O confessione o morte

    Nel viaggio di ritorno da T'ien-Tsin ad Hong-Kong, sulla nave Hu Nan, con me c'erano altri dodici missionari, pure condannati all'espulsione. Padre Cocquyt, belga Scheutista mi disse:
    — Padre, bisogna che la ringrazi per la grande consolazione che mi hanno recato le sue belle parole, durante la mia galera. Che fegato! e che polmoni da primato!
    — Quando? Dove? Io non ricordo niente!
    — Quando lei è stato nella mia stessa prigione!
    — Quale prigione?
    — Dove stavo ficcato io. Nella nostra Scuola !
    — Io non sono mai stato nella vostra Scuola.
    — Ma lei scherza!
    — Giuro di non esserci mai stato !
    — Eppure per tre mesi continui, tutte le sere, verso le quattro, sentivo la sua voce che mi dava tanto conforto in quelle sofferenze, e ne ringraziavo il Signore ! Dopo alcune battute d'incoraggiamento, lei intonava a voce altissima l'Ave Maria in cinese e il Christus vinciti
    — Sì, io ricordo di aver gridato, e non cantato, ma una sola volta, il Christus vincit nella mia e non nella sua prigione.
    — Ma scusi, lei è stato qualche tempo senza dormire?
    — Sì, una ventina di giorni!
    — Ah, ecco, adesso mi spiego: lei mi udì nei delirio e nell'allucinazione!
    — Che, anche lei ha avuto le sue notti bianche?
    — Quarantaquattro!
    — Allora è probabile — chiarì lo Scheutista — che lei sia venuto senza essersi accorto!
    — Questo è addirittura impossibile. Le mie allucinazioni, sono state molte, sì, ma di breve durata; per cui ricordo molto bene tutti i luoghi dove sono stato portato!
    Il P. Coquyt restò scettico.
    Dunque io, senza saperlo e senza muovermi gli sarei stato di grande consolazione? Deo gratias !
    Lui. di certo, pur senza nessunissima colpa, mi fece del male, perché verso i primi di aprile, nel suo diario scrisse, e lo ricordava bene, tra l'altre, questo: «Il P. Tiberi è il duce della nostra resistenza passiva in Pechino, che ci condurrà infallibilmente alla vittoria finale!». Rispecchiava naturalmente il tono dei miei discorsi che spifferavo tutti i giorni sul coraggio, sulla fortezza, sulla perseveranza. Se l'ingenuità è peccato, questa del mio Cocquyt è doppio peccato mortale! Il perché è evidente. Il diario fu sequestrato e il suo brindisi al «duce della resistenza passiva» diventò una bella e grossa denuncia...

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    Nei pomeriggio del 16 aprile la guardia chiamò Wang nella sala degli interrogatori. Dopo una ventina di minuti chiamò anche me.
    Nella piccola sala, riconobbi il mio giudice ordinario, dopo quattro mesi circa; accennò di accomodarmi a destra della sua cattedra. Meno male! Era la prima volta che mi veniva permesso di sedere durante gli interrogatori; e provai una sensazione di ottimismo. Volle sapere particolareggiatamente il curriculum del mio indottrinamento. Io dissi tutto e con tutta franchezza. Ma lui:
    — Ti credevo più sincero e più intelligente ! Tutto ciò che hai confessato è un intruglio di falsità. Puoi mai supporre che il Governo ti abbia imprigionato e fatto soffrire tanto e così a lungo solo per quelle sciocchezze che ci hai raccontato? Io (mi indicò un cassetto della cattedra) ho fotografie dei tuoi misfatti che ancora non hai confessato ed altre incontestabili documentazioni, nonché i nomi di testimoni oculari che in qualsiasi momento possono venire qui. Il Governo ti dà ancora 24 ore di tempo: se confessi, bene, altrimenti non resta che il giudizio popolare! —
    Come dire: fulmine a ciel sereno! Poi riattaccò:
    — Il Governo ha finalmente scoperto la sigla e il numero del tuo spionaggio! Tu sai che come non c'è uomo senza nome, così non c'è spia senza numero! Il Governo vuol mettere in prova la tua sincerità. Approfitta di questi ammonimenti. —
    Non me l'aspettavo. Anche il compagno Ma aveva lodato il mio «progresso»; alcune guardie mi complimentavano per il mio distacco intellettuale sugli altri; e Wang mi sventolava la certezza della liberazione imminente... Da notare che io ancora non sapevo nulla degli strani fenomeni del P. Cocquyt.
    Sicurissimo di aver detto tutto, davanti a tali minacce, ormai non vedevo più alcuna via di scampo!
    Tornai in sala. Wang aumentò il mio incubo; e mi diceva:
    — Pensaci bene e con calma ! Non ti eccitare che non giova un pelo, anzi può nuocere alla tua memoria! Rifletti a tutto ciò che hai fatto contro il Governo; di certo avrai dimenticato qualche cosa. Cerca di ricordare tutte le lettere che hai scritto ai tuoi amici, tutte le parole dette ai tuoi cristiani contro il Comunismo! Il Governo ti vuol bene, ti vuol salvare; per questo ti da 24 ore di tempo!... Fin da principio te lo raccomandai: confessa tutto, senza l'ombra dell'ombra della paura, perché molta colpa dei nostri errori è dovuta alla vecchia mentalità di cui noi siamo figli irresponsabili! Basta confessarsi (ai preti di Mao!) ed essere disposti a «lavare bene il cervello». —
    Il resto della sera fu per me come il resto del Carlino. Tutta la notte e il dì dopo, mi accasciai nel cupo pessimismo di una distratta meditazione, domandandomi spesso, anche ad alta voce: «Ma che cosa ho lasciato!? Ma che cosa posso aver fatto? Chi lo sa, me lo dica!».
    Ero desolatissimo. Non trovavo nulla di nuovo. Non c'era. Pure Wang finì per convincersi della mia sincerità.
    — Che ci sia in Cina un altro Tiberi? — mi chiese.
    — Sì, c'era ad Hong-Kong, un salesiano italiano del mio stesso cognome; ma non è mai stato a Pechino !
    In quanto alle lettere, dove sparlavo dei comunisti, decisi di esagerare. Così pure sulle mie conversazioni e sulle mie prediche. Tutto per colpa della mia vecchia mentalità. Sì, solo per questo!
    Ricordai anche di aver trovato, nel primo anno di Pechino, un neonato, abbandonato in una pozzanghera: di averlo fotografato prima del seppellimento. Spedii qualche foto del mio morticino ai miei connazionali, come saggio e come primizia del mio mondo nuovo, con qualche altra foto di poveraglia.
    Sarà tutto qui — pensavo — il mio spionaggio segreto? Su queste foto?...
    Nell'estate del 1949 avevo preso dalla Procura francescana di T'ien-Tsin 100 dollari americani e li avevo cambiati a mercato nero.
    A primavera del 1951 dissuasi alcuni infermieri dell'Ospedale cattolico francese di Pechino dallo sciopero e dall'iscriversi alla Corporazione comunista del lavoro.
    Comunicai al P. Benvegnù l'esproprio forzato dell'Ospedale!
    Poi... anche un incidente stradale nei primi mesi della liberazione di Pechino con un soldato comunista: che sia questo il mio «delitto?»... Correvo in bicicletta a grandissima velocità in un'ampia strada della città verso il nord; giunto ad un incrocio dove era il Vigile urbano, un soldato mi attraversò la strada sterzando improvvisamente verso est; non feci in tempo a frenare e lo investii in pieno, trascinandolo con la bicicletta per qualche metro; io caddi avanti a lui. Restammo incolumi; ma il soldato accusò qualche dolore alla gamba destra; la sua bicicletta era intatta, la mia irriconoscibile, con la ruota davanti fracassata e la forcella piegata. Tra una folla di curiosi ci scusammo a vicenda e ci salutammo. Portai la mia bici da un meccanico che era a due passi; e ne noleggiai un'altra.
    A sera ripassai, e il meccanico mi disse:
    — Sarà pronta per domani sera, ma io ho l'ordine dalla Polizia di non consegnargliela se non alla sua presenza!
    Mi consigliai con alcuni miei maestri di lingua cinese; e tutti mi dissero di non eccitarmi nella discussione con i comunisti anche se con tutte le ragioni del mondo; ci fu uno che mi sconsigliò di presentarmi: tanto il mio indirizzo non lo sapevano.
    Invece, la sera dopo, insieme al cuoco della Casa francescana, tornai dal meccanico che telefonò subito alla Polizia.
    Vennero l'investito ed un ufficiale armato con due rivoltelle.
    — Ma perché? — Scattai — Credi tu, signor ufficiale, di impaurirmi con le armi? La ragione non sta nella forza!
    Impassibile come una mummia egizia o — non so — come la Sibilla Cumana, mi fece narrare l'accaduto.
    — Adesso chiamiamo il Vigile. Egli deciderà chi dei due ha ragione!
    — Se ci fosse una causa tra il Padre Eterno e un comunista, l'innocente non potrebbe essere che il comunista.
    Volle una spiegazione di questo mio paradosso; ed io:
    — Darà ragione al compagno perché i Vigili sono diventati burattini nelle mani del Governo, gli angeli custodi delle stelle rosse.
    L'ufficiale mi afferrò per un braccio urlando:
    — Hai il cervello guasto ed hai bisogno di almeno tre mesi di indottrinamento.
    Tentò di trascinarmi via, ma feci in tempo ad attaccarmi al banco.
    Tra sì, ma e però tornò madonna prudenza con sua figlia pazienza e si riprese la discussione: il torto dello scontro fu tutto mio che pedalavo all'occidentale, tutte mie le spese dell'investito che era sanissimo e per la sua bici «fracassata» che era pure sanissima. Da noi si dice ed il proverbio è succo di giustizia: chi rompe paga e i cocci sono suoi. Io pagai senza cocci e in contanti.
    Andati via, il meccanico mi offrì te e sigarette, brindando al mio coraggio ed alla mia sincerità.
    — Però. — mi disse — occhio lungo e silenziatore in bocca con certa gente! Noi siamo arcistufi, eccetto quei pochi gaglioffi, ma chi da il coraggio di parlare? Se non vengono gli Americani, diventeremo tutti schiavi della Russia!...

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    L'orologio faceva il suo dovere. Mancavano 24 minuti. Poi 20. Poi 4... Ma il cronometro non è roba cinese. E le 24 ore diventarono 48; con quale giocondità per me, pensalo tu.
    A sera del 18, finalmente! ecco il giudice... appariva molto stanco e molto strano!
    Stavo per mettermi a sedere nella sedia preparata alla sua destra; ma egli:
    — Non crederai mica di stare nella tua Chiesa, maleducato! Resta in piedi. Questa è l'ultima volta che hai l'onore di parlare con il rappresentante del Governo !
    Calmo e mortificato dissi di essermi ricordato di alcune cose.
    — Era da tempo che io lo sapevo! Ora è finita anche per te di fare lo scoiattolo e di burlarti del Governo !
    Mentre sfilavo le novità della mia autoaccusa, egli ascoltava con visibile disprezzo e volutamente distratto, ma in fine sbottò:
    — Sappi che non ti trovi in un qualunque posto di Polizia, né in un ufficio di Vigili o in una caserma di guardie, ma nel tribunale del popolo! Confessando queste pagliuzze (Chi Mao Suan P'i) vuoi gettare sugli occhi del popolo la polvere farisaica, nascondendo quelle importanti informazioni politiche che hai mandato all'Internunzio ed al Papa. Ti sbagli. T'illudi di ingannare, ma inganni solo te stesso. I tuoi misfatti sono qui dentro!
    — Ma allora si tratterà di un altro Tiberi, perché so che in Cina ce n'è un altro. Io ho detto tutta la verità.
    — È forse stato anche a Pechino?
    — Non mi sembra !
    — E chi sarà mai quel Tiberi che è stato a Pechino dal '47 al '51? Un tuo sosia, naturalmente. Sei buffo come un commediante e volpino! Ma dimmi: a chi hai mandato la fotografia di quel bambino morto?
    — A mamma!
    — Che forse tua madre è una spia? Vattene, delinquente !
    Wang aveva seguito il nostro colloquio ed era triste e preoccupato. Dopo pochi minuti il giudice mi richiamò:
    — Sai tu che cosa vuol dire spia?
    — Sì!
    — Tu sei stato una spia qui in Cina !
    — No!
    — Vuoi negarmi anche l'evidenza ? Non è più vero ciò che hai detto negli interrogatori precedenti e nella confessione scritta? Ti sei ribellato al movimento della triplice indipendenza. Hai ordito un complotto segreto immischiandovi pure il tuo Vicario Generale. Hai tentalo di staccare il popolo dal Governo. Hai inviato informazioni segrete agli imperialisti nemici della democrazia e della pace. Hai diffuso opuscoli reazionari. Hai propagato scherni e calunnie contro il Governo. Hai diretto l'organizzazione reazionaria della Legione di Maria. È vero o non è vero tutto questo?
    — La Legione di Maria non è reazionaria !
    — Giù la maschera, canaglia sempliciotta! Io stesso ti mostrai il giornale dove si denunciavano al popolo le macchinazioni dei legionari di T'ien-Tsin che già affilavano le armi per uccidere il capo dei cristiani progressisti. È ciò che facevano nelle loro riunioni di mezzanotte!
    — Se ciò è la verità firmo con le mani e con i piedi la mia disapprovazione. Ma non lo credo. Comunque, nel regolamento della Legione non c'è un iota di reazionarismo. Qui a Pechino non ci fu mai nulla; e mai niente nei miei Presidi.
    — E le vostre riunioni plenarie di Niu P'ae Tse ? Non ricordi più, o mio bell'angioletto immacolato, l'opposizione al movimento della triplice indipendenza e tutta la losca campagna di opuscoli sovversivi diffusi per mezzo dei legionari? Di', ricordi? La C.C.B. di Shanghai vi servì da magazzino generale.
    — I miei Presidi li ebbero questi libri, ma non ci fu mai l'occasione di diffonderli; li ho diffuso io personalmente e senza l'aiuto di mezzo legionario.
    — E sia ! Anche così, a quale oca darai a bere che i tuoi Presidi non abbiano svolto nessuna opera reazionaria contro il Governo? Piantala! Voi europei non siete poi tanto stupidi.
    Quando uno ha dato il suo nome ad una società di ladri, anche se per accidens non abbia avuto mai il collaudo di un grimaldello, quello è già un ladro. Capisci questo esempio?
    — Non so!
    — Ma chi ti ha insegnato la logica, il tuo Papa? Tutti così, voialtri. Pretendete di usare due logiche e finite con nessuna.
    Poi cominciò ad indottrinarmi intorno al sistema di spionaggio, con le distinzioni nominali e reali di spia politica, militare, intellettiva, economica, ecc. Dovetti sorbirmelo per quasi due ore; e concluse:
    — Guarda quanto è generoso il Governo verso di te. Altro che il Prodigo del vostro Vangelo! Tutto quello che hai scritto precedentemente non viene più considerato! Per le 8 di domani mattina scriverai la tua confessione in quella forma e nell'ordine che ti ho suggerito adesso, ma ne scriverai quattro copie: una in italiano, una in latino, una in francese e l'altra in inglese. —
    Auffa! Ciò che antecedentemente avevo scritto solo in italiano in una settimana, ora avrei dovuto scriverlo in quattro lingue e in una sola nottata. Ma neppure con una penna elettrica!
    — Guardi: Pio XII parla tutte le lingue, ma io no. La mia penna è tutt'altro che pentecostale! So scrivere con l'alfabeto della mia mamma; m'arrabatto con il latino; ma per il francese e per l'inglese non ci cavo le gambe. Non mi pigli per un poliglotta; sono quel che sono.
    — E allora, ne scriverai solo due copie: una in italiano e l'altra in latino.
    Cominciai i miei compiti alle 10 e un quarto. Scrissi sedici fogli a mano. Alle 8 questa volta a cronometro! — la guardia me li portò via. Alle 13 tornò il giudice con i miei sedici fogli e con la sua traduzione.
    — Prendi questi tuoi fogli e leggili in cinese.
    Egli controllava la sua traduzione ufficiale.
    Dopo di che mi ripigliò sgarbatamente gli originali e li intascò.
    — Sei proprio convinto di ciò che hai scritto qui?
    — Sì!
    — Allora preparati alla fucilazione!...
    Si avviò verso la porta continuando a sbirciarmi fino all'ultimo! Più tardi, nella stessa sera, tornò con una giovane, per formulare, a secco, il questionario del mio processo.
    Questa volta forse, nei suoi calcoli, apparivo maturo!...
    Le accuse erano le seguenti:
    1. — Aver mandato 19 informazioni segrete all'imperialista Riberi! (Si trattava di una diecina di articoli tradotti dai giornali ed un'altra diecina di notizie intorno all'andamento della Chiesa di Pechino).
    2. — Aver mandato 17 informazioni segrete al P. Tarcisio Benvegnù! (Anche qui si trattava degli stessi articoli dei giornali, più la notizia della fucilazione di Riva, della vendita dell'Ospedale francese e di altre notizie sulla triplice indipendenza!).
    3. — Aver sparlato dei comunisti fin dal mio primo ingresso in Cina!
    4. — Aver create e diffuse delle dicerie contro il Bolscevismo.
    5. — Aver impedito ai cristiani di partecipare al movimento della triplice indipendenza, di iscriversi alla Corporazione del Lavoro e di firmare l'espulsione di Riberi!
    6. — Aver tentato di rovinare la nuova chiesa minacciando il Vicario Generale di Pechino.
    7. — Aver osato, in questo tentativo, di ordire un complotto segreto di imperialisti stranieri!
    8. — Aver minato la sicurezza finanziaria dello Stato prelevando, nell'estate del '49, dalla Procura francescana di T'ien-Tsin 100 dollari americani, per venderli a mercato nero!
    9. — Aver diffuso opuscoli reazionari contro il Governo !
    10. — Aver istituito tre Presidi dell'organizzazione reazionaria della Legione di Maria!
    Dopo la stesura di questo processo in cinese, il giudice me lo fece leggere e firmare. In più — come timbro — volle una mia postilla in italiano. Me ne imbeccò i termini, così: «Le domande e risposte (Wen Ta) di questo processo sono state pronunciate da me in lingua cinese!».

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    La sera dopo tornò con il carteggio in bella copia. Dovevo firmarlo. Quante firme! E mi disse:
    — Qual'è il senso letterale delle due righe che hai scritto in fondo al foglio del processo?
    — Ho cercato di tradurre le sue parole!
    — Che forse tu hai pronunciato anche le mie domande?
    — Ma lei mi parlò di Wen Ta ed io scrissi Wen Ta che significa: domanda e risposta!
    — Sei un autentico filibustiere. Per tua colpa ho dovuto riscrivere tutto: firma qui!
    Chiesi il permesso di rileggere il testo! O quam mutatus ab ilio!
    Fin dalle prime righe c'era scritto: «Nel mese di gennaio spedii al P. Benvegnù la relazione di Chou En Lai sulla triplice indipendenza».
    Notai che tanto la mia lingua nella confessione orale quanto la mia penna nella confessione scritta dicevano «ai primi di marzo» e non «nel mese di gennaio».
    Colto in castagna, sciacquò la bocca «che mai non mente», tese l'arco dell'intelligenza ed aprì una breccia per la sua scappatoia. Ma restò bloccato, annaspando sul cristallo unto di una giustificazione più ridicola che maligna:
    — Sì, è vero, verissimo! ì giornali pubblicarono la cosa il 31 gennaio. Ma lasciando la data a marzo, la tua relazione non sarebbe più un'informazione, ma semplicemente notizia. Perciò ho creduto opportuno...
    L'istinto mi forzava a gridargli: bestia! ma un po’ la fifa e un po’ la diplomazia misero ghiaccio nella mia gola. E tirai dritto nella mia protesta:
    — Anche la totalità dei ragguagli che spedii a Mons. Riberi ed al P. Benvegnù li attingevo dai giornali.
    Andò in bestia, anche senza il mio... grido.
    Più sotto, nel questionario, le manipolazioni s'intrecciavano con invenzioni di sana pianta.
    C'era scritto, per esempio, che Mons. Riberi mi aveva comandato di mandargli informazioni segrete, quando io chiarissimamente e insistentemente avevo detto e scritto:
    «Fui io il primo ad informare Mons. Riberi senza la sua benché minima richiesta».
    Protestare? Sarebbe stato inutile e pericoloso. Tacere !
    Mi fece mutare la postilla della prima edizione, ma questa volta sotto dettato, così: «Io testifico che le risposte di questo questionario sono state pronunciate tutte da me in lingua cinese, e che ne ho compreso tutto il senso!».
    Per congedo, una minaccia.
    L'indomani sera tornò alla carica e voleva sapere «ad ogni costo» la sigla e il numero del mio spionaggio.
    Insomma, ricominciamo la commedia?... Con molta calma giurai di non aver avuto mai nessun numero.
    Egli mi ventilò un secondo tempo della «camera oscura» dove il passato non sarebbe stato che un antipasto.
    — Confessa subito: l'automobile è già pronta alla porta! Decidi per il tuo meglio!
    E si alzò di scatto.
    — Non ho più nulla da decidere.
    Allora chiamò la guardia minaccioso come Giove tonante.
    — Ti farò appendere sui travi, finche non vomiti i tuoi rospi!
    Mi adirai più di un pochino, sfidando la prepotenza e la morte sui travi.
    — Ricordati bene di ciò che hai detto adesso ! e partì.
    Fino al 29 aprile tornò quotidianamente, ma sempre per pochi minuti: una era la sua domanda: confessi?... Una la mia risposta: il silenzio. Non parlavo più neppure con Wang nè con le guardie.
    Al più dicevo:
    — Non capisco più niente e non mi voglio interessare più di nulla! Si faccia di me quello che si vuole !