Pugno chiuso

    Quella sera la guardia bussò sulla vetrata, per dare il segnale di coricarci, con più impeto e più nervosismo. Poi ci fissò impalata come al solito. La malinconia andava d'accordo con gli scrosci di pioggia.
    Mi ero appena addormentato che mi sentii tirar via il fazzoletto che mettevo sugli occhi per evitare la luce della lampadina sempre accesa!
    — Alzati — mi dice una guardia sconosciuta — piega le tue coperte e seguici.
    Wang fingeva un sonno di morte; e la sua faccia appariva straordinariamente pallida. Mi aveva pregalo cento volte e forse mille:
    — Quando verremo separati, cerchiamo di mostrarci disinvolti, senza salutarci, come se non ci fossimo mai veduti; da un semplice sorriso potrebbero sospettare chissà quale simpatia sia sorta tra me e te; ed io ne verrei a passare ancora di guai seri!
    Non mi reggeva il cuore a non salutarlo. Accusando un forte groppo alla gola, attaccai un bombardamento di tosse che certo fu più eloquente di una stretta di mano o di un bacio.
    Feci una piccola interruzione quando la guardia mi bendava gli occhi. Davanti al portone mi agguantarono e di peso mi gettarono dentro una Jeep.
    Ci sentivamo inseguiti dalla pioggia come ladri notturni. Ogni tanto, per le vie principali, cadevano le ultime nenie stanche delle radio! Altro che cammino della speranza! Altro che mille e una notte! Pensavo alla prigione oscura, alla fucilazione, alla fame, alla sete, al sonno, con il cuore del malato e con il cervello di un fatalista. Domani sarà un altro giorno...
    Tutto poteva accadere e... nulla!
    Questo carosello vertiginoso turbinava nella mia povera testa, quando la Jeep si arrestò!
    Si filava da mezz'ora e percorremmo un tragitto che poteva farsi in pochi minuti!
    Le guardie mi tolsero la coperta di dosso, mi fecero scendere e, dopo avermi accompagnato per una diecina di passi, richiusero un portone e mi sbendarono.
    Le tenebre si diradavano al fioco lume delle pile tascabili. Da una piccola veranda, passammo in un grande giardino, poi in un cortile e finalmente, eccoci alla nuova dimora.
    Ai tempi della mia libertà, mi ero recato in quei paraggi infinite volte; ma quella sera mi parve una zona ignota e credetti di trovarmi fuori delle mura. Invece stavo proprio nel cuore della città: nella Casa dei Sacerdoti di Scheut in Niu P'ae Tse.
    Dopo quattro scalini che le guardie mi aiutarono a salire, come si fa con un ammalato, entrammo in un piccolo atrio che serviva da stanzino alla guardia di turno.
    Nelle pareti laterali c'erano due finestrini e due porte: quella di sinistra era spalancata. Entrammo.
    L'ufficiale responsabile volle farmi una minutissima perquisizione e mi portò via tutto: i libri e le riviste dell'indottrinamento che mi avevano fatto comprare, una piccola somma di danaro certo non rubato, la stilo, la cinta, l'orologio che per eccezione dell'eccezione mi era stato riconsegnato qualche mese prima, un po’ di zucchero, uova ed alcune patate.
    Così alleggerito mi spedì a letto. 0 buon Dio dopo quasi un anno, un letticciuolo pure per me! Mi pareva che l'imperatore del mondo mi dicesse: «Felice notte anche a te, o fraticello!...».
    L'orologio della piccola torre del cortile suona le undici e tre quarti, ma il mio sonno — chissà?! — era forse rimasto a cullare la solitudine di Wang !
    Verso le 2 chiedo alla guardia il permesso di andare alla ritirata. Mi risponde un no con la mano. Bella, questa!
    Aspetto fino alle 3. La nuova guardia più burbera dell'altra, mi schiocca un secondo no.
    — Non crederai mica di stare a casa tua!
    — Ma io credo che anche a casa d'altri non si possa fare a meno di certe cose!
    — Non fare lo spiritoso! Qui è permesso andare al gabinetto soltanto tre volte al giorno: alle 5, alle 12 e alle 8 della sera! Dormi e non disturbarmi più!
    Io sentivo di non poter resistere fino alla 5; e quando venne la terza guardia, andai a bussargli al finestrino. Non l'avessi mai fatto!
    — Chi ti ha dato il permesso di alzarti, delinquente? — grida inviperita.
    — Scusi, io non sapevo che bisognava chiedere il permesso, perché sono nuovo del luogo; questa notte non ho chiuso un occhio. Ho fretta urgentissima di andare alla ritirata!
    — Ritorna subito a letto ! E guai se ancora dici una parola!
    Tiene gran consiglio, per studiare il mio caso, con le guardie delle altre stanze; ed a furia di chi sa quanti e quali principi democratici, decretano insieme di mandarmi al «basso loco».
    Poco dopo, l'orologio suona le 5.
    Le guardie gridano il segnale dell'alzata:
    — Ch'i lai, ch'i lai: alzati, alzati!
    Da questi «ch'i lai» posso farmi un'idea del gran numero dei detenuti. Mi metto a sedere sul letto, aspettando nuovi ordini; che non si fanno attendere, ma vengono irruenti e minacciosi:
    — Chi ti ha dato il permesso di sederti sul letto? Mettiti a sedere sulla sedia!
    Fiat! e obbedisco:
    — Non così, delinquente! Voltati con la faccia al muro!
    Ancora fiat! e con pazienza certosina do i miei occhi al muro e le mie spalle al finestrino.
    — Non ti muovere!... Prima di spostare anche un pochino le mani o la testa devi chiedere il permesso!
    Sempre fiat! Ma debbo confessare che la mia pazienza pende sull'ultimo filo.
    Non è passata neppure mezz'ora che la guardia, bussando sul finestrino mi grida:
    — Ehi! Non dormire! Perché tieni gli occhi chiusi?
    Il filo si stucca ed apro tutti i registri:
    — Non tengo gli occhi chiusi, né dormo!
    È come un grido d'allarme. La guardia spalanca la porta, mi punta la pistola e mi rovescia un diluvio di improperi; ma non mi bastona.
    Devo battere il petto, mentre lacrime di stizza mi cuociono gli occhi. Qui il regime, come si vede, era rigorosissimo: sedere dalla mattina alla sera, senza muovere un capello né un mignolo. Soltanto dopo il secondo pasto della giornata, permettevano di uscire per dieci minuti nel cortile!

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    La sera del 2 agosto, la guardia mi accompagnò nella sala degli interrogatori, dove mi aspettava il mio giudice. Restammo a quattr'occhi e m'invitò a sedere in una poltrona.
    Aveva un atteggiamento ilare e quasi affabile.
    Mi offrì da fumare e del té.
    — Che cosa pensi del Governo nei tuoi riguardi?
    — Penso che mi abbia già condannato!
    — Da che cosa lo deduci?
    — Dall'insieme di questa nuova prigione?
    — perché? Come ti ci trovi?
    — Molto male ! — E gli narrai brevemente il comportamento villano e vigliacco delle guardie.
    — Allora tu credi che questa sia proprio una prigione ?
    — Peggio, molto peggio!
    — Ma tu hai mai visto le prigioni comuniste?
    Mi fiorì la tentazione di chiedere se quelle in cui ero state fino allora erano prigioni imperialiste. Ingozzai pure questa.
    — Le prigioni comuniste sono tutte di ferro: porte di ferro, pavimenti di ferro, pareti di ferro, ed anche le vesti dei condannati sono di ferro! Tu le hai mai indossate queste vesti?
    — No!
    — Hai mai visto prigioni di ferro?
    — No!
    — E allora come puoi pensare che il Governo ti abbia condannato? E dimmi: sai perché da quel luogo, dove godevi più libertà, sei stato portato qui?
    — Non lo so !
    — In quel luogo hai fatto mai questioni di religione con il Signor Wang?
    — Sì, molte volte!
    — Male, malissimo!
    — Ma il Governo ci concede libertà di religione.
    — Vero; io non voglio dir questo. Domando se vi siete mai bisticciati per certe quisquilie di fede.
    — Alcune volte sì!
    — E bisticciarsi è una cosa buona?
    Anche un bambino avrebbe capito la fatuità di simili ragionamenti, per cui preferii non rispondere. Continuò lui per me:
    — La punizione non è stata soltanto per te, ma anche per il tuo compagno; però, dato che tu hai riconosciuto di essere nel torto, io darò ordine alla guardia di concederti la più ampia libertà nella stanza; e potrai sedere, passeggiare, dormire, leggere, come ti piacerà.
    Poi cambiò improvvisamente registro:
    — Sicché tu credi proprio che il Governo ti abbia già condannato? E se ti liberasse che penseresti?
    — Non penserei niente !
    — E che cosa faresti?
    — Non lo so !
    — Bene! ritorna in camera e pensaci su. A domani queste risposte.
    I due interrogativi mi andarono diritti al cuore come due gocce di coramina e mi balenò alla mente la gioia di finirla una volta per sempre con questa brutta vita da «galeotto».
    Preparai — notte e dì — un bravo sermoncino con tanto di cappello e la sera dopo glielo recitai. I punti erano questi:
    1. — Io qui in Cina ho agito a svantaggio del comunismo, per cui merito la sua punizione!
    2. — Sia che il Governo mi condanni, sia che mi liberi, giustizia esige che io ripari gli errori passati e mi faccia dei meriti a favore del popolo.
    3. — Se il Governo mi condanna, mi farò dei meriti in quel grado e in quella proporzione che esigeranno le leggi penali.
    4. — Se invece, usando verso di me misericordia, mi libera, io mi sforzerò di acquistarmi dei meriti nei modi seguenti:
   
    a) Dirò a tutti coloro con i quali avrò relazione che la politica del Governo di Pechino è politica di pace!
    b) Parlerò ad essi dell'amore alla Patria, al sacrificio e al lavoro che il Governo sa inculcare così meravigliosamente nella mente e nel cuore dei suoi giovani.
    c) Dirò le mie esperienze personali e la mia rieducazione in questo periodo di detenzione.
    d) Mi sforzerò di lottare sempre per la pace e di oppormi a qualsiasi movimento per la guerra.
    Il giudice apparve abbastanza soddisfatto, e mi disse di scriver tutto per le 12 del giorno dopo, 4 agosto!
    Quando presentai lo scritto, mi osservò che era troppo lungo e dovetti restringerlo in un foglio e mezzo. Non basta! L'ultimo paragrafo del quarto punto era troppo astratto; ed in pratica mi suggerì di formularlo così:
    «Come in passato io mi sono eretto nella posizione degli imperialisti contro la democrazia, così ora mi debbo erigere nella nuova posizione della democrazia contro l'imperialismo. Mi impegno a riferire al Governo cinese, in un tempo da determinarsi, tutto ciò che può essere utile alla sua politica di pace !»
    La mattina del 5 fui chiamato di nuovo e il giudice, in forma privata ed amichevole, mi confidò che il Governo aveva scelto la misericordia e che però da parte mia esigeva, settimanalmente, una relazione epistolare.
    Obbiettai che facilmente non avrei potuto assecondare tale condizione per difficoltà finanziaria.
    — Non pensarci. Ti farò avere il danaro che vuoi dalla Agenzia Comunista di Roma.
    Avanzai allora una seconda difficoltà:
    — Qualsiasi lettera che io spedisco, deve essere letta dal mio Superiore, il quale può anche opporsi ! —
    Sciolse più facilmente questo secondo nodo disciplinare, col dirmi di non far vedere nulla al Superiore.
    Mi rifiutai e non tanto per delicatezza di coscienza, (la promessa fatta in quel modo non ha alcun valore), quanto piuttosto per avvalermi del buon giuoco per convincerlo, con un argomento di più della mia sincerità.
    — Ma bada bene, che il Governo può sempre ritirare la benigna sentenza, perché l'ha emessa appunto condizionatamente !
    — Se io avanzo tutte queste difficoltà non è certamente perché non voglio assoggettarmi alla condizione del Governo, ma soltanto per non tradire la mia coscienza col promettere una cosa che poi non potrei mantenere! In fondo, io adesso potrei anche dire: «Si, si,» ma poi non far niente di quel che dico!
    — E saresti capace di andare contro l'ottavo comandamento di Dio?
    — Proprio perché non posso commettere questo peccato, non voglio promettere ciò che non potrò mantenere!
    — Allora come si accomoda la faccenda?
    — Ecco ! Io mi posso impegnare a scrivere, come scrivo agli altri amici, senza nessun tempo determinato!
    — Ah! questa proposta il Governo non la può accettare, perché le tue lettere non debbono essere di notizie, ma di informazioni segrete, come hai fatto a Pechino con Riberi ed altri! —
    Io mi rifiutai decisamente:
    — Per la nuova educazione ricevuta non devo ricadere mai più negli errori passati; quindi, ritornando in Italia, nulla farò contro la legge del mio Governo.
    — Il Governo dell'Italia non ha una legge, ma una tirannia, sotto la schiavitù dell'imperialismo americano!
    — La dottrina del Cristo dice di ubbidire a qualsiasi autorità legittimamente costituita, anche se discola !
    — Allora perché non hai ubbidito al Governo cinese?
    — A me non sembra di aver trasgredito le leggi disciplinari del Governo cinese, ma soltanto di essermi opposto a quelle contrarie alla ideologia cattolica: e farei altrettanto col Governo Italiano.
    — Questa è la nuova educazione che hai ricevuto? Allora non approvi il nostro principio della triplice indipendenza?
    — Io ho riconosciuto e riconosco tuttora, come mi avete bene insegnato, di essermi ingerito in questioni di carattere puramente cinese, coll'oppormi al movimento della triplice indipendenza, ma le leggi italiane mi interesseranno direttamente. Qui in Cina sono uno straniero; in Italia sono un cittadino.
    — M'importa poco della tua anagrafe. Andiamo al sodo e al chiodo. Che si fa? —
    Dopo qualche altra battuta, scendemmo al compromesso: io avrei potuto far vidimare le lettere al Superiore, quindi scriverle apertamente e non in modo segreto, ma sempre una volta alla settimana. In quanto ai soldi, ci arenammo. Con molta probabilità il Superiore non mi avrebbe permesso di ricevere danaro dall'Agenzia Comunista, per cui la mia promessa sarebbe andata a monte.
    Alla fine ci accordammo: scriverò una volta ogni tre mesi, per lettera comune e non segreta. ordinaria e non aerea.
    Mi consegnò un foglio; ed io scrissi. Ma lui non fu soddisfatto dei miei propositi agit-prop.
    Risposi che nella mia qualità di semplice Sacerdote non avrei avuto né la capacità, né la possibilità di raccogliere tante informazioni e quindi mi limitavo a quelle cose che io stesso avrei veduto o sentito per assicurarlo della veridicità di esse.
    Per formulare questa promessa impiegammo tutta la giornata! E con quanta finezza ed astuzia suggeriva, disponeva, toglieva, mutava, aggiungeva parole per farle corrispondere meglio al suo pensiero! Per la stesura finale era presente un altro cinese, di fronte al quale il giudice mi domandava:
    «Come si dice in italiano questa parola, quest'altra?» ecc.
    Alle mie risposte, quell'altro cinese accennava di sì con il capo, quindi sospettai che sapesse l'italiano !
    Difatti, quando il giudice mi suggerì che dovevo scrivere d'impegnarmi a «raccogliere informazioni» ( Shou Chi Ch'ing Pao), io finsi di non capire quel verbo che esprimeva tutto il compito di una spia!
    Allora il giudice ordinò all'altro cinese di spiegarmelo in italiano, ma questi, poverino, forse l'aveva dimenticato! Guardò in tre vocabolari già aperti sopra il suo tavolo e poi balbettò:
    «Cel-ca-le» (cercare)!

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    La stesura finale della mia promessa era quasi di queste precise parole: «Ora che ho ottenuto misericordia dal Governo popolare cinese, ritornando nella mia Patria, mi impegnerò, nei limiti della mia possibilità, a lottare per la pace e contro la guerra. E per ricompensare, in qualche modo, il male arrecato al Governo popolare cinese, io mi impegno ad informarlo di tutte quelle cose che possono essere utili alla sua politica di pace!
    Ed in concreto cercherò, nei limiti del mio possibile, le informazioni sullo stato politico, culturale, educativo e finanziario della Nazione, e l'impiego che fa l'imperialismo della religione, e dentro tre mesi, per lettera comune e ordinaria le comunicherò al Governo popolare cinese, per istillare nel popolo sempre più odio ai principi imperialistici!».
    Quando la consegnai dattilografata al giudice, egli con tutta solennità, di fronte all'interprete mi
    disse:
    «Se tu manterrai fedelmente questa promessa, i compagni comunisti di tutto il mondo ti proteggeranno e ti difenderanno contro le insidie di qualsiasi nemico, ma ricordati bene che se invece non le manterrai, noi avremo modo di riacciuffarti immediatamente, in qualunque parte del mondo ti vada a rifugiare!».
    La stessa sera del giorno 5 verso le 22, il giudice mi richiamò e volle vedere la mia vestaglia cinese (Ta Kua Tse), che durante l'estate non avevo mai portato, e, dopo avermela fatta mettere mi disse:
    «Adesso ripeti a memoria il senso della promessa che hai scritto poco fa! Te la fo ripetere con la veste più pulita che hai per fartene comprendere l'importanza».
    Dopo la buffonata mi mandò a dormire!
    Un'ora più tardi mi fece richiamare ancora e mi fece indossare il Ta Kua Tse.
    Mi attendeva una buffonata ancor più comica della prima! Entro nella sala degli interrogatori e la trovo addobbata con grande solennità di bandiere, quadri di Lenin, Stalin, Mao Tse Tung, e con fiori! Il giudice sta seduto al tavolo di centro e veste in grande tenuta.
    Mi invita alla sua sinistra, in piedi; e mi porge il foglio della mia promessa.
    In sala, altri ufficiali. Alla destra del giudice, ma alquanto scostato, sta l'interprete, il quale mi sillaba in italiano:
    «Ola legga folte e molto adagio!».
    Prima della lettura, il giudice mi obbliga di tenere il pugno destro alzato. E in questa solennissima posa, leggo la mia professione di «fede». Un ufficiale mi scatta una fotografia al magnesio; una seconda me la scatta mentre fingo di firmare (avevo già firmato) e una terza da solo a mezzo busto. L'altro ufficiale controlla il registratore. A che prezzo ho scelto la mia libertà!