Io alla sbarra

    La diabolica campagna contro l'Internunzio si era conclusa con brillante successo dei rossi, giacche il Governo, dietro le tante petizioni forzate o frodate, con una valanga di testimonianze estorte dalla Polizia, nei primi di settembre 1951 condannava lo «Straniero di Monaco» all'immediata e perpetua espulsione dal territorio cinese.
    Altro che volontà del popolo! Lo so io la stima che circondava in tutta Pechino Mons. Riberi; e il pianto che accompagnò il suo sfratto!
    Dopo la clamorosa espulsione del luogotenente di Pio XII, a Pechino sembrò placarsi l'ira dei comunisti, per cui si poteva pensare e sperare un periodo di armistizio. Macché! Ormai — dopo la sua ombra — bisognava colpire lo stesso volto di Pio XII, il «Pontefice dell'imperialismo».
    Nelle riunioni obbligatorie dei cristiani, quelli che presiedevano erano sempre i capi dei vari Comitati di liberazione, costituiti in quasi tutte le Parrocchie; il clero passava in seconda linea.
    In una di queste riunioni plenarie, tenuta nell'Aula Magna dell'ex Università cattolica, si bestemmiò esplicitamente contro l'«imperialismo secolare del Papato», ed in specie contro la condotta del Papa, che, soprattutto oggi «è in combutta con l'imperialismo americano!».
    Alcuni cattolici progressisti così si espressero: «Se il Papa dovesse appoggiare e difendere l'imperialismo americano, noi ci sentiamo tutti uniti per opporci alla sua temerarietà».
    Intanto la stampa, fin da qualche mese, riscaldava l'ambiente e i cervelli con la pubblicazione di alcuni articoli russi contro il Papa e contro Roma.
    Frequentissime le vignette e le caricature: il Papa in preghiera davanti alla bomba atomica; o che incassa con ingordigia dollari dall'America, mentre ricambia pugnali a forma di croce (come si vede: tutto il mondo è paese!).
    Se tali e tante madornalissime bestemmie facevano sanguinare il cuore dei buoni e lasciavano freddi gli indifferenti, incrudelivano sempre più i cattivi.
    Questo nuovo aspetto della situazione decise altri missionari stranieri a chiedere spontaneamente il rimpatrio: ad alcuni venne concesso, ad altri negato; evidentemente questi ultimi potevano considerarsi i «Segnati!».
    Io, proprio in quel mese di settembre 1951, chiesi ed ottenni di rimanere a Pechino, perché credevo di essere ancora utile.
    Il 29 settembre comunicai la notizia al nuovo eletto Provinciale delle Marche, M.R.P. Armando Quaglia, dicendomi «FORTUNATO» di nome e di fatto, perché potevo restare a Pechino «usque non ejciaris» con il merito dell'obbedienza.
    L'indomani, verso le 2 del pomeriggio, il P. Mascolo, mi manda a portare al P. Bufalini, già in prigione, come si disse, un po’ di dolci e un po’ di frutta.
    Si era alla vigilia del 1° ottobre e i carcerieri — in omaggio alla festa nazionale — sarebbero stati un po’ più carini.
    Mi accolse alla porta dell'entrata principale di casa Capuzzo proprio il capo della Polizia, quello stesso che due mesi prima avevo conosciuto nella stessa casa e che mi permise di restarvi per tre giorni !
    Mi trattò proprio gentilmente, facendomi osservare il bel cortiletto che metteva all'interno; mi offrì la precedenza e mi invitò ad accomodarmi nella grande sala a sinistra, ormai suo ufficio personale.
    Mi domandò lo scopo della venuta; mi offrì sigarette e te e, dopo qualche ordinaria domanda di prammatica intorno al tempo (tirava un vento che alzava nuvole di polvere e si temeva per la buona riuscita della festa nazionale del giorno dopo), mi chiese la mia opinione sull'attuale politica della Cina,
    Poiché mi si mostrava tanto sincero, quasi confidente, io disapprovai con infinita ingenuità la campagna che si stava svolgendo contro il Papa, con le più nere calunnie e la più ridicola montatura.
    Mi rispose che si trattava soltanto di casi sporadici di alcuni cristiani progressisti, esageratamente zelanti, ai quali non si doveva dar peso.
    — E del nostro giornale cosa pensi?
    — Veda, io son sincero, e non adulo: qualche volta mi sembra che dica cose non vere; per esempio, poche settimane fa, quando si è parlato del «Processo Riva», ha detto, tra l'altro, di Monsignor Martina, che era il rappresentante di Riberi, e che, avendo giurisdizione superiore a quella del Vescovo cinese di Pechino, manovrava un movimento segreto sotto le direttive dello stesso Riberi. È risaputo che ciò è assolutamente falso: Monsignor Martina non è mai stato rappresentante di Riberi. Tutti coloro che sono bene informati non credono alla notizia del giornale, per cui possono logicamente diffidare anche delle altre notizie. Ciò non è controproducente ai fini della vostra stampa? Noi sappiamo per lettera cose che avvengono nelle altre città lontane; poi sui giornali leggiamo tutto il rovescio e non ci possiamo spiegare neppure quelle numerose documentazioni fotografiche. Questa è tutta rimessa per voi.
    Mi guardava fisso, ma sempre sereno, annuendo con la testa ad ogni mia frase.
    — Ma tu capisci tutto quello che leggi sul giornale?
    — Non sempre, ma ho il vocabolario e spesso domando spiegazioni ad altri cinesi.
    Volle sapere nome e connotati di questi «altri einesi», e si limitò a dirmi che sì, in fondo, avevo ragione, ma che il tempo vuole tempo. Mi domandò poi se anche il P. Bufalini avesse notato questi errori nei giornali.
    — Non so se legga la stampa cinese. Ma a proposito, perché non è stato ancora rilasciato?
    — Egli non ha niente, mi rispose, ma è troppo testardo! Come responsabile di questa casa, dove abitava Capuzzo, di certissimo era al corrente dell'attività segreta di questo losco individuo, invece faceva sempre lo gnorri.
    Egli non è sincero come te e per questo non lo libereremo finché non confesserà.
    Credetti di cogliere l'attimo buono e presi la speranza a quattro mani.
    — Mi ci faccia parlare, lo convincerò io a riconoscere il suo torto, mi darà ascolto; se vuole, gli parlerò in cinese e in sua presenza.
    — No, no! deve essere una cosa spontanea; se tu proprio gli vuoi bene e lo vuoi aiutare, ecco, (mi prepara dei fogli) scrivi tutto ciò che tu sai di lui, tutto ciò che ha fatto in Cina, i suoi amici, ecc. Quando egli vedrà che l'hai scritto tu, ti ascolterà e si convincerà dei suoi errori; allora sarà liberato.
    — Me lo faccia dire a voce, è assai meglio.
    — È meglio scriverli i suoi errori, così egli avrà modo di meditarci sopra e di riconoscerli più facilmente.
    Quando mi accorsi che non si trattava più di un consiglio, ma di un comando quasi minaccioso, decisi di scrivere, ma non con la stessa ingenuità iniziale, perché ora avevo intuito troppo chiaramente le sue mira insidiose.
    In men di mezz'ora scarabocchiai due fogli; poi, in fretta, dal capo. Ma dovetti attendere nel corridoio fuori del suo ufficio, perché stava scrivendo e parlava sottovoce con un altro ufficiale, il quale uscendo poco dopo mi intimava bruscamente di rientrare nella sala dove avevo scritto il mio rapporto sul P. Bufalini.
    L'improvviso cambiamento di scena moltiplicò per novanta il mio sospetto e mi sentii torturare le tempia e l'anima dai più strani presagi. Intanto il telefono trillava con insistenza; poi ci fu una interminabile conversazione, non so di che e con chi.
    Il cuore in tumulto e il respiro sospeso, tendevo l'orecchio alla porta che mi divideva dal corridoio nelle speranza di captare qualcosa, ma inutilmente: intuii soltanto che si parlava di me, e quando fu abbassato il ricevitore, provai la netta sensazione di essere già stato condannato dalla voce che parlava all'altro capo del filo: chissà dove, chissà chi?
    Verso le 18 mi giunse all'orecchio la baldoria di alcuni soldati provenienti dal cortile delle Suore (già scacciate fin dal 12 settembre); alcuni entrarono nella mia stanza per prendere delle sedie: era l'ora della cena! Nel vedermi, restarono sorpresi a bocca aperta! Domandai ad uno: — C'è il compagno Ma...?
    — Non so, adesso vedo! — mi rispose, ma non tornò più.
    Quando vennero a riportare le sedie feci la stessa domanda e mi si rispose che il compagno Ma era uscito:
    — Ma io debbo ritornare a casa !
    — Abbi pazienza di aspettare il compagno Ma che presto tornerà.
    Poi vennero altri soldati a curiosare.
    Verso le 20 una giovane mi portò un pane bianco ed un piatto di patate fritte; mise tutto sul tavolo senza parlare; due minuti dopo entrò un ufficiale, e, — Non mangi? — mi domandò.
    — No, grazie, tra poco farò cena a casa mia!
    Dopo una mezz'ora capitò quell'ufficiale che due mesi prima mi aveva trasmesso l'ordine di tornarmene a casa, e mi disse:
    — Perché non ha mangiato? Non le piace?
    — Mi piace, ma non mi va!
    — Allora si accomodi, debbono venire alcuni a parlare con lei.
    Precedendomi, mi condusse nell'ex Cappella Appena entrato vidi una donna seduta per terra, appoggiata al muro, dall'occhio smarrito e smorto, molto deperita ed afflitta. L'ufficiale le proibì di parlarmi; poi, rivolgendosi a me:
    — È sua questa imbottita?
    — Sì!
    — E questa coperta?
    — Anche !
    — Allora questa notte avrà la pazienza di dormire qui finché non verrà qualcuno a parlarle.
    — Ma verrà questa notte?
    — Credo di no, perché domani è festa nazionale, e quindi neppure domani: dopodomani si riposeranno e... potrebbero venire di qui a tre giorni.

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    Nella camera attigua che una volta serviva da laboratorio alle Suore e che due mesi prima fu per tre giorni la mia cella, si sentiva gente che tossiva e schiariva sforzatamente la voce: tra queste riconobbi quella del P. Bufalini.
    In seguito, attraverso questo telefono senza fili, ci salutammo spesso. L'ufficiale incaricò la guardia di cappiarmi; ma non portavo in tasca che due chiavi, tre grosse spille di sicurezza e il Rosario.
    Dietro mia insistenza mi si concesse di poter tenere il Rosario e l'orologio.
    Finita la perquisizione, stesi l'imbottita per terra e così vestito come ero mi coricai. Ma il sonno non veniva.
    Alle 21 la guardia mi calciò ai piedi e comandò di alzarmi; poi mi condusse nella sala della lunghissima attesa vana: che c'è?... l'interrogatorio!
    Entrai sorridente, nonostante il burbero aspetto dei due giudici già insediati solennemente al tavolo. Il primo dei due, più pettoruto e più arcigno, mi fece cenno con gli occhi e con la testa di mettermi ritto davanti a lui; poi mi comandò di indietreggiare di tre passi. Io, sempre a braccia conserte e sempre giocondo; ma lui, dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi con cipiglio ributtante e ridicolo, scattò in un grido studiato, grido di belva:
    — Giù le mani, delinquente ! Ora ti trovi di fronte al rappresentante della Corte Suprema di Giustizia !
    Per altri due o tre minuti mi guardò fisso negli occhi senza pronunciare una parola.
    Poi assestandosi meglio sulla poltrona disse in un tono un pochino meno bestiale:
    — Quante volte sei venuto in questa casa?
    — Questa è la prima!
    — Ti domando solennemente, quante volte ci sei venuto?
    — In questa casa del Dottor Capuzzo, mai!
    Ancora qualche minuto di silenzio; quindi ironicamente:
    — Tu capisci bene la lingua cinese, non è vero?
    Ed io timidamente, secondo l'etichetta cinese:
    — Non molto, so dire appena qualche frase!
    Un nuovo grido di belva:
    — Questa è la prima bugia che dici, voglio vedere quale sarà l'ultima!
    La posa e la pausa di questa volta mi diedero addirittura l'impressione di una commedia.
    — Prendi quel banchetto e mettiti a sedere!
    E incominciò subito la solenne filippica che sembrava avesse imparata a memoria:
    — Tu sei il più reazionario e il più sovversivo di tutti i missionari stranieri di Pechino; il Governo è già in possesso delle prove e delle testimonianze di tutti i tuoi «delitti e misfatti reazionari» commessi fin dal primo giorno della tua venuta in Cina; e secondo tutti questi misfatti che io ho sotto gli occhi in questo plico, tu dovresti essere condannato immediatamente alla fucilazione. Il Governo ha dato prova di troppa pazienza per averti sopportato fino a questo giorno; nonostante ciò, il Governo comunista, basato sui principi di pace e di generosità (K'uan Ta) oltre che su quelli di giustizia, ti offre una via di salvezza, cioè una minuta, sincera e spontanea confessione di tutti i tuoi delitti commessi contro il popolo.
    Stavo per aprir bocca e chiedergli di aiutarmi a fare questa confessione, ma egli con il solito grido ordinò che mi alzassi in piedi perché «avevo tentato d'interrompere il suo discorso senza essere stato interrogato e tenevo un comportamento pessimo di fronte al rappresentante della Corte Suprema di Giustizia»; poi aggiunse:
    — Quel tuo sorriso è irriverente ed offensivo; ne ho visti infiniti altri più furbi di te: questo non è il modo di portarsi per ottenere misericordia dal Governo, il quale ha incominciato saggiamente l'epurazione di tutti gli imperialisti stranieri; questa sera è arrivata anche l'ora tua. E adesso, parla!
    Raccontai tutta la mia vita a incominciare dall'uso di ragione fino a quel momento, narrando in tutti i miei minuti particolari tutto ciò che aveva fatto anno per anno, mese per mese! Il primo urlo che interruppe il mio racconto fu quando dissi che ero andato in Cina «per propagare la fede di Cristo».
    — Lascia andare di..., tu sei venuto a svolgere opera di spionaggio segreto!
    M'ero sgolato per circa un'ora.
    — Io non ti ho ordinato di raccontarmi tutte queste chiacchiere inutili, ma le opere reazionarie che hai fatto contro il Governo del popolo.
    — Ma io non ho commesso nessun delitto e posso asserirlo in coscienza!
    Con un'altra imprecazionaccia mi tappò la bocca:
    — Noi cinesi abbiamo un proverbio che dice: la tua coscienza non la mangerebbero neppure i cani! Gli imperialisti americani hanno speculato sulla vostra coscienza di missionari, regalandovi in cambio le zanne di lupo, per sbranare senza misericordia il popolo semplice ed inerme; ma adesso è giunta l'ora in cui il popolo stesso può smascherare queste belve.
    Chiesi candidamente di quali misfatti mi si accusasse, pregandolo di specificarmeli nel tempo o nel luogo.
    Questo mio invito fu interpretato come la più grande maledizione e ribellione ai sacri principi dei metodi e della dottrina comunista che impongono l'autoconfessione e mi cagionò una gragnuola di rimproveri. Così finì il mio primo interrogatorio. Era mezzanotte e venti quando mi rispedirono «tra gli altri malfattori». Il giudice silenzioso che aveva scritto tanti fogli, bisbigliò all'orecchio della guardia: «Osserva bene se si addormenta subito!».
    Rovesciai il mio frate corpo, stanchino anzi che no, per terra; chiusi gli occhi per accontentare la guardia, ma non dormivo. Pensavo... e — in verità — un pochino di fifa c'era dentro di me.
    Quando finalmente dormii, il mio fu tutto un riposo a singhiozzo e per poco. I pechinesi, quella mattina, si alzarono molto prima del solito; e molto prima del sole cominciò il cancan della «grande parata».
    Ricordai allora di aver dato appuntamento ad alcuni giovani per andarla a vedere insieme, invece mi dovetti accontentare di sentire appena l'eco degli scrosci, gli inni e le urla contro gli imperialisti.
    Ci fecero alzare verso le 5,30; facemmo pulizia nella stanza e poi ci lasciarono seduti per terra a meditare sopra i nostri «delitti».
    Pensavo: ma che cosa la Polizia potrà aver saputo di me? Nient'altro che la storia degli ultimi due mesi; diversamente mi avrebbero accoppato l'altra volta. Mi lasciarono, ergo... E negli ultimi due mesi le uniche mie azioni che potevano avere insospettito il Governo non erano che: l'ultima lettera inviata il 28 giugno a Mons. Riberi, caduta sicuramente in mano alla Polizia, perché l'Internunzio era sotto sorveglianza fin dal 26 giugno, ma con molta probabilità non ancora segnalata a Pechino per il 25 luglio; il mio aiuto prestato alla signora Riva; infine l'interessamento per aver notizie di Mons. Martina. Pensai anche alla famosa lettera che inviai, tramite il P. Lebrun, al Vicario, dopo averla fatta firmare a tutti i Sacerdoti stranieri di Pechino, ma l'esclusi perché era stata bruciata...
    Alle 10 circa ci portarono una tazza di erbe cotte e due pani cinesi (Man Tou). La donna mangiava tanto comodamente per terra. Io chiesi alla guardia di posare la tazza sul tavolino che era nella stanza e, in ginocchio, per mancanza di sedie, ingoiai «devotamente» il contenuto di quella ciotola.
    Mangiando, condii quelle erbe con qualche lacrima che forse era consolazione o forse nostalgia; certo smarrimento! Fu allora che desiderai con tutta la forza dell'anima di comunicarmi per avere Gesù con me, Che mi confortasse e mi fortificasse! Pregai gli Angeli di portarmi un'Ostia consacrata: ero tanto assorto in questo pensiero e desiderio che istintivamente aprivo la bocca, preparavo la lingua e attendevo un palpito d'ala, un fruscio angelico. Ma invano! Allora mi accasciai per terra desolato, avvilito, sfinito! Soltanto in quel momento ebbi un'idea più che plastica, sperimentale, dell'angoscioso abbandono di Gesù nell'Orto.
    La seconda tazza ce la portavano verso le 16: e in tutto ciò consisteva il cibo giornaliero. Ma la cosa più sgradita della prigione, era la guardia. Cambiava ogni due ore e prendeva occasione di qualsiasi minuzia per rimproverare e maledire di proprio capriccio!
    Quanti pianti faceva quella povera donna, la quale (lo capii dalla pronunzia) doveva essere giapponese, ogni qualvolta la guardia si prendeva il gusto di rimproverarla perché aveva alzato la testa per guardare il soffitto, aveva mosso un braccio, o si era spostata un pochino per cambiare posizione!! Ma spesso la vedevo piangere anche senza essere stata rimproverata: forse pensava alla famiglia, ai figli!

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    Nei primi tre giorni non mi fecero nessuna osservazione, perché stavo attentissimo a non muovermi mai per non dare occasione di sgridarmi; gli sbagli della povera donna mi facevano scuola.
    Al terzo di la guardia sbuffa pure con me:
    — Cosa significano quei segni che ti fai sulla fronte, sul petto e sulle spalle, prima e dopo di mangiare?
    — È il segno della nostra fede che noi facciamo prima e dopo di ogni principale azione della giornata.
    — Qui non è permesso farlo.
    — Perché?
    — Così rispondi? Qui non si domanda mai il perché!
    — Ma non c'è forse la libertà di religione?
    — Sì, c'è; ma non per i delinquenti!
    — Tu non puoi proibirmi di pregare il mio Dio!
    La mia risposta moderò la sua collera.
    — Ma dove sta questo Dio? Com'è che non si fa mai vedere?
    La donna sorrideva; e il P. Bufalini tossiva forzatamente !
    — Neppure io Lo vedo con gli occhi, ma non per questo si può dedurre che non ci sia! Sono tante le cose che non si vedono, eppure esistono!
    Forse non mi comprese; e seguitò a domandarmi:
    — E quella cosa che tieni sempre nelle mani, cos'è?
    — È il Rosario!
    — A che cosa serve?
    — Per pregare!
    — Che forse quando preghi, tu non senti la stanchezza di stare sempre seduto?
    — No, non la sento — risposi, tanto per farla finita.
    La stessa sera venne il capo, e mi proibì di pregare, «perché dovevo pensare ai miei problemi (Wen T'i); la preghiera non avrebbe, risolto niente», anzi minacciò di portarmi via anche il Rosario qualora non gli avessi dato retta e «ciò sempre per il mio bene, perché la preghiera mi impediva di pensare ai miei casi!». Risposi che nessuno mi poteva proibire di pregare, perché la migliore preghiera è quella del cuore in cui solo Dio può penetrare e che se anche mi avesse portato via il Rosario o tagliata la lingua, non per questo non avrei più pregato.
    — La guardia — aggiunsi risentito — potrà comandarmi di stare così piuttosto che cosà, ma non potrà mai impedirmi di pensare ciò che voglio.
    L'astuto capo, senza scomporsi affatto cercò di calmarmi:
    — Vedi, il nostro sistema non è coercitivo come quello degli imperialisti, ma basato sulla convinzione; quindi se noi ti si dice questo è soltanto per farti del bene e convincerti a voler pensare seriamente ai tuoi casi per risolverli presto e liberarti subito. — Poi, rivoltosi alla donna, disse: — Anche tu hai capito, no? Ormai è parecchio tempo che stai qui ed è anche nel nostro interesse liberarti quanto prima; hai scritto quel che ti ho detto?
    La donna, che durante le raccomandazioni annuiva sempre con la testa come una novizia, all'ultima domanda rispose:
    — Domani scriverò, ho già pensato tutto!
    — Anch'io ho pensato ai casi miei; — interloquii — quando potrò essere liberato?
    — Dipende tutto da te: prima confessi e prima sarai libero. — E se ne andò.
    Chiesi alla guardia di andare alla ritirata; me Io negò con una litania di rimproveri: «Non ho mai trovato un tipo prepotente come te, così ostinato e così altero nel parlare; forse non ti sei ancora reso conto dove ti trovi, ma te ne accorgerai presto!

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    Intanto i giorni passavano sempre più monotoni e io non facevo altro che sgranare Rosari.
    Quando fui preso avevo ancora da celebrare 67 intenzioni di Sante Messe, di cui nessuno sapeva niente e mi tormentava il timore di non avere più né tempo né modo.
    La sera del 9 ottobre arrivò l'ufficiale che mi aveva condotto in quella stanza: «Venga con me, c'è il P. Mascolo che le vuol parlare!».
    Mi condusse nella sala degli interrogatori dove mi attendeva il P. Mascolo, con un «gerarca».
    Diedi la mano prima al P. Mascolo e poi al gerarca, senza parlare! P. Mascolo mi balbettò in cinese:
    — Come stai?
    — Bene, — risposi con un filino di voce, ma in quell'avverbio c'era un volume. La mia barba lunga, il deperimento fisico e l'accasciamento morale impressionarono il P. Mascolo; mi accorsi che gli si imperlarono gli occhi.
    Il gerarca mi invitò a sedere, mi offrì una sigaretta ed attaccò:
    — Abbiamo saputo che Mascolo è il responsabile attuale di questa casa; ma non parlando egli troppo bene il cinese, abbiamo scomodato te perché ci faccia da interprete. Noi ancora non sappiamo come andrà a finire il caso di Capuzzo che abitava questa casa. Di certo si trascinerà a lungo e non andrà troppo liscia. Perciò il Governo ha intenzione di prendersi cura e responsabilità della sua casa e dei suoi oggetti che abbiamo scrupolosamente numerato e sigillato. Insomma, il Governo domanda al P. Mascolo se intende prestarla o affittarla.
    Nell'accingermi a tradurre in italiano, la prima cosa che dissi al P. Mascolo fu che portasse ai Salesiani le mie 67 intenzioni di Messe, prendendo l'elemosina nel cassetto del mio tavolino; dell'altro danaro che avevo in camera ne avrebbe potuto fare quell'uso che voleva perché, per me, difficilmente ci sarebbe stata una via di scampo!
    Dopo questo mezzo testamento, gli tradussi l'intenzione del gerarca. Rispose:
    — Se il Governo libera te e il P. Bufalini, gli presto la casa gratis per tutto il tempo che vuole!
    Non volevo tradurre la frase del P. Mascolo; ma ambedue mi obbligarono: Mascolo per il suo desiderio di salvarci ed il gerarca per la smania di sapere chi sa che.
    Obbedii e tradussi. Ma il gerarca rispose che i nostri casi non avevano nulla a che fare con la casa di Capuzzo; e la fece da Pilato. La casa fu prestata anche senza il fraternissimo «se» del P. Mascolo. Si contrattò a voce per eventuali incidenti, guasti, ecc. Intanto mi fu facilissimo e di gran conforto mandare i più cordiali saluti ai miei cari giovani dell'Istituto Salesiano ed incoraggiarli alla resistenza della fede... Io avrei offerto le mie sofferenze per il bene dei cristiani cinesi. Dicendo ciò, gesticolavo indicando i soffitti, le finestre e i muri per non far capire al gerarca l'argomento del discorso !
    Prima di dividerci, mi feci dare di nascosto l’assoluzione e poi: egli per la via della libertà, io per quella del «riposo meditativo». Da quel giorno mi sentii molto più tranquillo anche se l'asfissia di quella vita immobile e soltanto vegetativa diventava ogni ora sempre più cupa.
    Qualche boccata d'aria, sì, ogni tanto: quando la guardia si prendeva il gusto di mandarmi a pulire con le mani i vasi igienici, per vedere umiliato un europeo. Allora mi sgranchivo un pochino
    Più tardi venne tra noi «malfattori» un altro prigioniero cinese: un campagnolo, padre di famiglia, enormemente triste. La mia vicina donna lamentava, spesso, dolori di pancia; allora io mi offrivo a sostituirla nella pulizia della stanza ed altro, ma la guardia diceva più no che sì, accusando la donna di insincerità e me di sporca ipocrisia...
    La notte del 18 ritornarono i due giudici, per un secondo interrogatorio; più che un interrogatorio fu una seconda edizione migliorata e corretta della prima filippica, con l'aggiunta della proibizione assoluta di pregare e di una paternale quasi infinita per il mio «pessimo comportamento». In ultimo, questa domanda impegnativa:
    — Quanti Ordini o Congregazioni (Huei) conosci tu qui a Pechino?
    — I Francescani, i Salesiani, i Gesuiti, i Lazzaristi ecc.
    — Non ne conosci altre?
    — Mi pare di no !
    — Ti rendi responsabile di questa tua asserzione?
    — Non ho computato le Congregazioni delle Suore.
    — Quelle non le vogliamo sapere!
    — Io allora, non ne conosco altre.
    — Così che questo compagno (e mi indicò il suo collega a sinistra, venuto semplicemente per registrare) ne conosce più di te?
    — Questo non lo so.
    Dopo una sprezzante e ironica risata, mi fece riaccompagnare nella stanza.
    Solo in seguito venni a sapere che egli voleva alludere alla Legione di Maria (Sheng Mu Ch'i Tao Huei). A me non passò neppure per l'anticamera del cervelletto, perché, pur chiamandosi una huei (congregazione), non è mai stata considerata nell'elenco degli Ordini o Congregazioni...
    Verso la mezzanotte del giorno 20, la guardia mi svegliò e mi accompagnò dal capo di Polizia, compagno Ma. Chiese la mia opinione sul trattamento della prigione, se il cibo era sufficiente, se volessi qualche altra cosa... I panni personali d'inverno potevo chiederli con un biglietto al P. Mascolo. Dunque? «Lasciate ogni speranza, o voi che entrate!» oh, Dante mio, che pena! La mattina domandai un foglio di carta e la penna. Scrissi in italiano, ma con una calligrafia appena umana, di modo che, se pur tra essi ci fosse stato uno a cincischiare un pò d'italiano, non ci avrebbe capito una zampa.
    Due giorni dopo, verso le 8 di sera, la guardia mi consegnò i panni; poi venne un ufficiale a dirmi di piegare l'imbottita e seguirlo. Io credevo che mi mandassero a casa; invece sul pianerottolo della porta di uscita di casa Capuzzo, due soldati mi bendarono improvvisamente gli occhi con uno straccio e mi aiutarono a salire in Jeep. «Per me si va...» Dove? Inutile pizzicare le stelle. Dovunque! L'ombra che più di tutte mi terrorizzò la fantasia mentre la Jeep sobbalzava sull'asfalto, fu quella del Signor Riva e del Signor Yamaguchi sugli autocarri della Morrison Street. Le tempie mi martellavano forte, il respiro mi saliva sì o no e un incubo mi schiacciava l'animo. Poi tutto si fece più chiaro, d'un tratto. «Ho con me l'imbottita; m'hanno consegnato i panni d'inverno. Allora non mi uccideranno!» Mi riattaccai alla vita. Strano! Esser contento di morire... e quasi morire nell'incubo di dover morire. Ma... il cuore è cuore!