Via dal «paradiso»

    La mattina dopo, verso le 8, un barbiere mi tagliò i capelli, per la seconda volta in undici mesi, e mi rase la barba! E poi un bagno!
    — «Sono io o non sono io?...». «È lui o non è lui?...». Le guardie, anche quelle delle altre stanze, per tutto il giorno mi guardavano come un Lazzaro dopo il «veni foras».
    Mi sentivo rinato, con una gran gioia di vivere ed una gran voglia di cantare. Tra poco, forse prima delle stelle, la libertà!
    Verso le 10 del mattino, ecco il giudice.
    Mi fece ricopiare a mano il foglio della mia promessa e poi, amabile, amichevole e sottovoce, mi avvertì che tra minuti il rappresentante della Corte Suprema di Giustizia avrebbe letto la sentenza. Potevo star tranquillo!
    Mi suggerì il cerimoniale e perfin che cosa dovessi rispondere, cioè due volte: «Va bene! (Tuei!)».
    Ero ancora nella mia stanza, che entrò l'ufficiale responsabile con un soldato per condurmi al tribunale !
    Per via, l'ufficiale mi ripeteva le raccomandazioni e gli ammaestramenti del giudice. Il soldato si affrettò un pochino, entrò nella sala, scattò sull'attenti:
    — Eccellenza, il delinquente sta per arrivare, possiamo farlo entrare?
    — Che entri pure ! — annuì una voce cavernosa da dentro!
    Varcata la soglia, altre quattro sentinelle, che in uniforme fiammante circondavano il Rappresentante della Corte Suprema di Giustizia, scattarono sull'attenti, presentando le armi!
    Il giudice, seduto, vestiva militarmente. Faccia nota! E lo riconobbi subito: era l'idem del mio primo interrogatorio.
    Mi squadrò dalla testa ai piedi, fissandomi per qualche istante con il suo caratteristico cipiglio; afferrò un foglio che giaceva sul tavolo e ritornò a fissarmi, controllando ogni tanto lo scritto del foglio come se vi si dovesse riscontrare la mia fisionomia; infine ruppe il silenzio!
    — Come ti chiami?!
    — Tiberi.
    — Oggi la Corte Suprema di Giustizia mi incarica di pronunciarti la sentenza! Ascoltala devotamente !
    Il processo era brevissimo, formulato in tre periodi !
    Nel primo c'erano i miei connotati. Scandì il primo periodo.
    — Va bene?
    — Va bene ! —
    Nel secondo i miei «delitti» ! Erano due: 1) la erezione della Legione di Maria; 2) le informazioni segrete comunicate all'imperialista Riberi.
    — Va bene?
    — Va bene ! —
    Nel terzo la condanna: espulsione immediata e perpetua dal territorio cinese!
    E qui finirono gli spari... Nel cortile si erano adunati, per l'occasione, molti ufficiali, guardie e gente di servizio. Il giudice ordinario si congratulò con me, stringendomi più volte la mano, e raccomandandomi di restar fedele alla promessa, perché egli non poteva mai supporre «che un Sacerdote cattolico fosse capace di trasgredire l'ottavo comandamento di Dio!».
    A mezzodì mi portarono in una sala dove stavano già altri sei Sacerdoti, cinque dei quali conoscevo molto bene: erano quattro Scheutisti belgi e due francescani olandesi!
    Ci prepararono un buon pranzo che potrebbe dirsi «di gala», con la partecipazione di molti gerarchi. Ormai ci consideravano redenti ed amici! Al pomeriggio preparai l'imbottita e le coperte da rimandare al P. Mascolo, ed un fagottino con tutta la biblioteca del mio indottrinamento.
    Anche nel secondo pasto delle cinque, mangiammo insieme!
    Poi gli ufficiali ed i giudici si trattennero con noi in familiare conversazione, quasi fino all'ora della partenza!
    Il mio giudice mi chiama in una saletta a parte, per chiedermi due miei indirizzi, in Italia, e per farmi imparare a memoria il suo. Non permise che io lo scrivessi; mi rinnovò le congratulazioni e le raccomandazioni... poi, addio!
    L'ufficiale responsabile si dava molto da fare, chiamandoci uno per volta nella sua stanza. Arrivò il turno anche per me!
    Si rallegrò vivissimamente per il mio celere progresso nell'indottrinamento; mi disse poi che il Governo era tanto generoso verso di noi da pagarci anche il viaggio fino ad Hong-Kong, con un sovrappiù per le piccole eventualità di ciascuno. Il «sovrappiù» degli altri girava sui dieci dollari. Il mio «sovrappiù» toccava i trenta dollari. Ma perché trenta e non dieci?... Per la mia grande promessa e come premio del mio buon indottrinamento. Tentai di rifiutarmi col pretesto di avere già sperimentato la generosità del Governo. Non ci fu verso. E così con trenta dollari americani + la mia riserva, mi sentii, per suprema volontà del proletariato, più che mezzo capitalista!
    Un'ora prima di mezzanotte, su di un autocarro coperto, ci condussero alla stazione ferroviaria di Pechino!
    Là trovammo altri sei Sacerdoti della Società del Verbo Divino, tedeschi che vennero ingruppati con noi; indi in colonna, fino alla carrozza del treno.
    A mezzanotte in punto un fischio della locomotiva e via da Pechino. In due ore e qualche cosa fummo a T'ien-Tsin dove quattro macchine ci portarono in un bellissimo albergo.
    L'indomani ci fu un buonissimo pranzo, dopo di che l'ufficiale della nostra prigionia tenne un accorato discorso intorno all'oppressione dell'imperialismo con allusioni esplicite sulla nostra «morta» mentalità. E infine, una perorazione così calda, così patetica, così tambureggiante che io non sapevo se fosse il caso di piangerci sopra.
    «E specialmente per voi — qui la batteria! — che credete alla vita dell'aldilà, quanto dovrebbe essere di conforto in punto di morte poter dire: ho consumato la mia vita per il bene ed a vantaggio del popolo, ora posso morire contento!... Questa è la più grande consolazione per un uomo: fare del bene a chi sta male!».
    Il suo discorso sarebbe stato bene anche nella bocca di un Santo Padre, se non fosse stato, però, impastato di rancore, animosità e odio satanico, sia pur con tanta salsa di romanticismo umanitario!
    Dopo il pranzone e dopo il discorsone, non restò che la partenza. Fui chiamato in disparte e mi si ordinò di partire per primo.
    Gli altri sarebbero venuti più tardi!
    Mi accompagnò un soldato. Al portone di uscita, un ufficiale, nel vedermi in maglietta di salute, mi chiese:
    — Non hai con te altre vesti per metterti?
    — No ! Non mi è stato permesso di portar via niente da Pechino! —
    Breve consulta con altri ufficiali; esito positivo:
    — Fa niente, puoi andare così! —
    Solo, alla banchina e in maglietta. Mi scattarono un'istantanea. Ora capivo perché... solo!
    La dogana ci perquisì fin dentro i tacchi delle «carpe. Trovò i piedi. Venne pure il rappresentante del cambiovalute, che limitò il nostro liquido a 10 dollari americani per testa. E così, per me, si compiva l'ultima beffa.
    La mattina dell'8 agosto, verso le 5, la nave Hu-Nan si mosse con l'incarico di farci fuori da quella terra che proprio da una nave riceveva un giorno, i1 nostro primo saluto, la nostra prima benedizione, il nostro primo canto.