno dei due casi esaudito, confermai il proposito di sigillarmi le labbra.
    Proprio la sera del 24 il giudice voleva sapere in che modo il Vaticano svolgesse opera di spionaggio in combutta con l'imperialismo americano e in che modo il Papa si fosse legato così strettamente alla causa degli imperialisti, e perché! Fui tentato d'infrangere il silenzio per difendere il Papa; ma l'esperienza mi spiegò l'inutilità della mia risposta, e tacqui.
    Il giudice, già rabbiosetto, per questo mio mutismo diventò una belva! Si alzava e si sedeva; e mi circuiva con inchieste elementari per rendersi conto se la mia fosse realmente cocciutaggine settaria o stupidità: «Come ti chiami? Di che nazionalità sei? Quanti anni hai? Dove ti trovi adesso?» ecc.
    Vedendomi muto come una sfinge e distratto come un balocco, ordinò ai soldati di prendere una fune!...
    — Vedi? Se non rispondi, ti appendiamo lassù! — Io, ancora sfinge, ancora balocco! Fu allora che mise in un pugno tutta la riserva dei suoi proiettili ed iniziò l'orchestra dell'ultimo atto.
    Scena: un soldato mi spianò il mitra sul petto a due metri di distanza e un altro mi scattò sull'attenti. Poi il giudice con tutta solennità: «Adesso il rappresentante del Governo ti fa l'ultima domanda; se tu non rispondi darà ordine di aprire il fuoco!» Qui, uno che non fosse me, nelle condizioni normali di mente e di corpo, avrebbe potuto anche ridere; ma io, chi mi dava più la forza ed il buon umore?...
    — Come ti chiami?! — Silenzio... Allora il soldato sull'attenti disse: — Deve aver perduto la conoscenza! Non vedi che atteggiamento! — Fu così che con uno spintone mi fece cadere per terra; poi essi stessi mi rialzarono e mi rintanarono. Quel silenzio lo pagai molto caro; ordine tassativo di costringermi sempre in piedi.
    — Dio mio, vivrò fino a domani?...
    Invece resistetti fino alla sera del 28. Nei quattro giorni, anche negli intervalli di lucidità, non mi era possibile distinguere o almeno riconoscere alcuno; non vedevo altro che caligine e luccichii di atomi d'argento e d'oro... Mi ritrovavo spesso per terra; e sentivo calarmi dalla bocca strasecca una bavetta amarognola, come un sottil fil di piombo! Molte volte sbattevo la testa al muro; allora sbarravo gli occhi e piagnucolavo. So che non sapevo con certezza se avessi ancora le gambe, le braccia, o me le avessero tagliate. Non ricordo neppure se nel quatriduo mangiai quei tozzi di granturco !
    Allo scadere del quarto dì, un ufficiale ignoto mi fece firmare una carta in cui chiedevo la grazia della fucilazione. Mi disse con tono calmo e quasi amichevole:
    Il Governo del Popolo mi deputa a chiederti se hai qualche desiderio da esprimergli! — Sì, la morte, ma subito!
    — Credo che non sia l'ora ! Hai qualche altra cosa da chiedere?
    — Chiedo di dormire o almeno di stare seduto.
    — Ciò è facile ottenerlo; basta che al ritorno del tuo giudice riconosci di essere una «Spy». —
    Io non risposi... Ordinò alla guardia di farmi dormire.
    Ritornato in istanza mi gettai sopra l'imbottita come un sacco, con le mani ancora legate di dietro. Provai una gioia quasi infinita. Finalmente potevo chiudere i miei occhi assassinati senza le grida di quelle belve feroci e senza urti, senza spintoni, senza calci né colpi di rivoltella!
    Non so per quanti secoli mi parve di dormire. La mattina dopo mi alzai con gli altri prigionieri. E sì che avrei dormito per qualche secolo ancora!
    I1 mio giudice non si fece vedere più per parecchi giorni! La notte seguente riposai molto di meno; mi fu impossibile trovare una posizione meno scomoda per le spalle quasi slogate e le mani ancora legate di dietro. Per il rimbocco della coperta mi aiutavo coi denti. Pregai perciò le guardie di volermi togliere le manette, o almeno legarmi le mani davanti, durante la notte. Mi fu risposto: — Invece di ringraziare il Governo del beneficio che ti ha concesso, esigi ancora altre comodità?
    Mi assopivo per qualche istante; mi svegliava il dolore.
    — Ma il Governo mi ha concesso di dormire per alleviarmi le sofferenze o per farmi patire di più?!
    — Noi non lo sappiamo. Il Governo ci ha dato ordine di farti dormire e noi dobbiamo ubbidire!
    Ogni volta che arrivava l'ora di coricarci io provavo l'impressione di cadere dalla padella alla brace.
    Fino al 18 dicembre la vita trascorse monotona e insonne: maledizioni, allucinazioni, deliri, dieta. Ma il giudice, dov'era? Mi venne a trovare due o tre volte l'ufficiale responsabile della prigione per osservare le condizioni delle mie gambe, delle mani e in genere del mio stato di salute, domandandomi se avessi bisogno di qualche medicina o di altro. Rispondevo sempre di no, perché convinto che mi pigliasse in giro; invece più tardi dopo la liberazione, ho saputo da altri Sacerdoti ammalati in prigione, che erano stati visitati e curati scrupolosamente da dottori comunisti, anche con preziosissime medicine. I delinquenti del Papa non devono morire!
    Una sera le guardie consegnarono i panni personali al vecchio giapponese che, dopo qualche ora, partì. Nella stessa notte improvvisamente mi uscì il sangue dal naso: avvisai la guardia. Mi portò un bacile di acqua fredda per lavarmi, ma il sangue non stagnava: finirò dissanguato?... Mi cambiò l'acqua quattro o cinque volte; mi meravigliai di avere ancora tutto quel sangue! La guardia ebbe un lampo di genio e mi turò il naso con un pezzo di giornale, mi fece stendere supino per terra e mi pose uno straccio bagnato sulla fronte; lo zampillo rosso mi ritornava giù per la gola. Finalmente stagnò; e quella sera la guardia si dimenticò di rimettermi le manette.
    La sera del 18 aspettavo i due tozzi di pane per la cena. I tozzi non vengono; viene l'ufficiale che mi ordina di piegare l'imbottita e di seguirlo!
    Come al solito mi bendano e mi gettano in una macchina. C'è un altro. Dalla tosse lo riconosco: il P. Bufalini! Mi gettano sopra una coperta e poi un'incerata. Protesto a più non posso. — Mi sento soffocare, datemi aria! — Qualcosa mi danno: una scarica di botte sulla testa e sul viso.