La vista, in un pomeriggio inoltrato, di un grosso paese che si stagliava in lontananza tra il nevischio e la densa nebbia ci rincuorò un poco e ci infuse nuova lena per proseguire. Una grande cerchia di mura con svettanti torrioni a cipolla e uno spesso, alto portone d'ingresso - tipo castello medioevale - ci accolsero.
Nella fortezza antica diversi caseggiati in muratura segnati dagli anni ci offrirono finalmente un riparo. Erano scomparsi l’immenso cielo che sovrastava sulla steppa infinita e il vasto orizzonte che si confondeva in lontananza con la stessa terra; sopra di noi restava un piccolo fazzoletto di cielo, dintorno le alte mura e i possenti torrioni: un luogo tetro ma finalmente eravamo arrivati alla meta e sotto un tetto per ripararci. Eravamo nel lager di Suzdal’, al Campo n. 160; la nostra dimora che ci avrebbe ospitati per tutta la lunga prigionia in Russia. Finite d’incanto le tragiche, lunghe, interminabili marce del davai; svanito il ricordo amaro del treno del pianto e della morte, si riaffacciava in noi la speranza di un domani migliore, non certo immaginabile peggiore dell’oggi. Dopo tanto penare finalmente ricominceremo a vivere, o per lo meno a non più morire - pensarono gli affranti e sfiniti celoviek colmi di speranza nel cuore mentre si sdraiavano sui duri tavolacci che il convento offriva per l’agognato riposo.
Di giorno in giorno però la fame aumentava e di pari passo le forze cedevano. La brodaglia di ortiche bollite e il pezzo di pane nero che ci veniva distribuito saltuariamente non era sufficiente nemmeno a compensare le calorie indispensabili per vivere, figuriamoci poi a rimettere in sesto un organismo ormai debilitato dalle tremende fatiche sopportate.
Col passare dei giorni un nuovo, sconcertante tormento cominciò ad affliggere le larve umane denominate celoviek: un prurito ossessionante, continuo, irrefrenabile causato dai pidocchi al quale, di notte, si aggiungeva un fastidio irritante, un tormento insopportabile imputabile ad un esercito di cimici che chissà da quanti anni avevano preso dimora nei tavolacci, o castelli, divenuti i nostri giacigli, tolse ai malcapitati riposo e pace.
Qualcuno, più temerario degli altri, tentò di togliersi di dosso gli indumenti, che erano diventati duri, a prova di proiettili per la sporcizia, il sudore, il puzzo che ormai da mesi li impregnava, nel vano tentativo di ammazzare qualche unità o squadra di quei maledetti parassiti che ci procuravano un indicibile assillo. Tentativo vano e inutile; impresa ardua e impossibile, subito da scartare anche perché il freddo era già intenso con quei pochi panni addosso, figuriamoci poi senza, e inoltre perché non solo sui vestiti ma sull’intero corpo c’erano pidocchi, e non solo alcuni pidocchi, ma colonie, grappoli di parassiti e milioni di bianchi puntini, le uova. Inoltre, cercare le cimici al buio per poterne ammazzare qualcuna era come cercare uno spillo in un pagliaio. Un ufficiale della Vicenza, che ebbe il coraggio di denudarsi, dopo essersi grattato furiosamente a lungo, sanguinava come può sanguinare una persona graffiata da cento gatti arrabbiati o un guastatore passato più volte sotto i reticolati di filo spinato. Che tormento quello dei pidocchi, gente! Che prurito insopportabile, popolo!, quello provocato di notte dalle cimici che ti succhiano quel po’ di sangue rimasto e ti lasciano gonfiori che sei tentato di annullare con le unghie e coi denti!
Se non tengo ben stretti i miei cari pantaloni e le splendide mutandone di lana che porto addosso da tempo immemorabile - pensò il c.b. -, quel vestiario a poco a poco se ne va da solo e resto nudo. E con le braccia ben strette al corpo il tapino si accinse a dormire. Col sonno svanirono i tristi ricordi, le ansie passate, i dolori patiti; sulle labbra smorte di quelle larve umane il buon Morfeo disegnò un tenue sorriso, segno inconfondibile di una rinata speranza alla vita. I giorni, intanto, trascorrevano lenti, monotoni, uguali; unica attesa gioiosa di quel tempo senza tempo, l’arrivo della zuppa di ortiche bollite, scondite, nere come il fumo o come il pezzetto di pane che sembrava cotto nella fuliggine; ma quanto era buono e quanto durava in bocca! Che scherzi ironici riserva la vita: in Italia il nero era il colore di moda; nero l’orbace, nero il gagliardetto, nero il domani, neri i destini; però anche qui non scherzano: nero il pane, nera la zuppa, neri i vestiti, nera la fame, nero il tutto; e il rosso? Ma il rosso dov’è? Verrà, celoviek, verrà, eccome verrà!
Un mattino i prigionieri puzzolenti, lerci e infestati, furono portati al bagno, non turco ma russo. In uno stanzone gelato, coi ghiaccioli alle finestre e la brina spessa un dito sui vetri, i celoviek italiani si spogliarono come madre natura li aveva generati. Senza fretta poi passarono in un similare locale attiguo dove, a turno, ricevettero un secchio d’acqua addosso; ritornarono, quindi, attraverso uno stretto corridoio dove il vento soffiava come all’aperto, nella stanza-spogliatoio, e il bagno terminava così. I vestiti nel frattempo erano stati sottoposti a disinfestazione e i celoviek, in tremante attesa e traballanti come le foglie al vento, attesero pazientemente il turno per potersi rivestire. Dopo mesi, e meglio di niente, anche questo era un bagno, no? Bagno modesto, forse un poco pericoloso per sofferenti di bronchi, enfisematosi e deboli di polmoni, ma per i sopravvissuti alle marce del davai o ai viaggi nei treni della morte, sempre bagno era. E che bagno!
Il tempo intanto scorreva ugualmente e nel mondo e nel lager; i giorni, brevi, si alternavano alle notti, lunghe; l’inverno, sempre gelido e cupo, non finiva mai. Le tragiche sorprese non erano finite per niente. Infatti un disturbo preoccupante, inspiegabile all’inizio, sorprese non poco i celoviek in questo primo periodo di prigionia nel lager. Un andirivieni continuo alle buche, o cessi, procurava un fastidio incessante; una diarrea ricorrente, simile all’acqua di un fiume in piena, colpiva sempre più persone; strani brividi, diversi da quelli arcinoti procurati dal freddo, scuotevano gli arti e la schiena dei diarroici. Qualcuno, per far coraggio o per scherzo, propose ai colpiti dal malanno di trasferirsi stabilmente nel locale adibito ai bisogni corporali, risparmiando, in tal modo, un sacco di calorie necessarie a compiere gli innumerevoli viaggi di andata e ritorno; corse fugaci e penose che ormai non riuscivamo più a contare tanto erano tante.
Del resto nel locale-cesso non si stava male; odori sgradevoli non se ne sentivano per il fatto che ogni cosa che cadeva in quelle buche o, per disgrazia, anche sui bordi di esse, istantaneamente gelava diventando materia inodore e incolore; l’aria poi era molto più salubre di quella che si respirava nella stanza, perché veniva continuamente rinnovata dagli spifferi che lasciavano addirittura passare le folate del vento che scendeva dal nord e che entrava in ogni dove, fors’anche nelle arterie e nei cuori.
Una sera, forse più disgraziata delle altre, una parola terribile, agghiacciante, temuta più del gelido clima, percorse il lager da un capo all’altro, passò di bocca in bocca, colpì come una mazzata tremenda gli uomini, le cose, tutto: tifo petecchiale, esantematico.
I contagiati, a decine e ogni giorno sempre più numerosi, vennero stesi per terra in un ampio locale ma squallido, denominato lazzaretto. In poco tempo l’epidemia si diffuse nell’intero lager e poi imperversò a lungo. In quel tempo il Manzoni fu ricordato da tutti i celoviek; soprattutto ritornò alla mente quel capitolo dei Promessi Sposi dove veniva descritta la peste che aveva colpito Milano e dintorni; gli orrori del lazzaretto, i monatti e il carro che trasportava i cadaveri; scene infernali che parevano distanti anni luce da noi, irripetibili, forse anche un tantino frutto della fervida creatività letteraria del grande scrittore, più che realtà vissuta. A Suzdal’ non c’era la peste bubbonica, quella esantematica sì, con tutto il resto descritto dal Manzoni.
Incredibile, ma vero! Anche il c.b., stremato dalla febbre e dalla fame, fu portato un mattino dagli amici ancor sani al lazzaretto. Lì si addormentò, o almeno così credette. Diarrea, temperatura altissima da cavallo, delirio per giorni e giorni, quanti nessuno seppe mai dire, poi a poco a poco gli occhi ricominciarono a vedere, le orecchie a sentire e la vita a riprendere. Alzare la testa dal duro giaciglio era un’impresa sovrumana; girare il corpo su un fianco, impresa da scalatore di una roccia almeno di sesto grado; posare il ventre su quel tappeto di escrementi ghiacciati per lenire un poco il dolore delle piaghe da decubito, una sofferenza indicibile.
Il crudele e spietato morbo colpì prima o poi quasi tutti i prigionieri del lager; fece una strage con migliaia e migliaia di morti ma qualche centinaio di celoviek, forse con l’aiuto di Dio, o perché segnati dal destino, o con la forza della disperazione e l’incrollabile volontà di resistere, di vivere, lo sconfissero e la vita di quei pochi trionfò sulla morte. Passato il delirio, il c.b. udiva dintorno sommessi lamenti, respiri affannosi, flebili rantoli; vedeva come in una sera nebbiosa persone traballanti muoversi in qua e in là, simili agli ubriachi, inebetite; fantasmi girovagare senza una meta o direzione, spesso calpestando altri corpi che non si ribellavano o perché già morti o privi della forza per reagire. Tutti, comunque, morti, morenti, sopravvissuti, avevano l’aspetto di spettri, di scheletri incartapecoriti. Il pavimento assomigliava ad un letamaio pieno di liquami giallognoli e feci di ammalati affetti da disturbi epatici o da infezioni che tolgono la pigmentazione ai rifiuti; tutto ciò, per lo meno, non dava nausea perché il porcaio era talmente ghiacciato da sembrare un impiantito rivestito con materiali variegati in vetro opaco, né lordava chicchessia; il vomito era pressoché impossibile perché nello stomaco non c’era né cibo, forse nemmeno succhi gastrici, probabilmente il vuoto. I corpi dei degenti, invece, assomigliavano a guerrieri indiani dipinti coi colori di guerra. Questo è l’ultimo, il più profondo girone dell’inferno voluto da quel boia di Stalin, pensarono in molti.
Signore, fammi morire, non ce la faccio più - disse tra sé il c.b. alzando gli occhi in alto, su, su oltre il soffitto, verso il cielo. Ma fu un attimo di smarrimento e subito si riprese; quasi scusandosi e con vergogna disse a sé stesso e al buon Dio: No, no, perdono, perdonatemi, ma che scherziamo davvero? Io voglio, debbo vivere; sono un bersagliere del Terzo e non temo nessuno, né la morte o la vita, né il dolore o la disperazione; Signore lasciami vivere. Forza, bersagliere del Terzo, su con la vita e avanti coi denti e col cuore.
E con l’aiuto di Dio e l’incrollabile volontà la vita vinse la morte. I sopravvissuti, una volta in piedi, assumevano per ordine del nacialnik le funzioni di infermieri; poco volentieri per amore del prossimo; consenzienti perché gli ordini non si potevano discutere. Il compito di questi barcollanti soggetti dalle sembianze quasi umane, cachettiche certamente, era principalmente quello di versare un po’ d’acqua, ricavata dalla neve del cortile, nelle gole riarse dei febbricitanti o dei morenti. Medicine non ne esistevano affatto; nella fase acuta del male anche la brodaglia di ortiche era superflua; inutile poi il parere di qualche collega medico prigioniero.
Ogni tanto si affacciava allo stanzone una balenottera in camice bianco - pretendeva di essere chiamata doctor -, e con cipiglio tronfio e goffo chiedeva:
“Scolki caput, sivodnia?” (Quanti morti oggi?).
E poi, sbattendo il deretano troppo grosso per la porta stretta, subito spariva.
Altro compito affidato giornalmente agli infermieri scampati, da eseguirsi all’imbrunire, consisteva nel trasporto dei morti in cortile. Quattro celoviek - non tre altrimenti l’Operazione Trascinamento non sarebbe riuscita per le deboli forze a disposizione dei portantini - si occupavano di ogni cadavere: due afferravano il corpo per le braccia, gli altri per le gambe e lo trascinavano, passando spesso su altri corpi di morti o di moribondi, all’aperto nel centro dello spiazzo dove le salme venivano radunate in mucchi stranamente simili a una grossa catasta di tronchi di legno seccati al sole. Le cataste ogni tanto scomparivano per riformarsi quasi subito. Un carro agricolo, sempre stracolmo, tirato da un bue o da un mulo, provvedeva a trasportare gli scheletriti celoviek nei pressi di un bianco boschetto di betulle alla periferia di Meskov dove il necroforo compagno li cacciava in grandi fosse comuni (senza piastrino di riconoscimento però, chissà poi perché?). Cerimonia funebre semplice, senza pretese, ma significativa e come di abitudine nei paesi socialisti dei lager.
Finita la fase acuta del male e il delirio, al celoviek sopravvissuto veniva ordinato di passare dal lazzaretto in uno stanzone adiacente dove i cosiddetti “convalescenti” ricevevano una volta al giorno, o quasi, la zuppa di ortiche e il tocco di pane nero. Addetti alla distribuzione dei viveri erano generalmente soldati romeni prigionieri pur loro e che, proprio per la mansione di vivandieri, si trovavano in condizioni fisiche migliori degli altri e non di rado spadroneggiavano su tutti. Beati loro, quei tangheri.
Anche il c.b., ritornato sano di mente e in via di guarigione, divenne addetto ai lavori infermieristici. I posti lasciati vuoti nel lazzaretto dai morti venivano subito occupati da altri ammalati, o moribondi. Quanti ricordi incancellabili di atti lodevoli o deplorevoli, umani o bestiali, sublimi o spregevoli restano nella memoria di chi fu testimone di quell’orrido periodo! La legge che imperava in quel carnaio, meglio ossario, osservata dai più salvo poche eccezioni, era: mors tua, vita mea.
Un giorno il c.b. si accingeva a trasportare le salme nella spaziosa camera mortuaria all’aperto, e non ardente perché ghiacciata. I morti da trasportare erano parecchi e quasi tutti adagiati ai lati dello stanzone-lazzaretto, sul pavimento-letamaio. Tra un viaggio e l’altro era indispensabile una sosta ristoratrice per riprendere fiato. Seduto su un cadavere, il c.b. contava il numero dei morti che ancora restavano da trascinare in cortile; gettava un’occhiata furtiva, interessata non umana, ai moribondi che rantolavano sempre più debolmente e che potevano rappresentare al termine della giornata lavorativa un sovraccarico di lavoro; poneva attenzione a quelli che deliravano, un po’ per ascoltare le stramberie di ogni sorta che uscivano da quelle menti malate, molto per non pensare al peggio. Curiosità invece destavano quelli che erano stati ricoverati durante il giorno; non era raro il caso di scoprire tra i nuovi arrivati il volto noto di un caro amico di prigionia o di un compagno d’armi mai più rivisto dopo la ritirata dal fronte.
Ad un tratto l’occhio più spento che vivo si posa su un viso emaciato, scavato dalla febbre e dal tifo, col corpo quasi nudo, immobile, rigido come in genere erano i corpi dei morti o dei moribondi nei quali ancora si avvertiva un esile, flebile respiro che non dava però forza alle membra da farle sembrare vive. Ma quello respira ancora - pensò il c.b. - o così almeno pare anche se già è nella fila dei cadaveri da trascinare in cortile; meglio andargli vicino e controllare con più attenzione.
Rialzatosi pian piano, scavalcando diversi corpi allineati vicino alla porta dello squallido vano, il c.b. si avvicinò al seminudo prigioniero che già da altre mani era stato adagiato nello spazio che prima di sera doveva essere sgombrato per lasciar posto ai nuovi appestati. Il volto era piegato verso destra, ciondoloni sul pavimento, e pertanto era difficile coglierne i lineamenti del viso e dar un nome al poveretto. Quel petto nudo e privo di qualsiasi indumento o straccio, quelle costole scarnificate ricoperte dalla sola pelle ogni tanto erano scossi da convulsi movimenti. Appoggiata una mano sul torace, avvertiti tenui, irregolari respiri, il c.b. si rialza in piedi ed esclama:
“Signore Iddio, ma questo è ancora vivo; se viene trascinato all’aperto crepa prima del tempo”.
Chinatosi nuovamente sul malato e con l’aiuto di un altro apprendista infermiere, gli prende la testa fra le mani e lentamente, per non rompere qualcosa che sembra oramai più fragile del vetro, la gira verso di sé e borbotta:
“Dio buono e misericordioso, ma questo disgraziato pare Sica, assomiglia a Mario; è mai possibile che sia lui e ridotto così? Mario, o Mario, mi senti? Sica, Mario, Mario, mi senti? Sei Mario?”
Il compagno socchiude gli occhi, guarda smarrito dintorno e poi con un filo di voce sussurra:
“Sì, son Mario, son Sica, sono io e tu?”
“Bruno, Mario; sono Bruno, come stai?”
“Mah, e chi lo sa?”
Una coperta rubata ad un morto, meglio dire la prima incontrata, coprì alla meglio l’amico Mario; un poco d’acqua reperita in un gavettino saziò l’arsura che bruciava la gola dell’amico e, infine, con l’aiuto di altri Mario fu trascinato, e con che sforzo, in un’ala dello stanzone dove si trovavano i contagiati dal tifo, morenti anche, ma non ancora defunti.
Poi, col tempo anche Mario superò la fase acuta del male ed assieme ai pochi scampati, o prediletti, riprese a vivere quella vita da bestie che ancora per altri quattro lunghi anni fu riservata ai prigionieri da quella ancor più bestia del piccolo, grande Padre e dai fratelli migliori nostrani.
E nel lager, lentamente, lentamente cessarono la diarrea, la febbre e la morìa. Dopo chissà quanto tempo, l’epidemia, in silenzio, com’era nata si spense e i pochi superstiti ripresero a vivere con una infinita stanchezza e con una fame da lupi, con una magrezza impressionante e con la medica classifica di distrofici gravi. Di pari passo anche la salute, più per volere dell’Altissimo e di madre natura che degli uomini migliorò, aiutata nello sforzo anche dal concorso della brodaglia d’ortiche bollite e qualche altro scampolo del regno vegetale, i cavoli in salamoia. Il sole della tiepida, corta estate russa facilitò egregiamente il rinvigorimento della psiche, dell’intelletto, soprattutto del fisico.
E il tempo riprese a trascorrere alternandosi solo fra il giorno e la notte. I tetri mesi del primo inverno bestiale erano ormai già trascorsi da un pezzo; anche il tepore della corta stagione estiva in breve svanì e tornarono in fretta, improvvisamente, le neve e il gelo, il freddo marosc e le furiose tempeste, le lunghe notti e i giorni brevi. Tristezza, abulia, indifferenza verso tutti e tutto regnavano sovrani nello sperduto lager di Suzdal’. Si rafforzavano soltanto quei pochi sentimenti di fraterna amicizia nati nell’orrore della guerra e fra i ricordi lieti e tristi di un recente passato.
Un giorno giunse nel Campo la notizia della caduta del fascismo, dei fatti dell’8 settembre 1943, della sorte della guerra in Italia e nel mondo. I tedeschi e i fascisti invadono l’Italia; Badoglio e il Re continuano la guerra scappando; gli Alleati vincono ovunque; stravincono le armate russe. Così si ripeteva da un capo all’altro del lager e fino all’infinito. Le notizie, le prime notizie che apprendemmo dopo la cattura, non furono certo annunci lieti o desiderati; servirono però a farci capire che l’umanità, con le sue poche gioie e i tanti dolori, ancora esisteva, viveva e che anche noi prigionieri di guerra facevamo parte del mondo. Anche nel Campo 160 di Suzdal’, forse per incanto o per volere del fato, per reazione naturale o alimentata ad arte, avvenne quanto stava accadendo nelle nazioni coinvolte nel conflitto e, in particolare, nella nostra Patria in seguito a capovolgimenti storici, politici, sociali di siffatta, enorme rilevanza. Io sto con questi, tu sei di quelli, chi non è con noi è contro di noi e viceversa; chi desiderava star solo era con tutti e con nessuno. Che strano modo di pensare e di agire si faceva strada nella mente ancor debole dei poveri cristi, affamati più che di cultura, di sapere, di conoscere, di un semplice tozzo di pane e una manciata di cibo!
Nel frattempo Stalin, e con ragione, era ormai certo che la vittoria gli era a portata di mano, solo questione di tempo; era altresì consapevole che un giorno o l’altro vincitori e vinti, ricordando i bollettini di guerra dell’Armata Rossa, gli avrebbero chiesto notizie intorno alle centinaia di migliaia di prigionieri catturati nell’inverno del 1943. Uno di questi bollettini dello Stato maggiore sovietico annunciava al mondo intero che nella battaglia di Stalingrado e durante l’avanzata nell’ansa del Don l’esercito di Stalin aveva catturato 115.000 soldati italiani appartenenti all’Armir e centinaia di migliaia di tedeschi, ungheresi, romeni, slavi, bulgari e così via. E se qualche nazione vinta o occupata mi chiede notizie di tutti quei soldati catturati dal mio esercito - pensò tra se l’Attila moderno - cosa gli rispondo? Dovrò pur far vedere che anch’io sono un essere umano e dimostrare che qualche scampolo di quei fascisti invasori passeggia ancora sul sacro suolo delle repubbliche socialiste sovietiche, no? Il difficile sarà trovarne ancora in vita qualcuno, visto che ho dato ordine al popolo di ammazzarli tutti. Mah! Speriamo in bene! - disse a sé stesso il padre kolkosiano, proprio lui che tra i tanti metodi in auge nel mondo per sterminare la gente aveva scelto quello più radicale, più pulito ed umano, soprattutto meno dispendioso, collaudato da un ventennio e sempre in vigore, con risultati brillantissimi, in tutti i lager sparsi nell’immensa steppa russa: per fame e per peste.
Visto che a quei tempi non era stata ancora ventilata l’ipotesi della lira pesante che avrebbe risolto brillantemente il caso dei prigionieri italiani (catturati 115.000, meno tre zeri uguale a 115, cioè il totale dei sopravvissuti), lo zar di tutte le Russie diede ordine di svolgere nell’impero rosso una accurata e immediata indagine per appurare la fine fatta dagli italiani e dagli altri soldati nemici catturati. Dai lager di Oranki, di Krinovaja, di Suzdal’, di Tambov, di Minciurinsk, n° 27, 58/C e altri le risposte che arrivarono alle orecchie di Stalin furono sconcertanti e sconfortanti.
“Prikas (ordine): arrestate la morte”, urlò inviperito il supremo capo del comunismo internazionale all’Nkvd, oggi Kgb, alla nomenklatura, all’esercito; “nessun prigioniero deve più morire, è un prikas che non ammette eccezioni”.
E l’ordine attraversò come un fulmine tutta la steppa europea e siberiana compresa. Dall’era delle ortiche, dei cavoli, del tozzetto di pane nero di veccie, i prigionieri passarono di colpo all’epoca del miglio, o kascia, e del pan bianco di grano; dalla morte inevitabile a quella naturale. Col passare dei giorni, e col più decente, anche se scarso vitto migliorarono la salute e le forze; rifioriva la speranza, si rianimava l’esistenza vegetativa.
E proprio in questo periodo di rinnovamento e di inni alla vita, il c.b. mosse i primi, incerti passi verso la nuova, mirabile cultura socialista e proletaria nonché marxista-leninista. Inoltre apprese nomi e notizie di molti fratelli italiani che stavano per diventare famosissimi: Ercole Ercoli o Mario Correnti, alias Togliatti Palmiro, D’Onofrio, Grieco, Longo, Germanetto, Robotti, Rizzoli, Fiammenghi, Guizzardi, Ingrao, i Pajetta, signora Torre e figlia, Montagnana e altre gentili, notissime dame, gente non prigioniera ma assimilata, compagnucci della parrocchietta33.
Un triste giorno la signora Torre e la figlia improvvisamente scomparvero dal lager e nessuno le rivide più, svanirono nel nulla delle rosse immensità. Una voce cattivella si sparse fra i celoviek: erano poco fredde e insensibili, non adeguatamente disumane e qualcuno sospettò che anche loro avessero un cuore. Cambiarono aria, per sempre; nulla di più, forse in cerca del marito-padre che pure lui si era perso nell’immenso impero del popolo. Altra voce maligna e che nasceva dal niente asseriva che a Robotti fossero state assegnate, dall’uomo con le mostrine azzurre, cioè dall’Nkvd, padrona assoluta delle nostre vite, la metodologia dell’educazione e della rieducazione degli ufficiali italiani prigionieri a Suzdal’; al Rizzoli la didattica viva e attiva per il conseguimento del fine educativo fissato dagli operai e dai contadini; al migliore-peggiore la supervisione pedagogica e il diritto sovrano, anzi proletario, di vita e di morte su prigionieri e compagni. Radio kascia, ovviamente, malignità, niente di più.
Il vitto, dopo l’ordine del Generalissimo, è senza dubbio migliorato ma è scarso, insufficiente, e la fame è maledettamente tanta, assillante, costante; fame di giorno, di notte, sempre. Gli occhi vedono dappertutto cibo inesistente, le orecchie sentono il cadenzato ronzio di girarrosti che non ci sono, le narici ad ogni angolo annusano odori di leccornie che nascono dai ricordi; cuore, mente, anima hanno soltanto fame; fame popolare o borghese, reazionaria o progressista, fascista o marxista ma sempre fame.
Nel lager intanto la vita trascorre con la stessa routine di sempre; l’oggi è uguale a ieri, simile al domani. Qualche perquisizione più numerosa e pignolesca del solito, forse per trovare qualche pensiero nascosto visto che non ci può essere altro da scoprire; ramanzine singole e collettive; lezioncine di educazione sui tanti doveri senza alcun diritto e alcuni colloqui bilaterali fra russi e celoviek particolarmente insofferenti al nuovo clima distensivo e collaborativo promosso dagli interpreti nostrani sui fatti del giorno o meglio sui propositi per il domani. L’Alba, da foglio notizie, si trasforma in giornale; da scialba diventa chiara, anzi chiarissima; i tramonti sempre più complessi ed oscuri. Ancora rare ed intime le lodi al Signore; in aumento e non solo riservate le maledizioni contro i personaggi dalle mostrine azzurre ed assimilati.
Una cosa è certa ed evidente: nel lager la cultura germoglia a ritmi da serra; fioriscono nuove idee colorate; crescono l’anelito e il desiderio del conoscere, del sapere; ovunque si parla, si sparla, si dibatte, si problematizza, si chiacchiera tanto e di tutto e di niente. Chi tace è guardato male; chi osa ribattere è visto peggio; chi acconsente progredisce. Inoltre, il risveglio cultural-progressista e popolare che aleggia nel Campo è più impetuoso del risveglio che la tiepida estate imprime, da sempre, alla natura che si ridesta dal letargo invernale. “Dalle tenebre alla luce” è il messaggio che gli agit-prop più o meno nostrani affidano alla brezza che spira fra le mura del lager, i torrioni massicci, gli uomini e le cose, tutto. “E quindi uscimmo a riveder le stelle”34, fanno eco gli inebetiti celoviek frastornati e confusi, ancora sotto il terrore del gelido marosc e della più gelida morte che da tempo ormai aveva preso domicilio e residenza stabile nel lager di Suzdal’. E tutto fa cultura, ogni cosa sa di cultura tranne le ortiche che hanno sapore di schifo ma son buone lo stesso, meglio che niente.
L’Alba, non quella che uccide la notte e precede il giorno, ma il giornale che gli attivisti del Minculpop35 nostrano ed enkevediano hanno concepito e subito partorito nel Campo (editore il Migliore, tipografia moscovita) per informare e soprattutto formare gli scampati alla morìa; per istruire ed educare i bestioni ignoranti nati e allevati nelle scuole tradizionali e borghesi; per ridare la luce ai ciechi fascisti imperialisti e invasori, è sempre più radiosa e splendente, impregnata di sacro e di sapere social-popolar-progressista. È come una luna piena che illumina un cielo di stelle e il mondo, tutto e tutti; non brilla però di luce propria, ma riflessa da un astro in terra, un sole, il sol dell’avvenire, il che è tutto dire. Articoli di quei personaggi emergenti prima ricordati; cronisti, redattori, reporter improvvisati, nati per l’occasione e men per vocazione, nostrani e assimilati, delatori infami esclusi, riempiono di parole, di concetti, di elucubrazioni mentali il giornale e saziano abbondantemente il desiderio di tutti, o quasi tutti, di conoscere ed amare i sorgenti stregoni del materialismo storico e più o meno dialettico. Non c’è pagina che non ponga in evidenza le gesta dei totem, cioè dei leaders o tovarisc nacialnik della dittatura democratica del proletariato, delle guerre di liberazione, del trionfo del socialismo, prima, che diventa poi subito comunismo dopo.
Gli appelli lanciati a destra e a manca, ad ovest soprattutto, a nord meno, ad est per niente, appelli ovviamente da sottoscrivere, non si contano più. Quelli contro gli uni e gli altri si sprecano, ma su tutti primeggia il primo appello inventato, quello cioè per dare Trieste alla Iugoslavia e ai compagni titini, fulgida pietra miliare sfavillante ed umiliante insieme della misera storia appellante del lager 160 di Suzdal’. Chi non firma gli appelli è reazionario, fascista e revanscista; chi prende tempo e dice “mah” è meglio che niente, però da vigilare; chi firma invece è democratico e progressista. Quanto lavoro cerebral-culturale per i fuoriusciti addetti alla rieducazione degli ufficiali italiani prigionieri; quale slancio promozionale e innovativo distingue i ravveduti; che rottura e che pena per i refrattari testoni incalliti; che strazio e che prezzo per quel gruppetto d’ingenui idealisti che vive “contrapponendo a tutti e a tutto, l’alta fede dei propri ideali cercando d’indicare così anche agli incerti e agli imbelli la via del dovere e il principio della inviolabilità del prestigio della Patria”. Roba da zolfanai, oggi.
Ogni giorno si avvicinano sempre più e l’ora della liberazione dei popoli oppressi e il trionfo del comunismo; la vittoria del proletariato contro la borghesia; la democrazia democratica dello stalinismo; la repubblica progressista e popolare; i tribunali del popolo e il collettivo collettivistico; la vittoria degli umili e degli oppressi, degli operai e dei contadini. Ogni tanto, anzi spesso, si canta “bandiera rossa la trionferà, viva la Russia e la libertà”.
Il c.b., che desidera restare soltanto e semplicemente un ufficiale del 3° Bersaglieri, si arrovella neuroni e cervello perché non riesce a capire se è un proletario o un borghese, un umile od un oppresso; se conviene di più classificarsi come operaio o contadino; se il potere del popolo anche in Italia sarà poi così bello come si vede qua. Chissà!