La notte che ancora rimane è breve e con le prime luci dell’alba che accompagna il giorno che nasce, il 21 dicembre del 1942, dalle balke attorno al paese sciamano verso di noi le fanterie russe, accompagnate dai pesanti T-34 che fanno tremare attorno la terra ancora addormentata ma pur sempre viva.
Nessuna reazione da parte nostra è umanamente possibile; sappiamo bene cosa ci aspetta e siamo rassegnati al peggio. Non nascono bersaglieri che in qualsiasi tragico frangente possano pensare di sottrarsi alla morte, al dolore, al destino più crudele uccidendosi o stupidamente facendosi uccidere.
Dalle isbe escono a gruppi gli scampati ancora intontiti dal sonno e sfiniti; muti, con le mani alzate si mettono in fila sul ciglio della strada spinti dal vociare arrogante e dalle botte sulla schiena coi calci dei fucili che russi e mongoli usano d’abitudine come linguaggio interrelazionario coi vinti. Ogni colpo è seguito da un:
“Davai bistrà, ioptuoi mater; italianski caput”.
Nelle isbe restano soltanto i feriti o coloro che più non si reggono in piedi per il sangue perduto o per lo sfinimento subito. Chi può muovere anche solo qualche passo, sorretto da un amico, esce dall’isba e s’incolonna con gli altri perché tutti ben sanno che restare vuol dire morire; meglio: essere ammazzati. Nel paese ogni tanto risuonano lugubri una raffica di parabellum o spari isolati; sono colpi che mettono fine al calvario dei segnati dal destino o dalla ineluttabile sorte.
Copro alla meglio, allungando la manica della giacca, la mano sinistra che è tutta ricoperta da grumi di sangue coagulato; una fitta lancinante tra l’indice e il medio mi fa stringere i denti ad ogni movimento dell’arto. Capisco che qualcosa è rimasto conficcato nella carne ma non oso guardare o toccare la ferita per paura che il sangue di nuovo fuoriesca.
Perquisizione per tutti; gli orologi sono i primi a sparire e i trofei più ambiti; spesso alcuni soldati russi, bestemmiando come dannati, litigano fra loro per sfilare dal polso, per primi, quegli oggetti che rappresentano un vero tesoro. Poi il resto: portafogli, fotografie, matite, penne, tutto ciò che è possibile arraffare. I cappotti foderati con le bianche pellicce d’agnello vanno a ruba; le scarpe, come pure gli stivali degli ufficiali, non interessano a nessuno perché in Russia solo i valenki - feltro pressato e incollato a forma di stivaletto - salvano i piedi dal congelamento.
Il mongolo che mi perquisisce ha un sobbalzo e fa un passo indietro non appena sente con una mano un oggetto tondeggiante in una tasca. Mi punta il mitra alla testa e grida con quanta forza ha in gola:
“Ioptuoi mater, davai bistrà”.
Poi, più punzecchiandomi col parabellum che usando le parole, mi fa cenno di togliere con una mano l’oggetto misterioso che egli ritiene, non a torto, un ordigno bellico, una bomba a mano tipo Breda o Srcm. Urla come un ossesso e se non ha già premuto il grilletto è soltanto per la curiosità di vedere cosa nascondo; per la speranza, o cupidigia, d’impossessarsi di qualcosa, senza pericolo, che per lui certamente sarà un desiderio inappagato; meglio: inappagabile. Per essere onesto, anch’io non ricordavo proprio cosa conservassi nella tasca dei pantaloni in quel momento, ma appena tocco l’oggetto quasi quasi mi prende un mezzo accidente. È una lampadina elettrica, una torcia che funziona con la pressione delle dita, come la dinamo delle biciclette, non si scarica mai ed è sempre pronta all’uso. Ha soltanto una stramaledetta forma simile alle nostre bombe a mano. Era un piccolo gioiello per quei tempi in cui candele, lumi a petrolio, avevano ancora il primato. E anche le lampadine a pila non erano alla portata di tutte le tasche; inoltre si scaricavano in breve tempo, la sostituzione costava cara e in guerra poi, sul fronte russo in particolare, non era pensabile di trovare un negozio dove acquistarne delle nuove.
Quel tipo di torcia che conservavo in tasca me lo aveva regalato la mamma spedendomelo al fronte in uno dei quindicinali pacchi che regolarmente mi spediva da quando ero partito dall’Italia e che spesso arrivavano al destinatario. Povera mamma! Chissà dove l’aveva trovato e quanto pagato! E che comodità preziosa si era dimostrato nel lungo mio peregrinare in terre ancora illuminate dagli stoppini a petrolio! Le mamme, tutte care e uniche al mondo! Dopo circa un anno dal mio silenzio sentì dire dalla radio che i soldati dell’Armir erano prigionieri dei russi e stavano molto bene; nonostante la bella, veritiera notizia lei allora riprese a spedirmi, tramite la Croce Rossa Svizzera e fino al mio ritorno in Patria, cioè per oltre quattro anni, i due soliti pacchi mensili e due cartoline. Ma il figlio prigioniero dei civili e democratici comunisti russi mai, durante tutto il lungo periodo di detenzione, ebbe la grazia di ricevere non tanto un solo pacco - follia questa - ma una semplice cartolina che né Croce Rossa Svizzera, né quella Internazionale riuscirono a far varcare i confini dell’impero di Stalin.
Se questo mongolo cinghiale kolkosiano non conosce l’aggeggio che mi appresto a togliere dalla tasca, prima mi spara e poi mi chiede cos’è, giacché la torcia poteva benissimo essere confusa con una nostra bomba a mano. Infatti le Breda, le Oto erano come forma quasi simili, non uguali. È vero che la torcia elettrica era di forma ovoidale, non cilindrica; che assomigliava più ad un uovo sodo di anatra schiacciato ai lati; insomma esaminandolo con attenzione tutti avrebbero capito che non si trattava di un ordigno bellico. Ma in certi frangenti e con certa gente i fischi si scambiano facilmente coi fiaschi. In posizione di riposo, sulla torcia-dinamo, si notavano soltanto un cerchietto di vetro sul davanti a protezione della lampadina e, di fianco, una piccola asticciola cromata che aderiva perfettamente al blocchetto ovoidale che costituiva l’involucro dell’oggetto misterioso, il tutto verniciato di nero. Un bottone a scatto teneva celato nel ventre dell’uovo sodo un corto cilindretto lungo circa 5 centimetri, saldato alla piccola levetta orizzontale, che al momento dell’uso usciva all’esterno. Per far luce, si disinnescava il bottone che consentiva al cilindretto con annessa levetta o asticciola cromata orizzontale di fuoriuscire per tutta la sua lunghezza dalla sede interna di adattamento. Col palmo della mano chiusa a pugno, poi, si premeva sulla asticciola che così faceva rientrare il cilindretto, ma una molla, una volta cessata la pressione e la corsa di rientro lo faceva riemergere tornando in posizione di azione. Più in fretta, non con più forza, uno aumentava il movimento di rientro e di uscita del cilindro, più la luce aumentava di intensità. Avveniva proprio ciò che accadeva con la dinamo installata sulla mia bicicletta Wolsit, regalatami da mio padre per andare a scuola a Porretta: se il copertone della ruota anteriore correva veloce e, quindi, il rotore della dinamo che vi si appoggiava ruotava in fretta, la luce prodotta nel fanale era sufficiente per vedere nel buio a una decina di metri di distanza; se invece si pedalava stancamente, specialmente in salita, non si illuminava niente, o quasi.
Col pollice tenevo schiacciato il bottone che disinnescava cilindretto e asticciole e piano piano toglievo dalla tasca l’oggetto misterioso mentre la canna del mitra, con solenni punzecchiature, si trasferiva dalla testa al petto e viceversa:
“Niet bomba, tovarisc; bomba niet, pognimai? Luce, pila, elettricità, Popòv, pognimai? Da?”
E per rassicurare ancor più l’inferocito mongolo, col pugno chiuso che quasi celava alla vista quel miracolo della tecnica, così almeno fino a pochi minuti fa, ora invece strumento d’angoscia e di morte, faccio strisciare la mano sul petto fino alla fronte facendo poi funzionare la dinamo più in fretta possibile, a tutta velocità consentita. Il mugiko vede la luce, apre la bocca che pare l’apertura di una caverna e un grugnito che termina con un oh! grande come una casa riempie quel forno spalancato. Poi, con un gesto che assomiglia più ad una zampata di tigre che ad una graffiata di gatto, mi afferra la mano e la torcia. La mira e la rimira da tutte le parti, la passa da una mano all’altra e infine si mette a farla funzionare, prima a singhiozzo, poi ritmicamente e sempre più velocemente. Che luce che fa, che miracolo, esclama! Ride come un citrullo bambino, saltella come un malato affetto dal ballo di san Vito e la mostra a due suoi compagni che gli si sono avvicinati. Non intende però passare di mano quel coso e quando uno dei due cerca di strapparglielo, con uno spintone e una ringhiata da orso ferito quasi lo sbatte a terra.
Soddisfatto mi guarda ed urla:
“Davai bistrà”, e con una gran botta della canna del mitra sul fianco sinistro mi fa incolonnare con gli altri.
Poco distanti dal nostro gruppetto due bersaglieri giacciono a terra semisdraiati nella neve. Uno ha una larga chiazza di sangue sulla coscia destra, l’altro si sorregge con la mano sinistra e con l’altra, protesa in avanti, sembra invocare un aiuto per rimettersi in piedi. Nessuno di noi lo può soccorrere. Solo due raffiche di mitra vengono in aiuto ai poveri sventurati che, senza un gemito, restano stesi sul bianco lastrone ghiacciato. Quanti ne abbiamo visti morire in quel modo e nelle interminabili marce del davai o nelle terribili soste in mezzo alla steppa, quanti!
Oggi è il 21 dicembre dell’anno 1942. In Italia la Chiesa festeggia santo Tommaso, o san Tomè perché, come dice una tiritera montanara, il giorno cresce quanto il gallo alza il piè, anche se poi vero non è. Qua nella steppa, a Kalmikov-Konovalov, non c’è niente di niente; né la chiesa che canta in vista della Pasqua Santa, né il santo Tommaso che non ci crede se non ci sbatte il naso, né le giornate che calano, crescono o stanno ferme. C’è soltanto un ufficiale del 3° Bersaglieri che nel bel mezzo della steppa ghiacciata diventa celoviek e si appresta a visitare tutti i gironi dell’inferno dantesco.
E da Kalmikov-Konovalov iniziarono le lunghe marce del davai attraverso l’immensa distesa gelata e sferzata dal freddo marosc che viene dal nord. I prigionieri, già sfiniti dai ripetuti assalti alla piazzaforte di Meskov, arrancavano sul terreno innevato intruppati in lunghe, tortuose colonne che si snodavano sul bianco candore tra violente tempeste di nevischio e freddo intenso. La temperatura di giorno sfiorava i venti, trenta gradi sotto lo zero; di notte si toccavano temperature più basse ancora. La fame dilaniava lo stomaco; il riposo era limitato alle sole ore in cui la luce svaniva per lasciare posto alla notte; il riparo era meraviglioso quando nell’interminabile andare le guardie ci ammassavano in qualche stalla o capannone-magazzino. Il giaciglio di solito era la nuda terra o un lastrone ghiacciato; la sete si leniva con un pugno di neve che pareva farina tipo doppio zero; il cibo, saltuariamente, ogni due o tre giorni, consisteva in un tocchetto di pane nero come la pece e, qualche rara volta, in un pezzetto di pesce secco talmente duro che per addentarlo dovevamo tenerlo in bocca a lungo per evitare il rischio di rompere i denti. Alcune manciate di cavoli in salamoia sostituivano spesso i cibi prelibati innanzi ricordati. Quando la marcia si svolgeva distante da piccoli paesi o da agglomerati di isbe saltava tutto: cibo, riposo al coperto, sonno. Quante volte per tetto c’era solo un cielo di stelle, o un denso mare di nubi, o addirittura un violento turbinio di cristalli di neve.
Inutile chiedere ai mongoli carcerieri quanti chilometri mancavano alla meta o il luogo di destinazione finale:
“Scolki kilometr, tovarisc?”
“Nisnaio, davai bistrà”.
“Quando ci riposiamo un po’, compagno?”
“Nisnaio, davai bistrà”.
“E quando mangiamo?”
“Nisnaio, davai bistrà”.
Queste due parole: nisnaio e davai bistrà (cioè: non so e sbrigati), sono le uniche parole che i prigionieri intesero lungo quello straziante peregrinare. Divennero poi familiari, e sempre le stesse, con l’aggiunta di un “ioptuoi mater” come saluto affettuoso, durante tutte le mille, tristi situazioni vissute in quel meraviglioso paradiso durante gli anni bui della prigionia nei buchenwaldiani campi stalianiani.
Brevi soste di notte in rifugi di fortuna più freddi della stessa neve quando il Signore ci assisteva; incerta e più dolorosa la ripresa del cammino dopo la sosta il giorno dopo all’alba. Settimane e settimane durò quel supplizio atroce; ogni tanto, sempre più spesso, qualcuno stremato cadeva per non rialzarsi; di tanto in tanto una raffica di mitra o un colpo di fucile poneva fine ad una vita da bestie, invivibile. Quanti italiani sono morti in questo modo; quanti sono stati ammazzati da qualche tovarisc soldato, tronfio o gonfio di vodka, per essersi seduto a riprendere fiato. Unico segno lasciato in quel triste viandare, le macchie scure su quel bianco candore dei morti o degli ammazzati. Nient’altro. “Taciti, soli, senza compagnia, n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo” 31.
La nozione del tempo svanì in breve; i giorni della settimana e le ore del giorno erano sempre le stesse; unica distinzione possibile quella tra il dì e la notte, basta. Natale, l’ultimo e il primo giorno dell’anno, l’Epifania vennero inconsciamente cancellate dalla mente e dal cuore. L’esistenza si risolveva in una meccanica azione degli arti inferiori: camminare, andare avanti perché fermarsi significava morire. I bisogni corporali, radi, erano riservati alla notte e dove capitava. Il freddo sempre più intenso, la fatica sempre più grande, la fame sempre più atroce; penoso poi l’avanzare sotto la tormenta di neve che spesso si abbatteva sulla colonna in cammino.
Molti prigionieri cominciarono ad avvertire insensibilità agli arti, mani e piedi, anche al naso, accompagnata dopo poco da lancinanti dolori, da gonfiori violacei. Congelamento. Chi aveva la sfortuna di avvertire tali sintomi era finito. Dopo qualche giorno di tormento cadeva sotto un colpo di fucile che, per lo meno, in questo caso, aveva il pregio di porre fine ad una straziante agonia. Cura diabolica senza dubbio, ma opportuna.
La vista di un treno addetto al trasporto del bestiame, in un incerto mattino sul finire del mese di gennaio e in quel bianco deserto desolato e ghiacciato in cui cielo e terra si confondevano nel vicino, nebbioso orizzonte, rincuorò e riaccese le sopite speranze dei condannati a morte.
Il celoviek bersagliere e tutti gli altri salirono sui vagoni; per ogni carro quaranta, cinquanta prigionieri e più stipati e ammassati sui pianali di ferro ricoperti da uno spesso strato di brina. Completato il carico, le porte si richiusero sprangate da un solido catenaccio esterno. Alla luce subentrò il buio e la lunga tradotta, lentamente, lentamente iniziò la sua marcia attraverso la steppa infinita, verso l’ignoto tra un turbinio di nevischio e sotto le folate sferzanti del maledetto vento del nord. Che fame, gente! Che sete, popolo! Che freddo, compagni! Ogni tanto il c.b., a turno coi condomini del carro, per placare l’arsura che incendiava la gola leccava avidamente uno dei bulloni di ferro che tenevano unite le assi al telaio del vagone e sul quale il vapore, il fiato di quei sessanta disgraziati animali si condensava formando una bianca, densa e fiorita coltre di brina. I bisogni corporali, scarsi e proporzionati al quasi niente mangiare e al poco bere, non costituivano un problema in quell’angusto spazio per il fatto che ogni residuo, più o meno sgradevole, si trasformava all’istante in un’informe frittella di ghiaccio.
I gemiti dei morenti, continui e fievoli, si confondevano con le grida di dolore dei congelati; i rantoli strazianti di un corpo che esalava l’ultimo respiro, i gorgoglii schiumosi, appena percettibili, di un agonizzante rompevano il silenzio di tomba e senza voci che gravava all’interno buio del gelido vagone. Il puzzo nel vagone era un orrido tanfo di carne in putrefazione che emanava dagli arti in cancrena, misto ad un acre odore di sudicio e di sporco, di lezzo e di urina. Per molti la morte era un vero sollievo; per altri, colpiti dalla cosiddetta agonia bianca, un dolce, indolore passaggio a miglior vita sognando perché, assopendosi, il freddo li trasportava dal sonno alla morte.
A scadenze imprevedibili il treno si fermava in aperta campagna; le porte dei vagoni venivano aperte e un tovarisc, con voce da cane, gridava:
“Scolki caput, sivodnia? Davai bistrà” (Quanti morti, oggi? Fare presto).
I cadaveri, rigidi come tronchi di legno, venivano raccolti dai prigionieri di ogni vagone e gettati sulla scarpata della ferrovia. Che tonfo strano facevano quei corpi nel cadere sul terreno e sulla ghiaia ghiacciati. Sembrava di sbattere a terra una lastra di vetro che al contatto di un sasso si spezzava in frantumi. E che forme dantesche avevano assunto quelle rigide salme scheletrite: alcune distese o rannicchiate, altre accovacciate o con la testa fra le mani, chi con gli occhi sbarrati o la bocca aperta; tutte comunque restavano, anche dopo la caduta sulla massicciata, così come la morte le aveva ghermite. Qualche volta, una manciata di pan secco e un pesce salato, da dividere fra gli affamati del vagone, rappresentavano il vitto, la gioia, la speranza dei sopravvissuti. Che lotte bestiali per non restare senza un tocco di quel cibo.
Dopo settimane e settimane, centinaia e centinaia di chilometri, un giorno il treno si fermò. Stazione di Vladimir; si scende, forse siamo arrivati alla meta. Macché, pura illusione! I celoviek, cioè i prigionieri sopravvissuti, una volta scesi dalla tradotta, al fatidico ordine davai bistrà, e dopo la “conta” e la prevista perquisizione, all’aperto ovviamente, ripresero a piedi la marcia verso un altro luogo sperduto nella steppa ghiacciata, molto distante, incontro all’ignoto, a qualche sito che ci avrebbe ospitati in attesa della fine del nostro misero calvario terreno.
Sferzati dalla gelida tormenta, intorpiditi dal freddo, stremati dalla fatica e dalla fame, con la sete però appagata da ripetute manciate di neve colte al volo dal manto che ricopriva la terra, gli uomini ripresero ad arrancare con la forza della disperazione sulla piatta distesa gelata con temperature che destavano sgomento al solo sentirle pronunciare: meno venti, meno trenta e così via. E avanti, sempre avanti finché uno non cadeva in ginocchio o per terra e allora quel martirio cessava al suono lugubre di un colpo di fucile o di una raffica di parabellum32, avanti ancora chilometro dopo chilometro, ore dopo ore incontro al basso orizzonte perché nessuno conosceva né il luogo d’arrivo né quando sarebbe finito quel penoso viandare.
“Dove andiamo, tovarisc? Quanti chilometri dobbiamo ancora percorrere, nacialnik?”
“Nisnaio, davai bistrà”.