19 luglio 1946: fine di un incubo

   Il treno parte, ma non è la solita tradotta fatta di carri merci adibiti al bestiame; due vetture, due vagoni per il trasporto delle persone sono riservati a noi. Forse stiamo sognando ma finché il sogno dura viviamolo perché è tanto bello! Si corre veloci, si attraversano paesaggi e luoghi verdi, puliti, bellissimi e in lontananza si vedono svettare nell’alto di un cielo azzurro e limpido alte montagne con le cime imbiancate.

   Sono le Alpi, non ci sono dubbi di sorta. Siamo a Semering, zona di confine tra russi e inglesi; nuova visita di controllo e appello nominativo; scambio di documenti tra inglesi e soldati dell’Armata Rossa poi di nuovo via verso la libertà. Poi ecco il confine e al di là l’Italia, la nostra terra, la cara Patria invocata per anni, la vita, le nostre famiglie, tutto. Stazione di Villac; addio Austria. Ore tredici del 19 luglio dell’anno 1946: Tarvisio, come sta scritto su uno sbiadito ma ancora leggibile cartello e in lingua italiana. l’incubo è finito, scomparsi il terrore e il dolore, tutto.

   Nelle stazioni intermedie nessuno aspettava l’arrivo dei cinquanta ufficiali trattenuti a Sighet e a Vienna, nessuno. L’indifferenza totale ci accolse, la Patria era assente, non presente l’Italia, nascosta la Madre comune, senza sentimenti o curiosità i cosiddetti fratelli. Qualche sguardo fugace e distratto dei pochi viaggiatori presenti ci seguì per un attimo; alcune alzate di spalle di altri indaffarati che con quei gesti parlavano più chiaro che con le bocche, poi più niente di niente. Che schifo! Ancora una volta un evviva ai furbi, agli imboscati, alle mezze seghe e agli ammennicoli vari, evviva! Sembrava di vivere la brutta copia della lontana partenza per il fronte. Allora folla vociante, genitori in lacrime e fieri, fanciulle commosse o festanti, baci ed abbracci, la fanfara dei Bersaglieri, tante bandiere tricolori dappertutto, anche lungo i binari, poi via in Russia per servire l’Italia, perché così ordinava la nostra Patria. E che Patria, al ritorno, la Patria! Nonostante questi tristi pensieri e il resto, ci sentivamo estremamente felici e commossi.

   La sosta su un desolato binario morto di una piccola stazioncina si protrasse a lungo. Poi, come d’incanto, forse spinti da un richiamo istintivo, si avvicinarono alle vetture gruppetti di persone che in poco tempo divennero molte, tante, una folla. Triste, mesta, con gli occhi arrossati dal pianto, col cuore in gola e l’ansia in volto, con le braccia tese verso i finestrini dei due vagoni e nelle mani sbiadite fotografie, quella povera gente si accalcava a noi dintorno chiedendo, richiedendo, supplicando una risposta:

   “L’avete visto? Sapete dirmi se è ancora vivo? Chi l’ha visto morire? Apparteneva al XVIII Battaglione Bersaglieri mio marito; mio fratello era nella Divisione Cosseria; mio figlio stava col Reggimento Artiglieria della Celere; mio marito era con gli Alpini, non li ricordate? Rispondete, diteci qualcosa, dateci qualche notizia, per carità di Dio!”

   Erano tutti padri, madri, mogli, figli, fratelli, parenti, congiunti di soldati dispersi in Russia e dei quali, dopo ben cinque anni, nessuno aveva saputo più niente e da nessuno avevano ricevuto notizie in merito. Dispersi, si diceva in giro, nient’altro. Che tristezza, che pena durante quella sosta! L’Italia, la Patria, i vincitori, i vinti e quella stramaledetta guerra e la tragedia immane di questa povera gente che era e sarà sempre, ad ogni ricorrente disgrazia, solo povera gente che pagherà per tutti e sarà dimenticata per sempre! Quella triste scena calò un profondo dolore e una commozione sincera nei nostri cuori; un commosso pensiero volò sulla steppa e raggiunse le migliaia di nostri fratelli che in fosse comuni dormivano il sonno dei morti, e soli, per sempre. La gioia immensa che ci pervadeva e ci inebriava per un minuto lasciò il posto al dolore, poi tutto sparì.

   Si riparte. Ecco Udine, poi Milano. Molti dei nostri amici, alpini in particolare, sono già scesi in stazioni intermedie, forse sono già a casa. È il 20 di luglio, forse san Salvatore, chissà! Siamo giunti a Milano che ci aveva visti partire ed ora tornare. Una specie di caserma accolse i celoviek rientrati: borghesi militari e militari in borghese, o quasi, andavano e venivano per quei cameroni che ci avevano ospitati. Gente indaffarata camminava in continuazione avanti e indietro, su e giù; parlavano molto lavorando poco, criticando e giudicando spesso, vociando sempre.

   Alle nostre timide domande rispondevano altezzosamente, con insofferenza e molta ignoranza, solo con altre domande:

   “Ma che volete voi? Perché siete andati in Russia? E come mai tornate adesso? Ma chi ve l’ha fatto fare? E che credete di averla fatta soltanto voi la guerra?”

   Mah!

   “Amici, ma noi chi siamo, cosa vogliamo, dove siamo capitati o sbarcati?”, si chiesero smarriti gli ex celoviek ora liberi e in Patria; “Probabilmente abbiamo sbagliato indirizzo o siamo realmente un po’ tutti ammattiti”.

   “Scusi, signore, potrebbe dirci quando possiamo partire per le nostre case?”, chiese come si usava un tempo lontano un reduce ad un Tizio che pareva contare qualcosa di più degli altri, in quel luogo dove tutti contavano.

   “Zitto tu, ora c’è il collettivo da riunire, poi abbiamo il lavoro di gruppo, poi... bè... ora aspetta e più tardi qualcuno ti dirà cosa fare”.

   “Sentito gente?”, disse agli amici il celoviek alpino; “Ora è tutto cambiato in Italia; anche i nomi sono mutati, infatti il colletto si chiama collettivo; non lavora più il singolo ma il gruppo, noi abbiamo fretta e gli altri no. O gente, ma noi siamo fuori dal tempo e dal mondo, altro che balle! Bisogna aggiornarsi e subito, adattarci e presto per sopravvivere”.

   Difatti un reduce bersagliere ed uno alpino, e senza preamboli, acchiapparono gentilmente per lo stomaco la prima parte del tutto, cioè il primo singolo del gruppo che passava per il corridoio, e gli dissero senza scuse, senza signore, senza niente:

   “Ascoltaci uomo, o fra mezz’ora qualcuno che conta di più fra tutti i cialtroni che passano e che fan conto di contare e non contano niente, ci risponde o diamo fuoco a tutto ciò che vediamo, niente escluso, pognimai, capito?”

   Il muro del corridoio che ci stava di fronte arrestò non morbidamente il calcio-spintone che il borghese si prese nel delicato sedere.

   Poco tempo dopo arriva fra noi un Caio del gruppo con carta, penna, una nera borsa ripiena e con cipiglio d’obbligo borbotta:

   “Eccovi i soldi, cinquantamila Lire ciascuno; vi serviranno per il vitto, o l’alloggio o il vestiario e per il viaggio di ritorno a casa; ognuno s’arrangi come meglio può. Firmate qui e arrivederci”.

   “Madonna quanti soldi, amici, mai visti tanti prima di ora! Siamo ricchi gente!”, esclamarono in coro gli inebetiti superstiti.

   Illusi e poi delusi. Frastornati, increduli, sorpresi e attoniti, non ancora abituati ai grandi mutamenti, ai profondi modi di agire e di pensare di un popolo, ai radicali cambiamenti di vita e di costumi di una società in rapida evoluzione, rivoluzione e trasformazione, i celoviek non si persero d’animo e di coraggio. Come in mille e mille altre situazioni, ben peggiori di queste, parlottarono un po’ fra loro, discussero anche e poi rapidamente e con la solita dura fermezza presero una decisione:

   “Via subito, davai bistrà; allontaniamoci da questo casotto al quale non siamo ancora abituati; a casa, di corsa e al più presto, anche a piedi se occorre, ma via di qui”.

   Tante lire per comprare qualcosa, anche poco, da mettere sotto i denti; circa tanto per il viaggio di ritorno a casa; niente per cambiare gli abiti perché se hanno resistito quasi cinque anni sicuramente reggeranno ancora per qualche giorno e il resto al celoviek alpino che, giunto al suo paese ubicato nei pressi del confine con l’Austria, provveda a farlo recapitare in qualche modo a quel piccolo angioletto di Vienna, alla cara fanciulla che per sempre chiameremo la Piccola Salvatrice viennese. - Probabilmente saremmo rientrati in Italia ugualmente, perché i nostri fratelli rientrati prima di noi fecero presente, e con forza, al governo, al Presidente della Repubblica, agli Alleati, al Vaticano la sorte di quei cinquanta ufficiali trattenuti a Sighet - pensarono tutti i celoviek; ma per il gruppo dei superstiti trattenuti, per coloro che vissero quella tragica appendice alla già pur tragica prigionia trascorsa per quasi cinque anni sotto la stramaledetta dittatura staliniana, quella dolce, cara fanciulla resterà per sempre la Piccola Salvatrice viennese.

   E un sentimento comune, immacolato, duraturo quanto la vita, immutabile dal tempo e dalle vicissitudini terrene o dal destino, invase cuore e mente dei cinquanta ufficiali di Sighet e di Vienna; gli abbracci e le strette di mano suggellarono un’amicizia nata dalle prove terribili di terrore e di odio sofferte in tanti anni di bestiale prigionia e poi, con un saluto militare e un forte abbraccio, ognuno s’incamminò, e per vie diverse, verso il proprio paese, la casa, la famiglia, la nuova vita che poneva fine al calvario percorso.

   - Speriamo di ritrovare in vita i nostri cari poiché nessuno di noi, e per tutto il tempo trascorso nei lager russi, ha mai ricevuto notizie dalle famiglie e loro da noi - pensarono nel lasciarsi i cinquanta prigionieri e poi, scacciando i tristi pensieri, ognuno riprese il cammino svanendo nello spazio e nel tempo.

   Solo, soletto e senza più compagnia il c.b. vagò a lungo per la città e si ritrovò alla stazione. Com’era cambiata quella grande stazione; pareva in agonia! Pochi i treni sui binari; molti i soldati e con divise strane; smarriti, così almeno sembravano, ferrovieri, passanti, viaggiatori, le persone che si trascinavano in giro. Dovunque i segni della guerra, però era pur sempre Milano. Fu in un ufficio, certamente il comando di qualcosa (non ricordo l’organo impersonalmente considerato della pubblica amministrazione), che il c.b., dopo aver chiesto e richiesto invano a destra e a manca notizie sugli orari dei treni in partenza per Bologna o Firenze, apprese che un convoglio con destinazione Bologna forse sarebbe partito verso le ore quattordici, o giù di lì, e probabilmente.

   “Scusi tovarisc, anzi signore, che ore sono adesso?”

   “Mezzogiorno e mezzo”, rispose il tizio col cappello quasi a pensilina, senza lo stellone però.

   Il bar, il buffet, la ristorazione insomma, non erano in funzione ma il c.b., abituato ai digiuni e all’arte dell’arrangiamento, non se ne preoccupò più di tanto. In un giretto d’ispezione alla enorme struttura ferroviaria e ai dintorni dove l’imprenditoria privata muoveva i primi passi, trovò un Tizio che offriva prodotti casalinghi di tipo mangereccio. Nascosto in una tasca della giacca, alquanto sdrucita, teneva avvolto in un foglio di carta paglierina, veramente molto bisunta, due fette di pane affetto da itterizia, cioè color giallo pallido tipo graminacee, o granturco, che ricoprivano due striscioline rinsecchite di pancetta suina. L’aspetto non era invitante ma l’odore sì.

   “Quanto?”, chiese il c.b. che alla sola vista di quel panino imbottito già aveva stuzzicato le ghiandole salivari ultrasensibili.

   “Duemila, Lire o Amlire fa lo stesso”

   “Am... che? Due... duemila?”

   “Sì proprio duemila, prendere o lasciare”.

   “Lo prendo, però mica poco, no?”

   Il viaggio in treno per Bologna non fu agevole, né confortevole, ma per un ex celoviek sembrò ugualmente un viaggio di nozze o turistico. Alla stazione di Bologna, verso il tramonto, il c.b. arrivò sicuro di poter ripartire prima di notte verso Porretta, verso casa, all’ultima meta da anni sognata. Dalla tettoia dove il convoglio si era fermato, guardando in giro, la stessa impressione desolante avuta a Milano rattristò il cuore del pellegrino; una mazzata in testa, ancor più pesante di un colpo di tegola caduta da un tetto, lo fece tornare insofferente come nei tempi bui trascorsi in Russia. Com’è cambiato il mio Bel Paese, maledetta guerra. Forza bersagliere, avanti; non arrenderti mai, tovarisc; non fermarti di fronte ad ogni ostacolo, uomo; arrangiarsi e sopravvivere, andare oltre, sempre; davai bistrà, celoviek.

   Treni per Porretta non ne partono oggi; anzi, a causa dei ponti interrotti chissà quando potranno ripercorrere la linea Bologna-Pistoia.

   - Beh? Ad ogni male c’è sempre un rimedio, finché dura la vita; soluzioni alternative se ne trovano sempre, basta cercarle e accettarle con animo perturbato e commosso, con mente pura - disse a se stesso lo smarrito pellegrino.

   Con cinquemila Lire il reduce acquisì le notizie che desiderava conoscere, con altre cinque ottenne anche un piccolo, freschetto posticino sotto un tendone cerato (cioè al riparo della pioggia) di un carro merci attaccato ad un convoglio passeggeri che, prima o dopo, sarebbe partito per Firenze. Comunque è certo che il carro va a Firenze; quando arriverà Dio solo lo sa, ma fa lo stesso.

   È quasi l’alba e un altro mezzo porta il c.b. dalla stazione di Santa Maria Novella a quella di Pistoia. Nella sala d’aspetto di terza classe, su quelle panche di legno ben note già quindici anni prima quando il bersagliere, allora studente, ogni giorno e per diverse ore, aspettava per riprendere il treno di ritorno da Pistoia, sede della scuola, a Ponte della Venturina, paesello di dimora, il celoviek si concede un sonnellino ristoratore. Viene poi a sapere che un pullman (allora si chiamava corriera) della ditta di trasporti Lazzi partirà verso le undici da piazza San Francesco, o nei dintorni di Porta al Borgo, per Pavana-Ponte della Venturina e Porretta Terme.

   “Dio che fortuna!”, esclama il c.b. e di buon passo raggiunge la piazza dove le corriere hanno il capolinea; sede per la verità abbastanza distante dalla stazione, ma non come da Suzdal’ a Vladimir.

   Si va... si va... sulla montagna... l’ardor che ci accompagna... salir, sempre salir... E la corriera raggiunge il Passo della Collina. Come sono verdi e belli i monti dove son nato! Si scende... Ecco San Pellegrino... Taviano, ed è più logico che scenda a Pavana invece che a casa mia, a Ponte della Venturina, per l’esattezza a Casa Bonaiuti; altrimenti se mi presento così, all’improvviso, davanti ai miei genitori corro il rischio di far venire un infarto ai loro vecchi cuori forse già provati dagli anni e dagli affanni. Molto più opportuno quindi fermarsi prima a Pavana, dallo zio Domenico, chiedere notizie della mia famiglia e programmare l’arrivo morbido a casa con adeguata preparazione antinfartuale.

   Nel negozio di generi alimentari e tabacchi, gestito dai Savigni, vedo la zia Vittorina, la più cara fra le tante zie che mi sono state assegnate dalle unioni familiari. Entro, saluto i presenti (due clienti e la zia) con un “buon giorno a tutti”, ma visto che non ho destato curiosità alcuna, con le braccia aperte grido:

   “Zia, zia Vittorina, son Bruno; come state, non mi riconoscete?”

   “Chi sei?”

   “Son Bruno zia!”

   Il sacchetto di pasta che la zia tiene in mano, saltando in aria, si sparpaglia per tutto il negozio mentre una esclamazione: “Oh mio Dio, o Madonna santissima!”, sovrasta ogni cosa e la zia, invece di abbracciarmi, corre nel vano adiacente urlando e piangendo:

   “Domenico, o Domenico, corri che è ritornato Bruno, corri!”

   Baci, abbracci, saluti, la zia che non riesce a sbiascicare una sola parola perché i singhiozzi le mozzano il fiato ma in compenso continua ad accarezzarmi il viso tanto che mi è quasi impossibile parlare con gli altri. Poi lo zio Domenico, per farsi sentire tra le esclamazioni di gioia e i singhiozzi della zia mi urla all’orecchio:

   “Tuo padre, tua madre e tuo fratello stanno bene, sono in buona salute; ne hanno passate tante anche loro con la guerra, addirittura sono stati per un periodo sfollati a casa Gori perché in casa tua erano acquartierati i soldati brasiliani e la linea del fronte vicina, ma ora è tornata la pace e stiamo tutti meglio”.

   “E gli zii Dario, Anna, Argia e la cara nonnetta e la Maria e Pitto, insomma tutti gli altri, zio, come stanno?”

   “Tutti bene, anche se ne abbiamo passate delle belle con la guerra; ma tu piuttosto come te la sei passata in Russia?”

   “Insomma, così così; non male del tutto!”

   “Hai fatto buon viaggio Bruno? Chissà che sfaticata a tornare da quel lontano paese; si vede che hai la faccia un po’ stanca e poi mi sembri molto più magro”, riesce a bisbigliare la zia Vittorina.

   “E perché ti manca una manica alla giacca?”, chiede sorpreso e perplesso lo zio Domenico.

   “Beh! L’ho perduta per strada, ma non ricordo dove; però poco importa perché ora sono a casa e perciò basta con la divisa”.

   “Tonio, o Tonino, guarda chi c’è, vieni a vedere chi è arrivato dall’altro mondo. Tonio, acciderba ai sordi; Tonino, entra che è arrivato Bruno dalla Russia”, grida lo zio Domenico al cugino Tonino che sta camminando sulla strada di fronte al negozio.

   “Toh! Sei arrivato ora?”, mi chiede il parente con la solita faccia imperturbabile che madre natura gli ha dato, e prosegue: “Com’è che in tanti anni non hai mai scritto due righe, non dico a noi, ma almeno ai tuoi genitori? Avevi troppo da fare o ti sei dimenticato?”

   “Non ho avuto tempo, ascoltami però Tonio. Io sto bene, tu vedo che stai meglio, tutti stanno benissimo e allora finiamola qui perché io sono stanco. Vai di là dall’acqua a dare il verderame alla vigna?”

   “Vado a vangare, ma ora ti saluto perché altrimenti faccio tardi, ciao”.

   La zia Vittorina, che ora sorride, conferma a tutti che debbo essere ben stanco dopo un simile viaggio e riprende ad abbracciarmi.

   “Sai che faccio ora, Bruno? Prendo la bicicletta e corro ad avvertire tuo padre; non gli dico che sei a casa da noi, gli dico che ti trovi a Pistoia e fra poco sarai qui; tu intanto, e dopo aver mangiato un boccone, ci raggiungi a piedi e di corsa. Per un bersagliere un chilometro di corsa è roba da ridere, perciò tra mezz’ora io e i tuoi ti aspettiamo a casa. Va bene?”

   “Benissimo, e grazie di tutto zio”.

   “Un momento che apparecchio la tavola”, dice la zia, “e poi ti faccio una bella pastasciutta; ti va o vuoi un brodo? E per secondo preferisci una frittata con uova e cipolle o vuoi due pezzi di salsiccia?”

   - Signore dammi la forza di resistere - pensa tra sé il bersagliere celoviek - qui se mi metto a mangiare mangio tutto ciò che c’è nel negozio e poi ricomincio da capo. Sono in casa della zia, è vero, ma non posso far vedere che sono un morto di fame; controllati, uomo, e resisti!

   “Zia, vi dispiace se invece di sedermi a tavola prendo due fette di pane e un pezzo di salsiccia e mi avvio a casa? Ho tanta voglia di riabbracciare i miei”.

   Tonino saluta e se ne va perché deve andare a lavorare nella vigna.

   “Fai pure come meglio credi, Bruno, però te ne preparo due di panini, va bene?”

   “No, no, me ne basta uno; l’altro torno a mangiarlo domani; scappo ora, zia, e grazie tante zietta cara; ciao”.

   Dio com’è buona la salsiccia; Madonna come corro in discesa! Il cuore mi batte come un motore, ma non è per lo sforzo che faccio; è l’ansia, il desiderio, la gioia di rivedere i volti dei miei genitori e del fratellino; visi che ogni giorno rievocavo nella mente, che sognavo spesso ma che man mano che il tempo passava mi apparivano sempre più confusi, sbiaditi, come avvolti da una leggera nebbia fumosa, illuminati da una luce fioca come quella che appare nei tramonti opachi dei giorni piovosi invernali.

   Scorgo in lontananza, davanti all’uscio di casa, il babbo, la mamma e Carlo che con le braccia mi fanno gran segni di affrettare la corsa; lo zio Domenico mi viene incontro a piedi.

   Abbracci, lacrime, baci, gioia immensa e indescrivibile. Dimenticato, cancellato il passato; felice il presente e la famiglia, riunita, sta già pensando al domani ringraziando di cuore, con fede sincera, con l’anima tutta il divino Signore che dall’alto dei cieli ha sempre vegliato su essa.

   E la Storia finisce qui. Storia che viene affidata ai ciechi e ai vedenti, agli udenti ed ai sordi; meglio ancora, all’oblio dei ricordi o al nulla del niente; anzi, no, no, ai morti solamente, indirizzo più giusto certamente; non pare anche a voi cara gente? Alla gente illusa, falsa e miscredente, ovviamente no, sicuramente.