Un fulmine ha squarciato il cupo cielo che di solito grava sul Campo 160; oggi tutti i prigionieri, nessuno escluso, sono stati colpiti da un’epidemia di euforia acuta che lascerà il segno nel restante periodo dell’anno in corso, il 1945. I pori della pelle anziché umori sprizzano a getti gioia e letizia; le banche dati situate nelle zone corticali profonde delle ridotte masse cerebrali cancellano con un colpo di spugna e soda caustica i tristi ricordi degli orrori passati, dei sovrumani sacrifici sopportati, degli infiniti soprusi subiti, la fame, la sete, la morte, tutta la vita vissuta negli anni trascorsi in prigionia.
Tabula rasa! Nel lager c’è chi va, chi corre, chi salta, chi canta e chi balla; alcuni vociano come al mercato, altri urlano, qualcuno si abbraccia; non pochi invece, più compostamente emozionati, per un attimo pregano e innalzano preci al Signore, poi anch’essi si tuffano nel bailamme generale che invade il Campo.
Una voce, prima indistinta e anonima, confusa e sommessa anche, poi chiara e ufficiale, tonante, annunzia a tutti che i soldati italiani prigionieri stanno per ricevere l’ordine di rientro in Patria. È il miracolo che si avvera, dunque?
“Ma noi quando partiremo?”, si chiedono i 570 ufficiali dell’Armir scampati al massacro.
“Scaglionano i rientri”, mormora qualcuno bene informato.
Altri, più addentro alle segrete cose, sussurrano che un secondo convoglio sta per essere organizzato per gli ufficiali.
I soliti dubbiosi cronici e gli scettici per allergia si limitano a borbottare “Budiet!” (sarà!).
Per la verità sono pochi gli increduli, molti gli euforici; tutti però sperano che il calvario stia per finire davvero.
Il c.b., che ha già fatto il callo alle fregature, si limita ad esclamare senza eccessivo entusiasmo:
“Facciano pure quello che vogliono, ma se oggi partono realmente i soldati, domani, un domani più o meno vicino dovrà pure arrivare anche per noi, no?”
Se gli italiani sperano, anche i romeni, gli ungheresi, i polacchi, i tedeschi, i sei spagnoli non sono da meno; tutti i prigionieri rinchiusi nel Campo 160 sperano, sperano.
E i soldati partirono; e quel domani, il nostro domani divenne presto un dopodomani e poi si perse nel ricordo lontano.
E i giorni ripresero a trascorrere lenti e monotoni come sempre e le settimane lunghe come i mesi, e i mesi come gli interminabili anni. Passò di fretta la breve estate e poi di nuovo la bianca neve ricoprì la steppa; il freddo vento del nord, il gelido marosc, tornò a nascondere in un turbinio di folate e di tormenta gli uomini, le cose, tutto. I brevi giorni lasciarono spazio alle lunghe, interminabili notti e si affacciò di nuovo la fame di sempre; la opprimente propaganda riprese vigore nel lager e l’indifferenza di pochi e l’acquiescenza di molti appannarono sempre più la luminosa speranza che col trascorrere del tempo senza tempo si affievolì a poco a poco per poi svanire nel niente del nulla.
Oggi non è il dì di San Tommaso il quale credeva soltanto su ciò in cui sbatteva il naso, ma fa lo stesso perché è un giorno che gli assomiglia. Anche i celoviek, sempre increduli e diffidenti, debbono convincersi che i russi stanno diventando un po’ meno incivili di quanto più incivili fossero ieri; cioè che pur rimanendo incivili non peggiorano in inciviltà, ed è già qualcosa. Annunciata da un suono di tromboni, di sproloqui albeggianti sull’Alba, di comunicazioni di servizio e di massa sul giornale murale, di sorrisini biechi suadenti e soddisfatti (mimetizzazione in atto), insomma dalla solita orchestra che ti appanna il cervello e ti rimbomba dentro come il rovinio di una immensa valanga, ecco la strabiliante notizia che sovrasta sul lager e tutto inonda:
“Popolo non proletario ma prigioniero, la magnanimità del piccolo Padre è incommensurabile e la lungimiranza del partito guida infinita; pertanto da oggi potrete comunicare coi vostri cari lontani. La prova di questa promessa? Eccola; una cartolina per ogni celoviek che tramite la Croce Rossa russa raggiungerà le vostre famiglie”.
Madonna santa, dopo tre anni che grazia! Nomenklatura maledetta, cosa è successo per scalfire quel tuo cuore di pietra?
Sia chiaro:
“Sulla cartolina è permesso scrivere solamente frasi telegrafiche di saluto, di buone notizie e brevi, un arrivederci a presto; nient’altro, capito celoviek? La censura straccerà senza riguardi cartoline con accenni sibillini di denigrazione dell’Unione Sovietica, delle conquiste del popolo lavoratore, del partito guida; gli scritti troppo lunghi faranno subire alle vostre missive la stessa fine perché aumentano il peso del cartoncino”.
Giusto, perbacco! In un paese regolato da leggi ferree, dette norme, che disciplinano anche sentimenti, pensieri e cuori (l’anima no perché nei paesi socialisti è andata in pensione da un pezzo), chi sgarra anche sul peso delle mine di grafite delle matite o dell’inchiostro annacquato deve pagare. Il c.b., incredulo, stordito ma felice, con gli occhi sgranati, col cuore in gola e gli orecchi alzati, non perde un minuto e scrive:
Cari genitori, sto benissimo, anzi no, meglio. Salute eccellente; cibo ottimo, abbondante tanto che mai si riesce a finire. Le attenzioni dei compagni russi immense e totali. Siamo liberi, liberissimi e liberati; possiamo festeggiare le nostre sante feste, in particolare Natale, Pasqua e soprattutto le Ceneri. Arrivederci a presto. Un grosso bacione da vostro figlio Bruno.
Fatto! Che emozione, però!
Passano i giorni, le settimane anche, i mesi pure. Ricade il silenzio sulle comunicazioni interfamiliari, torna la solita fame, la noia, l’apatia, la speranza e la rassegnazione. I russi di oggi, meno incivili di quelli di ieri e dei più incivili degli anni passati, ci hanno consegnato una seconda cartolina per comunicare con le nostre famiglie. Robe da non credersi, follie da carnevale; ora questi discendenti gengiskaniani esagerano; per anni nessun mezzo per comunicare, ora in qualche mese addirittura due missive. Se continuiamo di questo passo, tra breve ci permetteranno anche di telegrafare a casa. Potenza del progresso social-proletario o magnanimità del vincitore? Chi mai lo saprà!
Ma in questa immensa parte rossa di mondo la posta parte così spesso e le risposte non arrivano mai? Mistero! Ma poi mica tanto, in un paese così misterioso come la Russia ci è apparsa. E i nostri cari perché non ci inviano un messaggio, almeno due righe ogni tanto, perché?
“Le poste italiane non funzionano più; la guerra le ha distrutte, annientate, imbucate”, cosi spiegano i postelegrafonici nostrani.
“La Croce Rossa Italiana è in tutt’altre faccende affaccendata e gli imperialisti americani non le consentono di esplicare l’opera umanitaria di statuto verso l’Est perché oberata dai mille, grossi problemi che le provengono da Ovest”; così affermano i nuovi funzionari della nomenklatura in gestazione.
Mah! Altro mistero dei misteri che aleggiano su questo misterioso, vasto paese del comunismo reale.
La clessidra del tempo è stata mille volte capovolta e il tempo senza tempo è ugualmente trascorso senza che altra corrispondenza di sorta sia partita, tanto meno arrivata.
Ordine del comandante del lager:
“Le strutture democratiche del Campo si rinnovano e la Kommandantura ha necessità di nuovi spazi; si trasferisce di sede. I prigionieri italiani, ungheresi, romeni, tedeschi qui appresso indicati effettueranno i lavori necessari al trasporto dei mobili, delle suppellettili, soprattutto degli archivi e delle schede” (non elettorali, ma dei prigionieri schedati).
Per diversi giorni ferve il lavoro di trasloco nei nuovi locali.
In un buio stanzone del corpus (caseggiato) viene scoperto da un gruppo di facchini un mare di cartoline della Croce russa scritte dai poveri prigionieri cosmopoliti del lager 160 di Suzdal’. Vigliacchi, maledetti, aguzzini; e tutti, nessuno escluso.
Passano alcune settimane, poi il c.b. viene convocato dall’ufficio politico per un breve colloquio interrelazionario. Il solito trio, circondato però da un certo clima distensivo, l’attende, ma purtroppo l’umore del c.b., dopo la recente vigliaccata delle cartoline e la cocente, beffarda presa in giro subita, non è favorevole a scambi d’idee contrapposte e irrimediabilmente distanti.
Abituato oramai alla prassi colloquiale, il c.b., più simile ad un cane idrofobo che ad un ovino, senza salutare e per primo (il borghese maleducato e ignorante…) chiede:
“Che volete stavolta da me? Io non firmerò niente, non risponderò a niente, non farò niente che non rientri negli obblighi di un prigioniero di guerra catturato da un paese che si dichiara civile. Avete capito bene, compagni? E lei interprete traduca alla lettera, senza togliere o aggiungere altro, inteso?”
“Ascoltami bene”, risponde severo il russo dalle azzurre mostrine, “Tu sei solo un prigioniero di guerra della patria comunista e basta; sei anche un reazionario fascista e imperialista e pertanto non potrai tornare in Italia se prima non aderirai al nostro credo leninista e staliniano. Orbene, te lo ripeto una volta per tutte: se accetterai di andare al Campo 27 di Mosca tornerai in tua patria e sarai nostro amico; niente scuola, niente Italia”.
L’interprete chiede al c.b. se il padre si chiama Gino, la madre Giulia, e se abitano nei pressi di una città che si chiama Pistoia o giù di là. Poi pian piano estrae dalla tasca dei pantaloni (la casacca non ha tasche) uno spiegazzato, inconfondibile cartoncino con stampigliata al centro la croce rossa e con voce imperiosa grugnisce:
“È tua se accetti la proposta del comandante, altrimenti niente; la caccio nel rusco68 ”.
Uno sguardo pieno d’odio colpisce gli occhi del russo, del mezzo russo e dell’assimilato, poi il c.b. urla:
“Sono quattro anni che io non ho più notizie dei miei cari, né loro certamente sanno qualcosa di me, se sono morto o ancora vivo. Ebbene io posso aspettare ancora del tempo e così faranno i miei genitori. Niente nuove, buone nuove. Voi siete i compagni padroni, quindi decidete come meglio vi fa comodo; io intanto non parlerò più; das vidania, tovarisc, das vidania (arrivederci compagni)”.
Che scontro quell’incontro! Che iene, che barbari quei tedeschi, però!69
E il solito tempo continuava a trascorrere veloce nel mondo, lento lento nel Campo. Un bel pomeriggio (anzi no: brutto), lo sfortunato c.b. si ritrovò, come altre volte era successo, solo e soletto e senza compagnia, non ricordo per quale fesseria commessa in dispregio alla zana che nel lager prosperava a tutta via, al buio di una piccola stanzetta ubicata di fianco alla Kommandantura maledetta. Quattro muri disadorni e sbrecciati, un duro tavolaccio al centro, una finestrella con una inferriata che nemmeno un bulldozer avrebbe divelto, una porta sprangata all’esterno e con doppio catenaccio per sicurezza: la prigione del Campo (il giornale la definiva sala di attesa). Freddo e buio dintorno; cimici in avanscoperta a tutte le ore; l’umidità dell’aria e del locale elevata, ma sopportabile per un celoviek abituato a ben peggio. Nel silenzio della cella il c.b. rifletteva sulle miserie e sulle ricchezze delle umane genti; sui santi e i peccatori; sui vertebrati e gli invertebrati; su Francia e Spagna purché se magna; sugli uomini, sui mezzi uomini e così via; in particolare si soffermava sulla famiglia degli anellidi coi rispettivi metameri, lombrichi in fase di riproduzione e di inarrestabile crescita; esseri che la natura provvida ha generato per produrre normalmente letame agricolo, ma che il progresso ha trasformato anche in produttori di concime adatto ad ogni uso e consumo. Il giorno, nell’angusta cella, pareva notte e la notte pure; il tempo non passava mai e si avvertiva la sensazione che si fosse fermato per un improvviso guasto degli ingranaggi che consentono alla terra il giro di rotazione e di rivoluzione insieme. Era permesso soltanto di pensare, di fantasticare, di sognare, nient’altro. Gli argomenti rievocati dal soletto prigioniero, che in genere destavano amarezza nel cuore, erano ogni tanto inframmezzati da ricordi che invece destavano letizia e beatitudine: i piatti, le portate, le vivande, i manicaretti preferiti in un tempo irrimediabilmente lontano ma ancora vivi nelle zone corticali profonde. La felicità scaturita da quei ricordi, oltre alla abbondante salivazione, producevano pure un rilassamento completo del corpo, della psiche e della mente, per il fatto che nessuno contraddiceva o disturbava la rievocazione del piatto prelibato, cosa questa che mai avveniva in compagnia di altri celoviek.
“Un bel piatto, anzi un vassoio di tortelloni alla montanara con il ripieno di ricotta di pecora e di sugo a badilate”, diceva un Tizio.
“Ma no! Non vorrai mica mettere a confronto quella paccottiglia con una teiera piena di duecento tortellini affogati nel brodo di cappone e soffocati da un paio di chili di parmigiano grattugiato?”, rispondeva Caio.
“Roba da matti! E le lasagne allora? Dove le mettete le lasagne, burini!”, obiettava un terzo.
“Sì, son buone anche quelle, ma volete anteporle alle pappardelle alla lepre?”, vociava dal fondo della stanza un isolato.
“Bestioni! Si sente che non avete mai mangiato gli spaghetti alle vongole”, borbottava un anonimo dal folto del gruppo.
Mangiapane, polenton, terun, milanese, crucco, tuscan, era il coro finale alle ricette elencate e così, per ore ed ore, fino alla nausea andava avanti il duello mangereccio; tanto non c’era altro da fare. Quando poi l’elencazione dei cibi paesani o cittadini era terminata, saltava sempre su un silenzioso regionale, ignorato, che con voce tendenziosa tentava di riaprire il dialogo gettando all’aria microbi cibari e rifarsi in tal modo del mancato intervento sopraffatto dagli affezionati alle tradizioni locali:
“Io rinuncerei a tutto quel porcaio che avete elencato se potessi avere una secchia ripiena di pasta e fagioli con tante cotiche di maiale alte come la cinghia del cinturone”.
Un eco indistinto gli rispondeva:
“O gentaglia, e la polenta con gli osei ve la siete scordata, morti di fame?”
Beato, soddisfatto, con la bocca piena di saliva il c.b. faceva piazza pulita di una scodella di tortelloni e si apprestava a trangugiare un intero spiedo, lungo come un giavellotto, di arrosto alla cacciatora: un tordo e un crostino, due foglie di salvia e un lardello alternantisi all’infinito. Estasiato, ma non sazio, dimenticava anche il duro del tavolaccio; se ne ricordava solo nella fase agitatoria che il succulento arrosto gli procurava e quando, nel girarsi sul fianco, le ossa del bacino prive di adipe e ricoperte solo dalla pelle squamosa e incartapecorita per avitaminosi cronica, sbattevano contro il duro legno.
La solita vita senza senso e direzione scorre coi ritmi di sempre nel lager di Suzdal’. Un tiepido, timoroso sole ci annuncia che la fredda, uggiosa invernata, la quarta, sta per finire. Siamo nel mese di aprile e “di acqua ogni dì un barile”, come recita un proverbio minorile. “Se a maggio rasserena, avrem la spiga piena” (ma a noi che ci interessa?). Noi, invece che di vecchi proverbi, siam pieni solo di norme e di crauti con contorno di ortiche. Avanti pure; resistere bisogna! Oggi è un altro inutile, tedioso giorno come quello di ieri che era uguale a quello dell’altro ieri e sarà simile al giorno di domani e dopo; più che vivere si vegeta, ma si tira innanzi ugualmente, sorretti da una flebile, ma incrollabile speranza di un tempo migliore.