Frate diavolo

    Dopo l'immediata occupazione di Pechino, noi ci potemmo render conto personalmente che tutto ciò che si diceva intorno ai massacri e al terrore comunista era infondato.
    Tutto procedeva bene come prima, anzi forse meglio di prima.
    Quando la Polizia comunista ci veniva a far visita a domicilio per qualsiasi scusa, si intratteneva a chiacchierare con noi molto volentieri e con tanta affabilità, interessandosi minutamente dei nostri lavori specifici, lodando sperticatamente le opere della Chiesa e dei Missionari Cattolici.
    Qualcuno dei più fini ci diceva ripetutamente di sentirsi addirittura felice di poter esserci utile in qualche cosa e ci pregava di manifestare le nostre necessità, incoraggiandoci anche ad andare più spesso al posto di Polizia per fare le nostre «preziose» osservazioni sulla loro condotta e sulla loro opera; sentivano il bisogno — dicevano — di essere «criticati» per migliorarsi sempre più a vantaggio del popolo.
    Rianimato da tanta cordialità, domandai il permesso di potermi recare nella mia Missione di T'ung-Chow per lavorare con i miei confratelli; ma la risposta fu elegantemente negativa: «Noi non avremmo niente in contrario e daremmo volentieri questo permesso, ma temiamo per la sua salute e ci preoccupiamo della sua vita.
    Per la strada potrebbe incontrare qualche sovversivo del passato regime e gli potrebbe fare del male, perché quelli sono delinquenti, e non potendo noi ancora avere un completo controllo, non ci sentiamo di darle un'assoluta garanzia; quando le cose si saranno normalizzate, allora non vi sarà più pericolo e potrà andare liberamente!
».
    Fu così che, non potendo recarmi nella mia Missione e non avendo nessun lavoro particolare nella Casa francescana, chiesi ed ottenni dai miei Superiori Maggiori di trasferirmi nell'Istituto Salesiano nella stessa Pechino per aiutare quei bravi Sacerdoti nell'opera educativa della gioventù.
    Li avevo conosciuti nelle vacanze natalizie del 1948; e furono tanto gentili da concedermi di rimanere con loro una settimana intera per abilitarmi nel maneggio della lingua imparata sui libri. Fu una settimana utilissima, in vero, perché ebbi modo di stare sempre in mezzo ai giovani. In seguito ci tornavo spesso per cantare, giocare e conversare con essi.
    Quando chiesi al Sacerdote D. Mario Acquistapace, allora Superiore, se mi permetteva di abitare e lavorare con essi, fui accettato e accolto come una benedizione, perché «aveva scarsità di personale».
    Il 2 luglio 1949 mi trasferii definitivamente in detto Istituto. Mi accorsi ben presto che l'attività della vita salesiana era confacientissima al mio carattere, ed avrei desiderato che la giornata avesse avuto cento ore invece di ventiquattro.
    Prontissimo a tutti i giuochi, preparato nella scuola, pieno di iniziative nelle accademie e nei teatri, sempre con tutti francescanamente allegro, ero riuscito a farmi amare, anche perché tutti erano convinti che io non mettevo nessun limite nel mio amore per essi.
    Recitavo parecchie volte anch'io insieme ai miei giovani... Riuscitissimo fu il melodramma «Marco il Pescatore» che rappresentammo per ben quattordici volte nei vari Istituti di Pechino e due volte al Teatro dell'Università cattolica. Io sostenevo la parte del «Diavolo», e, come diavolo, divenni famoso per tutta Pechino, tanto è vero che anche in prigione ne dovetti soffrire, perché, mi dicevano, quando io recitavo quella parte intendevo significare i comunisti nella perfidia e malizia del diavolo.
    Insegnavo anche canto, musica, aritmetica, algebra, catechismo, più l'italiano e il latino agli aspiranti.
    Ero pure confessore, e più tardi nel settembre del 1950, con il permesso dei loro Superiori Maggiori, i Salesiani mi affidarono la cura della Parrocchia di Maria Ausiliatrice.
    Fui proprio contento di questo ufficio, perché potevo estendere così le mie attività anche al di fuori.
    Si dovette incominciare quasi daccapo, perché i Salesiani che solo tre anni prima avevano ricevuto questa Parrocchia, dediti quasi esclusivamente all'opera interna, erano fisicamente impossibilitati a dedicarvisi con tutto l'impegno richiesto.
    Per presentarmi ai fedeli e per spronarli tutti ad un risveglio di vita cristiana, mandai subito una circolare ad ogni famiglia; e, con l'aiuto di alcune donne zelanti, riuscii a compilare un primo censimento dei fedeli in tutta la Parrocchia.
    Dopo questo approccio anagrafico, progettai di erigere un Presidio della Legione di Maria che mi avrebbe servito come mezzo validissimo, quasi essenziale, per la mia futura opera di evangelizzazione. Non mi restò difficile, perché cinque o sei cristiani appartenenti alla mia Parrocchia erano già membri della Legione nella vicina Parrocchia dei francescani Olandesi di Hsiao Ching Ch'ang.
    Per la fine dello stesso mese eressi un altro Presidio dei Grandi e nel gennaio del 1951 un Presidio dei Piccoli.
    Da quando presi la cura della Parrocchia, incominciai ad essere al corrente di tutta la situazione religiosa di Pechino, perché il Vicario Generale Mons. Li Chun Wu, che reggeva la Diocesi in assenza del Card. T'ien, riuniva mensilmente tutti i Parroci della città per scambiare qualche idea, dare avvisi, ecc. Queste riunioni acquistavano sempre più importanza ed interesse, perché proprio in quel tempo, negli ultimi mesi del 1950, si iniziava apertamente il movimento di opposizione contro la Chiesa Cattolica da parte del Governo popolare cinese.

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    Durante tutto il 1949 e metà del 1950 la Chiesa Cattolica poté godere a Pechino la massima calma e tranquillità; solo alcune disposizioni governative di carattere puramente disciplinare verso gli stranieri, facevano fortemente dubitare delle manovre subdole che i nuovi padroni andavano maturando sotto la cenere.
    Tra l'altro, nessuno straniero poteva allontanarsi dalla città senza un permesso speciale della Polizia, chiesto volta per volta e concesso raramente con grande difficoltà!
    Tutti i responsabili della proprietà dei cattolici dovettero inventariare e denunziare fino alla scrupolosità beni mobili ed immobili.
    L'avvenimento poi di grande importanza che convertì il dubbio in quasi certezza, fu quella specie di censimento che fece il Governo per gli stranieri. Il modo fu davvero caratteristico; noi lo chiamammo: «Confessione generale»! Tutti si doveva andare singolarmente in Polizia per un minutissimo interrogatorio di fronte a tre o quattro gerarchi: volevano sapere vita e miracoli dalla nascita fino a quel momento. In seguito a questa «Confessione generale» il Governo rilasciava una specie di carta d'identità che fungeva da «Pass», la quale veniva negata a tutti coloro che non avessero un ufficio specifico.
    L'essere Missionario non costituiva evidentemente, per i comunisti, una ragione sufficiente per essere considerato avente un ufficio specifico; per cui molti Sacerdoti furono privi di «Pass».
    Io riuscii ad ottenerlo come insegnante all'Istituto salesiano. Che cosa importava la negazione di questa tesserina?
    Per sé, nulla; ma chi non l'aveva non poteva ottenere il permesso dalla Polizia di uscire dalla città, non poteva bollare la propria bicicletta ecc. «Però — diceva la Polizia — in ogni eventuale richiesta della tesserina, chi ne fosse sprovvisto, sarà responsabile di qualunque possibile conseguenza!».
    Le tesserine erano di due colori: nere e rosse; quelle valide per sei mesi, queste per un anno: ambedue rinnovabili.
    Ma non si è mai potuto capire con quale criterio i comunisti abbiano dato l'una piuttosto che l'altra.
    Alla scadenza non la rinnovarono, misero soltanto un timbro unico per tutti senza determinare il tempo.
    Intanto il Governo, da parte sua, studiava minutamente la nostra Dottrina Cattolica per poterla combattere strategicamente ed inesorabilmente.
    Difatti, più tardi, scapparono fuori i «Dottori della nuova legge» i quali ci rimproverarono di esserci allontanati dalla Dottrina del Cristo e di averLo tradito con l'esserci fatti ingannare dall'imperialismo invasore.