Preti nella tormenta

  È passata la guerra per le nostre rigogliose contrade, le ha percorse a palmo a palmo e, come una valanga inesorabile, ha schiantato le case, ha abbattuto le piante, ha sconvolto le campagne, ha mietuto vittime, ovunque. Le nostre regioni, fra le più fertili d'Italia, sono state orrendamente sfigurate e mutilate, specie ove per lunghi mesi è stato inchiodato il fronte.
  A poco a poco risorge la vita, si rivestono di tetti i muri scheletriti, si ricoprono e livellano i crateri delle bombe, si riammantano del verde rigoglioso della vegetazione i terreni sconvolti dalle mine e dai proiettili. Gli uomini, i superstiti, tenacemente rimorchiati alla vita, rialzano il capo, stringono fra le dita nodose gli arnesi del lavoro, si accingono all'improba fatica della ricostruzione, che deve per sempre cancellare le vestigia di una guerra che ci ha riportati di colpo alle sanguinose devastazioni barbariche del basso medio evo.
  Ma nei cuori permane tenace, e forse insanabile, una piaga aperta: la nostalgia della casa distrutta, il rimpianto della famiglia sconvolta e spesso defalcata di qualche membro, l'amarezza di un ideale di felicità e di benessere crollato, l'acre sapore di una vendetta, di una rivincita contro il destino avverso, che si esterna in uno scontento insaziato, in una lotta di classe che spesso porta anche al delitto cieco e perciò più mostruoso. È la tormenta che, dopo aver travolto le bellezze, le comodità, le raffinatezze della nostra civiltà moderna, si ritorce oggi sugli spiriti e li trascina nel turbine di passioni violente che, scatenate dall'odio e dalla vendetta, trascinano ferocemente fino alle aberrazioni dei delitti di parte o di classe.
  Chi, in tanta bufera di rovine, di lotte e di passioni, ha sempre, con calma e fermezza, portato un raggio di luce, un soffio di pace, una parola di conforto, una mano dal tocco sanatore di ferite fisiche e ancor più spirituali, è stato ovunque il sacerdote, che mai si è eclissato dalla lotta o dal campo di battaglia, ove sapeva di poter compiere opera di bene.
  Noi rivendichiamo in queste pagine l'onore del clero, specie del nostro clero bolognese, che in massa ha sfidato la calunnia, il disprezzo, la spogliazione dei propri beni, la prigione e anche ripetutamente la morte. Vogliamo rendere omaggio all'alto spirito di dedizione, al virile coraggio, al santo eroismo dei nostri preti.
  Se ci ferisce al cuore il grido contro il prete, esso però non ci stupisce: Gesù Cristo l'aveva predetto: «Come hanno perseguitato me, cosi perseguiteranno anche voi».
  Fu il clero messo alla gogna dai repubblichini e sulla nefasta «Crociata Italica» fu insultato e giudicato vigliacco perchè in massa aveva preso posizione contro la repubblica di Salò e i tedeschi invasori. Dopo la liberazione lo stesso clero veniva ancora insultato dai partiti estremisti ed accusato di cooperazione coi nazifascisti; e in una campagna sorda di odio accanito quanto subdolo, si scatenava contro di loro la calunnia più sfacciata che, oltre a costringere alcuni ad abbandonare la propria parrocchia, trascinava altri fin alla tomba. È lo stesso sacerdote, oggi accusato di tradimento, oggi tacciato di sfruttatore o nemico del popolo, che intrepido ha sfidato i pericoli della guerra in mezzo al suo gregge, sia quando le case crollavano fra i boati dei bombardamenti, sia quando i proiettili sibilando grandinavano paurosamente all'intorno sui fronti di battaglia, sia quando le truppe teutoniche violavano i sacri edifìci e le tranquille case parrocchiali, divenute spesso rifugio e asilo sicuro dei partigiani, sia quando, sfidando la morte, davano rifugio ai comandanti della lotta clandestina nelle loro case.
  Ecco perchè alziamo la voce, lanciamo il nostro grido: Non vogliamo che il popolo dimentichi ciò che ha fatto il clero in questa guerra nelle nostre zone: le più travagliate.

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  II clero non ha abbandonato le sue chiese, e la bufera l'ha sorpreso fermo al suo posto di combattimento, qualunque fosse la furia con cui si scatenava. Quante volte i tedeschi si installarono da padroni nei nostri paesi, specie quelli montani più vicini al fronte. Bussarono alla porta del municipio e trovarono il deserto: il Podestà, il Segretario Comunale, il maestro se ne erano andati; bussarono alla casa parrocchiale e una veste nera si affacciò sempre sulla soglia: il sacerdote non aveva abbandonato il suo gregge.
  Sotto il grandinare dei proiettili, tra lo scoppio delle bombe, nell'incubo dei rastrellamenti, i cittadini hanno sempre visto in mezzo a loro, a dividere con loro il pericolo, a confortarli nelle dure prove, a difenderli dalle minaccie, il sacerdote che non si è mai deciso a lasciare il suo gregge, se non costretto dalla brutale violenza tedesca, o quando tutti i suoi parrocchiani avevano già sfollato la zona dietro ordine dell'autorità militare.
  «Nessun prete del mio Vicariato è fuggito dal campo di guerra — poteva affermare con orgoglio il Vicario Foraneo di Marzabotto. — Le S.S. li hanno trovati tutti al loro posto e, quando li hanno rastrellati o cacciati, anche nell'esilio si sono prodigati per i loro fedeli».
  E la zona di Marzabotto fu la più pericolosa, perchè la più braccata dalle S.S. in caccia dei partigiani.
  In un certo periodo, dalla città di Bologna, i cittadini raggiunsero in massa la campagna e i monti per sfuggire agli spietati bombardamenti; ma i sacerdoti, anche i più anziani, rimasero fra le macerie delle loro parrocchie, spesso anche fra i detriti della propria casa e della chiesa, per non privare i tribolati figli del conforto della loro presenza e della loro parola paterna. E questo a sfida contro la morte. I nostri preti meritano l'elogio che meritano i soldati fermi al loro posto di combattimento, quando la morte più da vicino li insidia.

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  Quando il risentimento tedesco, dopo il nostro abbandono della lotta l'8 settembre 1943. si fece più accanito per la nostra resistenza, il sacerdote fu il paladino che si eresse a difesa degli oppressi e dei perseguitati; il sacerdote solo seppe sfidarli, affrontarli a testa alta, sprezzante delle loro minaccie. E più di una volta gli orgogliosi e ultrapotenti teutoni hanno dovuto inchinarsi e rendere omaggio all'audacia, all'eroismo del sacerdote.
  Quando i partigiani, costretti a vivere alla macchia hanno voluto trovare un collegamento con la vita civile, una sede ove potersi raccogliere a studiare i loro piani, una persona fidata che comprendesse le loro necessità e che li difendesse anche dalle insidie delle S.S. perfidamente astute, una fonte sicura di rifornimenti di viveri senza ricorrere alla violenza, si sono rivolti ai sacerdoti. Quante case parrocchiali, quanti conventi sono diventati in quel tempo il centro della lotta clandestina! E nessun sacerdote, lo possiamo testimoniare, ha mai tradito la fiducia posta in lui. Un giorno forse sarà sommamente utile rifare la storia particolareggiata del movimento partigiano della nostra regione, e allora si vedrà risplendere nella sua vivissima luce l'opera imponente svolta dal clero secolare e regolare in appoggio alla lotta partigiana.
  E come dimenticare l'organizzazione segreta dei partiti in tale periodo? La stampa clandestina di propaganda non usciva spesso dai conventi? I diversi Comitati e Sottocomitati di Liberazione non hanno trovato l'appoggio più sicuro nelle case dei preti? Lo stesso Dozza, il Sindaco di Bologna, potrebbe dire una parola al riguardo.
  Quando i nostri giovani gettarono le armi l'8 settembre 1943 e non vollero più riprenderle, sfidando le minaccie draconiane delle autorità; quando le nuove reclute disertarono quasi totalmente alla chiamata di leva, dove cercarono queste masse di renitenti un rifugio che li garantisse dalle ricerche delle Brigate Nere? Nel sacerdote. Fu allora che le canoniche e i conventi si popolarono di giovani, che al minimo allarme avevano già il loro rifugio stabilito o fra i muri delle cantine o fra i travi delle soffitte, o più spesso fra le volte e le capriate delle chiese e sotto le guglie dei campanili. Avevano trovato dei cuori che li avevano compresi, riserbando per loro il cibo e la segretezza necessaria.
  Quando poi disgraziatamente partigiani, renitenti e civili caddero sotto le grinfie degli aguzzini nei barbari rastrellamenti, e si incolonnarono avviliti sotto la scorta ostile o verso l'estremo olocausto, o verso l'ignominiosa deportazione ai lavori forzati della Germania o alle fortificazioni e alle barbare demolizioni della Todt, spesso videro fra di loro anche la veste del prete o la tonaca del frate, compagni di sventura e pur sempre padri trepidi della sorte dei loro figli, che spesso si offersero di pagare per loro. Quante volte giunse il sacerdote in tempo a fermare la mano omicida, a impedire una partenza che sembrava inevitabile, a ridare ad una famiglia il padre che era già disperatamente pianto come perduto!
  Si è visto allora spesso, e non solo nel caso di d. Fornasini già da noi citato, ma anche per altri sacerdoti che vivono tuttora in mezzo a noi, si è visto, dicevamo, il sacerdote avanzarsi intrepido e offrirsi per le sue pecorelle:
  — Uccidete me! ma salvate questi infelici! —
  Era la parola della sua offerta eroica: la vita data generosamente in cambio della vita altrui. Furono eroismi che spesso commossero anche le belve naziste ed ottennero mitigazioni non piccole alle pene già comminate.
  Ecco che cos'è la vita per il sacerdote! È anch'essa una moneta che si può e si deve spendere volentieri per il bene del prossimo.
  Quando poi la furia dei bombardamenti si abbatteva più feroce sulle città e sui paesi, nelle zone colpite, fra il denso fumo degli scoppi e il polverone delle macerie sconvolte, fra i primi ad accorrere a cura dei feriti, a conforto dei morenti, a soccorso dei pericolanti, era il sacerdote. Il sacerdote, che si piegava sui morenti per gli estremi conforti, col vasetto dell'Olio Santo nascosto sul petto sotto la veste, non disdegnava di impugnare il piccone e di imbiancare di polvere il suo abito nero, quando si trattava di rispondere a voci soffocate che, da una cantina o da un rifugio semicrollato, invocavano aiuto con voce disperata. Li abbiamo visti anche noi questi sacerdoti all'opera, affannati come si trattasse di disseppellire la propria madre, e ci siamo commossi fino alle lacrime.
  Erano gli stessi preti che poco prima nel rifugio, con la corona in mano, avevano intonato il rosario, sereni e tranquilli, spesso fra i sarcasmi e il riso sprezzante di qualche bello spirito progressista, lo stesso prete che sapeva cambiare il rosario col rozzo manico di badile, quando ciò era richiesto dall'utilità del suo popolo.
  Dovremmo inginocchiarci ammirati davanti alla grandezza della carità sacerdotale!

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  Ancor più ammirevole la posizione decisa presa dal clero nella lotta contro la violenza e gli abusi della forza.
  Il nostro venerato Card. Arcivescovo, che mai si era dato pace da quando si profilò all'orizzonte questa malaugurata guerra, ebbe dapprima a subire, assieme al suo clero, gli attacchi dei fascisti che non volevano sentire parole di amore e di pace. Ma, mentre dalle cattedre fasciste, dalla stampa servilmente assoldata, dalla propaganda intensiva attraverso la radio, si saturava il popolo di odio contro gli alleati, si elettrizzava alla lotta, calunniando il nemico e falsando la nostra situazione interna, coraggiosamente si era levata la parola del nostro Arcivescovo che bandiva l'odio dal cuore degli uomini, che presentava la guerra come la terribile calamità da cui dovevamo pregare il Cielo di astenerci, e invitava ripetutamente a pregare per il bel dono della pace. I sacerdoti in tal senso predicarono nelle chiese, esortarono nei confessionali, convinsero nelle conversazioni. Si iniziarono allora quelle serie di denuncie che portarono parecchi preti al carcere o al confino. Uno fra tanti: il Parroco della chiesa del S. Cuore, in Bologna.
  Chinarono il capo alla prepotenza, ma pur sotto le minaccie e le calunnie, continuarono la loro opera di persuasione, e. sfidando le brutalità teutoniche e fasciste, alzarono intrepidi la voce contro ogni specie di odio e di violenza, contro la forza tramutata in diritto. E quando dopo l'8 settembre 1943 si inneggiò alla caduta del fascismo, si videro i sacerdoti colpiti dai violenti attacchi della famigerata «Crociata Italica» che da Cremona, sotto le ispirazioni sataniche di Farinacci, scagliò tanto veleno contro di loro. La infausta propaganda di quel foglio, contro cui si scagliarono intrepidi i Vescovi dell'Alta Italia, ha lasciato nelle nostre zone tanti strascichi di odio velenoso contro il clero, che solo il tempo riuscirà a cancellare.
  Fu nel settembre del 1944, con una punta massima alla fine dell'ottobre, che, sotto la minaccia del fronte di guerra arrestatosi sulle alture di Livergnano, scacciati dalle loro case con ordine di sgomberare entro 24 ore, spogli di quasi tutto, con il puro necessario per non morir di lame, migliaia e migliaia di profughi si riversarono in città, confidando di trovarvi un asilo ove ripararsi dai rigori invernali e un pane da sfamarsi.
  Dì fronte a sì barbare prepotenze, rifulsero in pieno la carità e lo zelo del nostro Arcivescovo e del nostro clero, spesso profugo con il proprio gregge.
  Il Cardinal Arcivescovo, che già prima si era interessato per ottenere che Bologna fosse riconosciuta «città libera», seppe ottenere che le truppe tedesche sgomberassero la città fino alla cinta delle vecchie mura, e, in drammatici colloqui durati lunghe ore con le autorità cittadine, aveva perorato la causa della carità cristiana per una distensione dell'atmosfera tesa della città, ove si vivevano ore di angoscia fra il dubbio dei bombardamenti, nella preoccupazione di minacciati rastrellamenti, col terrore di possibili rappresaglie, sotto l'incubo della fame che si profilava spettrale per migliaia di persone.
  Allora S. Em.za poteva scrivere a Sua Santità, in occasione del Natale 1944:
  «Sono in mezzo ad una popolazione immensa di profughi da ogni parte, perchè la guerra incalza all'intorno e confida che giusta gli affidamenti, che Vostra Santità conosce e per i quali tanto si è adoperato e ancora vorrà adoperarsi, sia risparmiata da ulteriori rovine. Anzi a questo proposito ho già fatto pervenire a Mons. Nunzio in Svizzera una lettera del Feldmaresciallo Kesserling al sig. Podestà, alla quale ho voluto far seguito, come vedrà, con una mia; e nuovamente supplico Vostra Santità che voglia nuovamente interporre la sua valida intercessione perchè entrambi i belligeranti ci risparmino da nuovi lutti e da nuove devastazioni. Non so pensare al fatto che qui si faccia un campo di battaglia».
  Si sente battere in queste parole un cuore che trepida e si industria per la sorte dei suoi figli. Oltre al riconoscimento dello «Sperzone» ottenne che la città fosse risparmiata da altri bombardamenti, ottenne, spesso con azione diretta e personale, che fossero sospesi i rastrellamenti in città, ottenne anche che si attenuasse la crudeltà delle rappresaglie. Si rilegga al proposito la lettera sua al Feldmaresciallo Kesserling, che abbiamo riportato parlando di d. Mezzetti, e si resterà ammirati dell'opera indefessa di pacificazione e di bene svolta dal nostro venerato Pastore.

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  Ancor più evidente l'opera del clero per l'assistenza ai profughi e ai sinistrati.
  Quarantanove incursioni aeree sulla città e sulla periferia, molte di esse massicce e rovinose, avevano moltiplicato il numero dei sinistrati, senza tetto, senza mobili, senza masserizie.
  A questi si aggiunsero le migliaia di profughi che si riversarono in città specie dalle alture del fronte: la città fu satura tanto da raggiungere e sorpassare, in tale periodo, il mezzo milione. L'assistenza era un problema grave che si imponeva impellente. Il Card. Arcivescovo, coi sacerdoti della città, a cui si erano aggiunti le parecchie decine che avevano seguito le sorti del loro gregge emigrante, si dedicarono con tutte le forze a risolverlo.
  Sua Eminenza aprì immediatamente le porte del seminario ai profughi; il Comune di Bologna, dietro pressione dell'Autorità religiosa, mise a disposizione scuole e caserme, costituendo ben 24 centri-profughi, che vennero successivamente riforniti dell'indispensabile, sì da poter abbastanza agevolmente trascorrere il terribile inverno 1944-45.
  Il Card. Arcivescovo, sempre sollecito, nominò per ogni centro un Cappellano assistente, che s'affiancò immediatamente al Direttore, di nomina comunale, onde recare in quegli assembramenti di sofferenze e di dolore un cuore vibrante di cristiana e umana solidarietà, nonchè un proficuo aiuto materiale. Pagine bellissime di abnegazione e di sacrificio furono scritte dai Cappellani dei centri. Vennero improvvisate Cappelle interne, fu largamente imbandita la parola di Dio, specie con l'insegnamento del catechismo e con proficui corsi di predicazione alla vigilia delle grandi Solennità. Vennero pure distribuiti viveri e indumenti in larga misura.
  Il Comando tedesco aveva concentrato i rastrellati nelle cosidette «Caserme Rosse» per ivi esaminare la loro possibilità di essere inviati in Germania. Un Cappellano dell'O. N.A.R.M.O., nonostante i pericoli e la rinnovata minaccia di fucilazione, si recò ogni giorno alle caserme per ivi raccogliere di sotterfugio la corrispondenza dei rastrellati e quindi spedirla, con audaci acrobazie, ai parenti privi di notizie. Nelle lunghe soste fra quei poveretti, distribuì indumenti e articoli di cancelleria in gran copia, assistito e coadiuvato da un ottimo gruppo di crocerossine. Ovunque riuscì a penetrare il Cappellano dei rastrellati, fino a raggiungere le linee del fronte, ed ivi celebrare la S. Messa tra la severa cornice di guerra.
  Nel Natale del 1944, per interessamento di S. Em.za il Card. Arcivescovo e dell'Autorità civile, si riuscì a confezionare oltre 2000 pacchi destinati agli operai rastrellati dislocati al fronte, ai quali venne pure elargito un cappotto ed un paio di scarpe, per un valore complessivo di 2.000.000 di lire.
  A Pasqua la grande carità dell'Arcivescovo fece pervenire a tutte le famiglie dei rastrellati residenti in città un pacco di cibarie, consegnato dallo stesso Eminentissimo il Sabato Santo.
  Risalgono a parecchi milioni le molteplici elargizioni verso questi infelici provati dalla sventura.
  È doveroso ricordare, a questo punto, la impressionante processione di guerra che ogni giorno saliva e scendeva dallo scalone dell'episcopio. Erano lunghe teorie di poveri, doloranti, stanchi, oppressi, che si recavano a raccogliere la «Carità dell'Arcivescovo». Non abbiamo mai saputo, perchè resta chiuso nel suo cuore, quanto danaro sia uscito dalle mani del Cardinale a sollievo di mille miserie. I molti volti sorridenti e rifatti, all'uscita dell'episcopio ci palesarono spesso l'ignota carità dell'Angelo della Diocesi.
  Ecco in breve quanto ha saputo fare il clero bolognese, sotto l'impulso del Superiore, in questo ultimo scorcio della guerra.
  Molti, anche fra i beneficati, fingono di aver dimenticato quanto il clero ha fatto, offerto e sofferto per il popolo, ma non potranno cancellare l'eloquenza delle cifre che abbiamo sott'occhio.
  Potranno i soliti anticlericali sinistroidi blaterare contro il prete, e montare anche contro di lui il popolo troppo spesso ingenuo, ma non potranno cambiare la realtà dei fatti, che li difendono.

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  Nei sacerdoti immolati noi vediamo suggellato nel sangue l'onore del nostro clero che vogliano o no i loro nemici, godono ancora l'intima stima dei fedeli. Desideriamo, offrendo al popolo queste pagine, innalzare, nel suo cuore non ancora corrotto, un monumento di rispetto e di venerazione al sacerdote, per poterlo poi guidare più degno a dare il suo omaggio al monumento inciso nel marmo che si eleverà a loro memoria per iniziativa dei parroci urbani.
  Desideriamo che si sappia che anche i sacerdoti viventi hanno lavorato e lavorano indefessamente per la pace e per il bene di tutti; che essi desiderano poter svolgere nella tranquillità il loro prezioso apostolato, nella cosciente comprensione dei fedeli. Ma che comunque, quando fosse necessario, anch'essi sono disposti a sacrificare la vita per il bene di tutti.
  «II morire, se Dio ci sorregge il cuore, non ci fa paura — scriveva Primo Mazzolati. — Sappiamo benissimo che in questa strana aria di libertà, difficilmente può essere sopportata la parola del libero Sacerdote, che è all'opposizione per il fatto che la norma dei suoi giudizi e dei suoi portamenti, essendo superiore alle mire del momento agli stretti interessi del partito, avverte ciò che vi è di rispettabile nella debolezza, di caduco nella forza, di scusabile nel male, di manchevole nel bene... Il morire non gli fa paura. Egli è in alto quando rimprovera senza acrimonia, quando si fa avanti senza orgoglio, quando ripete arditamente la parola dell'Eterna Verità: è più in alto quando cade sotto una raffica di mitra, rendendo testimonianza alla verità».
  Solo questo egli chiede perchè ne ha diritto: che non venga offesa la sua dignità, che non si calpesti il risultato della sua opera, il frutto dei suoi sudori. «Per morire in pace egli non ha bisogno di un titolo: basta non venga offesa e insultata la sua purissima offerta».
  Si cessi dunque di calunniare il nostro clero!
  Si rintraccino inesorabilmente i fautori, gli istigatori, gli esecutori di tanti sacrileghi delitti.
  «Non è questo popolo buono e affettuoso che assassina e massacra la gente — asserisce energicamente Mons. Socche nella sua vibrante dichiarazione per la morte di d. Pessina — ma è solo un piccolo branco di malviventi, i quali hanno già perduto anche l'ultimo brandello della coscienza, insudiciati di sangue umano fino ai capelli ed accecati dall'odio e dall'interesse, che li hanno fatti diventare belve assetate di sangue».
  Il «Quotidiano» commentava l'8 agosto queste parole di Mons. Socche:
  «La parola del Vescovo di Reggio Emilia mette in luce come, in una regione d'Italia, l'imperio della legge non esiste, e come interferenze di «bravi» locali creino una atmosfera di terrore, inconciliabile con tutti i postulati della democrazia. E quelli che sanno non possono parlare, perchè minacciati di morte violenta. Gli italiani hanno diritto alla protezione della legge, e gli organi responsabili hanno il dovere di assicurarla, perchè questo è il loro preciso mandato».
  Anche il Presidente del Consiglio ci incoraggia ad alzare ancor più fiduciosa la nostra voce, affermando (discorso programmatico alla Camera il 25 luglio):
  «Ci sono stati recentemente anche in Italia molti episodi di assassinio di sacerdoti per i quali non è stato possibile accertare alcun movente, all'infuori di quello anti-religioso; nè è stato possibile mettere le mani sui colpevoli per quell'«omertà» che si manifesta in certe regioni, sì da nascondere ogni traccia e da impedire ogni testimonianza. E questo sistema deve scomparire dalla vita del popolo italiano».
  Giustizia dunque per i nostri sacerdoti!
  Chiediamo che chi sa possa parlare e parli.
  Chiediamo che chi può muovere gli ingranaggi arrugginiti della giustizia li muova sollecitamente.
  Chiediamo che i nostri sacerdoti, dai quali è partita e continua a partire ogni iniziativa di bene, i quali tutto danno per il bene di tutti, siano liberi di esercitare il loro ministero con slancio e passione, senza essere turbati dalle intimidazioni di facinorosi che cercano di svisarne l'opera o di impedirla sotto lo spettro della morte.


  AVVERTENZA — I compilatori delle presenti pagine, hanno desunte le notizie ivi contenute da documenti che sono attualmente depositati presso l'A.B.E.S. Consci però di non aver potuto compiere opera scevra da errori o, per lo meno, da inesattezze, chiedono ai benevoli lettori, che fossero stati testimoni dei fatti o fossero in possesso di documenti riguardanti la materia trattata, di voler spedire le loro osservazioni e le documentazioni agli autori, presso l'A.B.E.S., via S. Marnalo 2-II.
  Di esse sarà tenuto conto in una eventuale ristampa dell'opera.
  Finito di stampare il giorno 24 Ottobre 1946 - Festa di S. Raffaele Arcangelo coi tipi della Grafica S.A.F.O. - Bologna