Più che prefazione


    «Padre Tiberi era stato uno dei miei migliori studenti nel Liceo di Falconara. Quando, nell'ottobre del 1947, mi venne a salutare prima di partir per la Cina, a rivedere quel suo sguardo ardente e sicuro, a risentire le vibrazioni di quella sua anima ingenua ed entusiasta, quasi mi rammaricai che un elemento così prezioso lasciasse l'Italia.
    Dopo cinque anni, al ritorno, lo rividi; gli occhi, sempre ardenti e mobilissimi, a volte s'incantavano come se inseguissero fantasmi nascosti nella sua memoria tesa e tormentata.
    Che cosa era successo? Mi raccontò qualcosa, in fretta e a scatti. Ora ho letto il suo libro e ho capito. Un libro senza nessuna pretesa letteraria, scritto come per liberarsi da un tumore maligno. Stile discontinuo, talvolta persino farraginoso sotto l'urgenza dei ricordi che incalzano, ma sempre spontaneo e potentemente veridico. Un racconto senza respiro, spesso allucinante, condotto con semplicità e distacco, che accende sprazzi di umorismo umanissimo anche ai limiti della tragedia. Fra zone d'ombra e quindi di amnesia totale e ricordi inchiodati in maniera lucida e indelebile sul fondo della sua memoria, il protagonista della vicenda ci offre una sequenza di fotogrammi cinematografici, ove i fatti raggiungono toni così incredibilmente crudeli da sembrare che colui che racconta veda quasi in un altro realizzarsi le fasi di quel dramma che invece proprio lui ha vissuto giorno per giorno come travolto dagli ingranaggi di una ruota vertiginosa.
    Gli è sfuggito un titolo sconcertante:
«Come divenni comunista». Ma è arrivato veramente a diventar comunista, sia pure per poco tempo? No. E il significato e il valore di quel pochissimo che gli fu estorto verso le ultime tappe della sua via crucis, sono ben condensati nel tragico avverbio del titolo, che getta una luce spaventosa nelle fasi di quel procedimento iniquo con cui una creatura umana cosciente e responsabile fu trasformata per un certo tempo in un essere passivo e irresponsabile.
    È vero. Padre Tiberi confessò, firmò, promise. Ma che cosa? Arrivò persino a salutare con il pugno chiuso. Ma era più Padre Tiberi quel tale? E quel qualcosa che egli confessò, firmò, promise, «come» fu ottenuto?
    Per comprendere in pieno il senso della vicenda bisogna aver la pazienza di trarre, dal groviglio del supplizio cinese, le linee essenziali del trattamento scientificamente calcolato applicato alla vittima con sadico e raccapricciante cinismo.
    Esso si distende nel giro di circa undici mesi, dal 30 settembre 1951 al 6 agosto 1952, e si articola in cinque periodi, insieme distinti e concatenati dal filo di una logica tremenda.
    Il primo periodo è come un preludio. Dura ventidue giorni. Il giovane è completamente isolato, tenuto a una dieta di progressivo logoramento, costretto a un silenzio assoluto, di giorno continuamente seduto per terra, obbligato per volontà dei giudici a pensare ai propri delitti in un continuo interiore esame di coscienza.
    Il secondo periodo lo porta di colpo nel vivo della tragedia. Dura cinquantasette giorni, dal 22 ottobre al 18 dicembre. Nei sotterranei della prigione, senza mai vedere la luce del sole. Capelli e barba crescono incolti. Si lava la faccia una volta la settimana nella stessa acqua di un bacile comune a tutti i condannati. Inselvatichisce lentamente. Dieta giornaliera sempre eguale: duecento grammi di pane di granturco, una ciotola d'acqua calda, un pizzico di erbe salate. Mani sempre in catene. Percosse, saliscendi affannosi e rapidi su e giù per le scale, esercizi strani di accoccolamenti che slogano le ossa, stirano i nervi, spezzano i muscoli. Eccetto una notte, rimane senza dormire dal 2 novembre al 18 dicembre. È obbligato a tenere gli occhi aperti fissi verso la lampadina. Per otto giorni, a due riprese, è costretto a rimanere in piedi immobile. Sempre in silenzio. Incominciano le vertigini, i deliri, le allucinazioni, le visioni immaginarie. Talvolta piange sfinito e di schianto stramazza a terra, la bocca sul pavimento e dalle labbra gonfie e riarse un filo di bava nera. È un mostro. Nei momenti di ripresa, il silenzio è rotto dagli interrogatori a ripetizione. In media sei ore su ventiquattro. Un interrogatorio dura tredici ore continue. È costretto a raccontare infinite volte ad alta voce tutta la sua vita fin dall'uso di ragione, sempre ricominciando daccapo una volta arrivato al termine. Il racconto è bruscamente interrotto dagli inquisitori che si avvicendano, soffocandolo con domande improvvise, accuse categoriche, richiesta di confessioni circa pretese attività di spionaggio. E finalmente dalla vittima, che è diventato l'ombra di se stesso, vengon fuori le prime confessioni.
    Ammette e confessa tutti i fatti veramente commessi: ha diviso il popolo animando i cattolici alla resistenza contro il Governo, ha difeso l'Internunzio contro l'espulsione, ha corrisposto clandestinamente con l'Internunzio, è intervenuto presso il Vicario Generale per ottenere direttive precise contro la Triplice Indipendenza. Su queste confessioni cala il sipario del secondo periodo.
    Il terzo periodo scorre fino all'8 maggio. Nell'intento di costruire l'uomo nuovo su una creatura dal corpo sfinito, dall'anima cupa di terrore, dalla coscienza inibita, la macchina del carnefice si muove abilmente con un duplice ritmo che va dal «lavaggio del cervello» «all'indottrinamento». Le torture cessano. P. Tiberi può finalmente dormire e mangiare. Ma su quell'essere, diventato molle come la cera, incomincia una serie giornaliera ininterrotta di lezioni, conversazioni, letture e compiti attorno alla dottrina marxista e ai fatti del giorno interpretati in senso marxista. La ripetizione monotona, esasperante, elementare, dei testi marxisti investe senza tregua il cervello della vittima. Le deboli obbiezioni che il giovane missionario osa formulare sono gentilmente smontate dalla dialettica marxista dei maestri che si danno il turno. È a questo punto che, insistendo i maestri nel definire come opera di spionaggio i fatti confessati dal Padre Tiberi nel secondo periodo, il frate viene indotto ad ammettere per iscritto di essere stato, anche se inconsapevolmente, una spia, uno strumento indiretto dell'imperialismo contro il Governo, contro il popolo, contro la pace.
    Nel quarto periodo, che comprende il mese di maggio, il Padre Tiberi è obbligato a scrivere minutamente il «diario del pensiero», per convincersi sempre di più che, in ultima istanza, tutti i fatti da lui confessati e interpretati in senso spionistico sono stati operati non per motivi religiosi e soprannaturali ma per ragioni umane di vanagloria, di egoismo e di orgoglio.
    Dopo due mesi di calma, il quinto periodo, che è l'epilogo di tutta la tragica farsa, si risolve nel giro di una settimana. Un rincrudimento repentino del trattamento persecutorio, immobilità assoluta, silenzio, e sul silenzio coatto della vittima le minacce più terribili e un'onda di terrore come se tutto dovesse ricominciar daccapo. Quindi, improvvisa, una domanda dolcissima: «Che cosa faresti se il Governo ti liberasse?». Il poverino risponde che dirà a tutti che il Governo di Pechino è un Governo di pace e di civiltà, e racconterà sempre l'immensa utilità ricavata dal trattamento comunista. Il carnefice è pago, ma suggerisce che il modo migliore per dimostrare questa buona volontà è che il frate prometta solennemente di rimanere periodicamente in contatto con il Governo di Pechino, riferendogli per lettera ogni tre mesi tutte le notizie che lo possono interessare. Quest'ultima promessa, scritta e firmata, Padre Tiberi dovette leggerla ad alta voce davanti a un registratore, sotto i lampi al magnesio, mentre la sua mano si levava col pugno chiuso nel saluto comunista.
    Il 6 agosto del 1952 il Padre Tiberi veniva liberato.
    A questo punto ci si può riproporre la domanda iniziale: «Padre Tiberi ha abdicato di fronte all'avversario?». No. All'eresia del carnefice non ha concesso nulla e, pur nei tormenti più squisiti, quando anche la coscienza sembrava gli si sfasciasse, nulla, mai nulla gli è sfuggito contro la Religione, contro la Chiesa, contro il Papa. Non voglio fare il panegirico di questo giovane frate. Ma chi non sente qui la presenza di un miracolo? La grazia di Dio ha operato in lui. Chi altro, se non avesse avuto la fede e la grazia, avrebbe potuto resistere sotto la valanga di tante torture fisiche e morali?
    Ma i marxisti non possono cantar vittoria neanche di quelle pochissime cose, che sul piano puramente umano, con una tattica serpentina di equivoci di compromessi di tortuosità, son riusciti ad imporgli nell'ultima fase della via crucis. Infatti la piena coscienza e la deliberata volontà, che sono elementi costitutivi di un atto umano veramente responsabile, gli erano stati completamente sottratti dopo un trattamento scientifico di dieci mesi. E pertanto colui che levò il braccio col pugno chiuso non era più il Padre Tiberi, ma una maschera tragica che i registi della persecuzione erano riusciti a comporre con diabolica arte. Tanto è vero che, appena in libertà, Padre Tiberi, recuperata la pienezza della sua coscienza, ha riaperto gli occhi ed ha pianto come se si fosse liberato dagli incubi di un sogno maledetto.
    Colui che è stato definito «il duce della resistenza cattolica» a Pechino, rimane davanti ai nostri occhi in una luce intatta di commossa ammirazione, come si addice a un martire della fede.
    Che dire invece degli avversari? È difficile trovar parole per stigmatizzare l'iniquità di questo nuovissimo tipo di persecuzioni. Ma si tratta poi veramente di novità? Non completamente. Già ai tempi di Decio, il supplizio fisico e morale veniva scaltramente dosato e applicato ai martiri della Chiesa nascente, nell'intento tattico di trasformare i cristiani in apostati. Oggi, gli eredi dei primi persecutori, riprendono, senza originalità sostanziale, la vecchia metodologia dei loro maestri, ma tuttavia la sviluppano secondo i canoni della più raffinata tecnica moderna, costruendo una vera e propria scienza del martirio che si avvale delle infinite risorse della medicina, della psicologia, della psichiatria.
    Ci troviamo di fronte a un fenomeno umanamente mostruoso. La dittatura economica e la dittatura politica che calpestano i diritti economici e le libertà civili dell'uomo, pur essendo una cosa infame, diventano uno scherzo di contro a questo tipo di dittatura che vede una creatura umana avventarsi contro un'altra creatura per rubarle la parte più intima della sua personalità, distruggerne il cervello, violarne la coscienza, incatenarne la volontà.
    Ma non è neanche una dittatura, questa, è addirittura una guerra. È una guerra vera, dalla quale nascono e nella quale si riassumono tutte le altre guerre. È una guerra infinitamente più crudele delle guerre materiali, perché, mentre queste uccidono i corpi, quella tenta di strozzare gli aspetti spirituali e divini della creatura. Ed è insieme la guerra più vigliacca, ove tutto l'apparato di uno Stato totalitario si arrovescia, con furia maramaldesca, non contro un uomo morto, ma contro un martire inerme, che non si difende, che non vuol reagire, che continua a perdonare.
    È un fatto bestiale. Ma neanche bestiale. Perché nulla di simile si riscontra nell'ordine delle bestie.
    Qui c'è l'ombra dell'Anticristo. Non esitiamo ad affermarlo.
    E chi non riesce a vedere oltre le apparenze umane, gli sfondi soprannaturali dì questa satanica persecuzione, che dalle steppe della Siberia si è estesa alle rive del Gange, rimarrà assolutamente incapace di definire i sensi profondi e le prospettive storiche di questa ignominiosa e meravigliosa vicenda, che trascende la breve statura degli stessi protagonisti.
    È il mistero del Calvario che si rinnova. È la passione di Cristo che si perpetua. Di quel Cristo che, non potendo più soffrire nel Suo Corpo diventato glorioso, continua a soffrire nelle membra del Suo Corpo Mistico che è la Chiesa. E continua a soffrire perché la Redenzione si applichi. In questo momento storico. Per quelli che soffrono, per noi tutti, e per gli stessi persecutori. Per la libertà contro le forche. Per la giustizia contro l'oppressione. Per il trionfo della grazia contro l'Anticristo. Ossia per un domani migliore, che già urge alle porte della storia. Il tormento dei suppliziati sta meritando la nostra felicità, così come il sangue dei martiri sta maturando la nostra rinascita.
    Ecco perché, leggendo questo libro e rievocando oltre la sua falsariga tutta l'attuale tragedia della Chiesa in catene, noi, davanti allo scontro tra il carnefice e il martire, siamo presi da un sentimento che è insieme di orrore e di esaltazione, di dolore e di gioia. Come davanti al Calvario. È il Calvario infatti, che si proietta sul versante dei nostri tempi per annunziarci che la resurrezione è vicina».

ANTONIO LISANDRINI