Da Suzdal’, duecento chilometri a nord est di Mosca, a Odessa, sul mar Nero, la prima tappa del nostro lungo viaggio di ritorno in Patria; chilometri a migliaia. Sdraiati sui pianali dei carri merci, al buio, con le porte sprangate dal di fuori, con una grande stanchezza in corpo ma tanta gioia in cuore, i celoviek sopportarono tutti i disagi del viaggio pur di andare ogni giorno di più verso il traguardo finale: la nostra terra, l’Italia.
Ogni tanto il treno si fermava in aperta campagna o alla periferia di stazioncine sconosciute e le soste ci consentivano un po’ di riposo, qualche passo lungo i binari sotto la sorveglianza delle guardie russe coi mitra spianati, il soddisfacimento dei bisogni corporali che, caso strano, proprio perché svolti in aperta campagna, singolarmente e non in gruppi come nel lager, ti davano sia un benessere fisico che psichico. Giorno dopo giorno, settimane dopo settimane pure, ecco apparire infine una grande città: Odessa.
Poi s’intravede il mare azzurro, il cielo terso e sereno, il sole, le navi; bello, tutto bellissimo, anche il brutto. Scesi dal treno in una fermata di periferia della grande città, dopo la conta e la riconta d’obbligo, di nuovo si formò una lunga colonna che riprese il cammino verso il luogo, ignoto, del temporaneo soggiorno di Odessa.
L’accantonamento, distante circa una ventina di chilometri, fu affrontato dai celoviek con la solita rassegnazione abituale e con tutte le forze della disperazione (non troppe per la verità) che la lunga prigionia e le ortiche avevano conservato loro. Quante ore di marcia, quanti chilometri col solito cavallo di San Francesco, a piedi, dovettero percorrere gli spaesati viandanti non più abituati ai lunghi percorsi con l’orizzonte infinito e non più con il solito francobollo di cielo!
“Tovarisc, scolki kilometr ancora?”
Solito ritornello di sempre:
“Nis naio, davai bistrà!”
Pareva di essere piombati di nuovo nelle bestiali marce del davai di dantesca memoria. Caldo, afa, sole, polvere a chili, sete da deserto infuocato, piedi doloranti, fatica tremenda, incedere traballante ci tennero compagnia lungo la strada di terra battuta che aveva il solo difetto di non finire mai. Alcune soste per riprendere fiato e consentire a tutti di resistere e di rientrare nella sbandata colonna che diventava sempre più lunga man mano che la fatica aumentava.
“Se hanno deciso di farci rientrare in Italia a piedi, fra un decennio ci arriveremo e con gli arti inferiori consumati a metà; ma pur di uscire da questo rosso paese va bene lo stesso”, si sussurravano i celoviek per farsi coraggio e resistere.
La marcia terminò con l’ingresso in un povero quartiere di periferia, meta del nostro peregrinare; arrivati, finalmente! Ci sdraiammo per terra sotto gli alberi di quella angusta piazza assolata, un poco appartata, e nei luoghi in cui il terreno sembrava più soffice per la presenza di qualche filo d’erba. E lì beati ci addormentammo vinti dalla stanchezza e dal sonno.
Al mattino, alla sveglia, la maggior parte dei prigionieri era sparita. Mamma mia che disastro! Il comandante e le guardie parevano impazziti e il terrore della Siberia si leggeva sulle loro facce. Ma dove erano finiti quei morti di fame incoscienti? Alle prime luci dell’alba, furtivi, a piccoli gruppetti, silenziosi come le ombre, sfuggendo all’attenzione delle sentinelle (anch’esse, molte, sedute in braccio a Morfeo), i celoviek erano scappati verso il mare che si vedeva in lontananza, a sguazzare nelle onde che si infrangevano sulla battigia. Che sollievo per i piedi, che gioia ritornare fanciulli!
“Via tutti e alla piazza”, accompagnati dai soliti gridi d’incitamento e dagli abituali spintoni di accelerazione.
Poi grave rimbrotto del comandante e severa ramanzina pure:
“Ricordatevi che siete ancora nostri prigionieri e vale tutt’ora la legge di guerra”.
Fummo sistemati in un vecchio caseggiato di un Campo cosiddetto di smistamento dove (che pena, gente!) esseri umani di varie nazionalità - deportati dai paesi baltici, ucraini, collaboratori reazionari, prigionieri politici e di guerra, famiglie intere con donne, bambini, lattanti, sofferenti e ammalati, persone abbrutite e sottoposte ai più malvagi trattamenti e a violenze di ogni genere - attendevano inebetiti e rassegnati, da lungo tempo ormai, un domani migliore, o forse peggiore dell’oggi. Che strazio, che vergogna vedere tanta gente, in un paese cosiddetto civile ma di una inciviltà unica al mondo, trattata quasi peggio di noi; che dolore!
Stravaccati su un tavolaccio lercio, duro e puzzolente, ammucchiati come le sardine, affamati pure, soprattutto stremati e frastornati da tutte le strabilianti novità degli ultimi giorni, ci addormentammo come ghiri in letargo.
Ci risvegliammo però dopo poco, infastiditi da un tormento indicibile che pareva richiamare alla mente l’irresistibile prurito dei pidocchi proletari di Suzdal’, nel gennaio del 1943. Un tormento che non si riesce a sopportare, che ti scuote e ti assilla, ti annienta e ti rende furioso. Sciami di cimici affamate, che emanavano un fetore tremendo, assetate pure, ma di sangue, ci strisciavano addosso come le mosche sui cadaveri. Dio che supplizio! Ne ammazzavi una e subito altre prendevano il suo posto, a decine, dappertutto, anche sulla testa. Ad ogni morso di quei maledetti parassiti un grosso gonfiore nasceva sulla pelle arrossata e un prurito feroce ti costringeva a grattarti fino allo scorticamento dell’epidermide. Dopo alcuni giorni di grida, di insulti, di sciopero della fame completo, di maledizioni irripetibili, il comandante ci trasferì da quel cimiciaio cimicioso in un caseggiato più decente e più salubre, locale un tempo adibito a sanatorio ed ora nostro ostello.
La permanenza nella città marina si protrae un po’ troppo a lungo; pare interminabile e desta alcune apprensioni che smorzano in parte l’euforia del momento. Perché poi non si riparta per riprendere la corsa ad occidente, Dio solo lo sa; speriamo bene, visto che siamo in Russia.
Il c.b. sempre diffidente e dubbioso, con quel chiodo fisso piantato in testa - niet firmare niet Italia - non sa trovare una spiegazione logica alla prolungata sosta e rinuncia a formulare ipotesi per giustificarla in quanto le forme del ragionamento condotto con rigore scientifico qua non valgono. È pure tempo perso chiedere alle guardie che ci accompagnano notizie in merito; nessuno mai ha dato una risposta anche su banali domande; solo: Nis naio, davai bistrà (non so niente, avanti).
Un gruppetto di prigionieri, ricchi di vasta fantasia, ritengono che il ritardo sia imputabile alla mancanza di una tradotta formata da vagoni con gli assali più stretti, idonei cioè a correre sulle strade ferrate della Romania, dell’Ungheria o dell’Austria, nazioni che hanno ferrovie con scartamento ridotto rispetto a quello russo. Altri, dotati di raziocinio progressista, ritengono invece che il soggiorno ad Odessa si prolunghi perché le autorità russe stanno studiando gli orari ferroviari e le relative coincidenze dei treni internazionali al fine di eliminare soste prolungate in chissà quanti altri luoghi del lungo percorso che ancora ci resta da compiere, evitandoci in tal modo strapazzi ed arrangiamenti di fortuna non degni di prigionieri che stanno per rientrare in Patria. Signore Iddio, che riguardi ora! Molti invece, i soliti ambientalisti, pensano con più prammatico ragionamento, che la nomenklatura russa abbia impartito l’ordine ai nostri guardiani di rispedirci in Italia solo quando il colorito della nostra pelle, al momento bianco smorto con sfumature giallastre, non sia divenuto bruno olivastro e la tiroide ritornata a valori decenti di iodio. Del resto è notorio a tutti, anche ai dirigenti del popolo, kolkosiani e mugiki esclusi, che i convalescenti e gli ammalati traggono benefici non indifferenti dall’aria salubre di mare.
“Sarà”, borbotta tra sé l’insofferente c.b. e, pur speranzoso, teme sempre l’imprevedibilità delle mostrine azzurre, l’umore mutevole dei russi, il fine di ogni azione mai lasciata al caso.
“Sta a vedere che quella vocina sul referendum monarchia/repubblica non è poi tanto fantastica e peregrina, comunque speriamo in bene”, si sussurrano a vicenda nel gruppo dei reazionari incalliti.
D’altronde, bisogna pure ammetterlo, questi democratici progressisti un pochetto di ragione l’avrebbero se il motivo della sosta fosse il referendum. Infatti, non essendo certi (meglio: diffidando) che i prigionieri rientrati in Patria, soprattutto nel segreto delle urne clerical-fasciste, come s’usa nei regimi a democrazia non partecipativa, votino per la repubblica popolare che i migliori peggiori stanno per costruire in Italia (occupata e soggiogata dalle forze imperialiste americane e Alleate, così si sussurra in giro), meglio non correre rischi, star sul sicuro e fare rientrare i prigionieri a cose fatte.
Ma per fortuna queste considerazioni sono soltanto maldicenze di radio-gavetta e nulla più. Una cosa è certa però: la sosta a Odessa è lunga, troppo lunga, e se per caso i celoviek in mano dei russi rientreranno in Italia (come poi avvenne) dopo il referendum la colpa sarà solo degli americani che vogliono anticipare la consultazione popolare e non dei russi che sono costretti a ritardare il rientro dei prigionieri perché non iscritti nelle liste elettorali. I rieducati sono sicuri di ciò e siccome sono sempre bene informati e conoscono solo verità rivelate, vuol dire che è proprio così e basta.
La sorveglianza nel Campo che ci ospita pare stranamente diminuita; la vita, se non fosse assillata dalla impaziente attesa e dai dubbi che ogni giorno di più crescono, non sarebbe poi malvagia come per il passato. Anche la fame, col vitto migliorato, è più sopportabile. In compenso sono aumentati i discorsi, la solita opera di convincimento al nuovo ordine che va instaurandosi nel mondo per combattere i plutocrati imperialisti borghesi; le ricorrenti, accese discussioni tra i vari gruppi di opposte tendenze; le diatribe violente tra credenti e atei. Ozio, riposo, inedia riempiono i giorni che passano invano. Noiose le laudi al popolo lavoratore di alcuni mistici; non rare le preci al Signore spontanee e favorite dai cari cappellani; molti che ricordano e benedicendo maledicono; tutto qui.
Per la verità c’è anche un gruppetto, pochi, che occupano mente e intelletto, ragione e fede in qualcosa di impensabile e di temerario, pratico però, ricco di rinnovato interesse alla vita, tanto da occupare il pensiero anche di notte. Odessa, città di mare; il porto e le navi, il cielo e l’orizzonte infiniti, la Stella Polare e il Gran Carro col piccolo pure e la Patria, l’Italia a due passi da qui. Inoltre dintorno non si vede la gelida e immensa steppa ghiacciata, né si sente ululare il freddo vento che viene dal nord, il marosc, che ti paralizza le membra e ti ghiaccia il sangue. Si vedono in giro facce diverse e si odono anche idiomi di altre nazioni e la libertà non appare più come un sogno pazzesco, irraggiungibile, utopistico; la libertà è a portata di mano.
Il c.b. e i pochi amici per la pelle, dopo aver pensato, ripensato e ancora pensato, decidono di fare una sortita dal Campo per raggiungere il porto, una nave, un sogno. Calcoli e calcoli e studi, per giorni e nottate, di astronomia, di toponomastica, di topografia, di fantasticheria anche e lunghe, isolate soste con occhiate infinite, dai luoghi più isolati del Campo, verso oriente e occidente, nord e sud. Sono già familiari la direzione del vento e della brezza, l’odore del mare, il silenzio dell’acqua, le vie non illuminate che si intersecano dintorno, la zona del porto, le sagome di alcune grandi navi ancorate ad un molo; tutto insomma ciò che interessa è arcinoto ai novelli esploratori e dibattuto a iosa.
Otto pezzetti di un piccolo ramoscello vengono tenuti da un celoviek ben stretti in un palmo piegato di una mano. Sono tutti di misura diversa ma fuoriescono alla pari. I due più corti sorteggeranno chi dovrà tentare la sortita. La scelta, per volere del fato e non degli uomini, cade sul c.b. e sul fraterno amico pure bersagliere.
Due giorni di digiuno (che faticaccia) fruttano un po’ di viveri di riserva; la giacca, col tepore frizzantino della brezza marina, non è indispensabile; le scarpe, slacciate, possono essere tolte dai piedi con un leggero calcio a vuoto. La notte è buia, il cielo pieno di stelle, il silenzio profondo, le guardie o addormentate o in libera uscita; qualcuna più che vigilare sonnecchia in piedi e cammina avanti e indietro a zig-zag, come un ubriaco. Via, allora, e das vidania a tutti!
Si racconta ancor oggi in Italia che un ufficiale del Gruppo Aquile72 riuscisse a consegnare ad un marinaio di un mercantile francese, ormeggiato nel porto di Odessa, un biglietto con un elenco, e relativi indirizzi, di alcuni prigionieri di guerra catturati dai russi sul fronte del Don nel lontano 1942 e ancor vivi e vegeti nella città sul mar Nero nella primavera del ‘46. Il tenente Pucci Egidio, un caro amico toscano, pure lui ufficiale del 3° Bersaglieri e prigioniero a Suzdal’, ne sa molto di più su questo episodio sconosciuto alla quasi totalità dei celoviek. Quel marinaio, raro esempio di solidarietà umana, rientrato in Francia riuscì a far sapere ai familiari che quel gruppetto di prigionieri elencati nel messaggio si trovavano in buone condizioni ad Odessa, in attesa di essere rimpatriati. Anche i genitori del c.b. furono avvertiti dal postino marino e ritornarono a sperare di rivedere un giorno il figlio prigioniero.
L’insofferente c.b., pur avendo usufruito dopo quasi cinque anni di un mezzo di comunicazione speciale per dar notizie alla famiglia (alle cartoline della Croce Rossa comunista meglio non far riferimento per evitare travasi di fiele), volle realizzare, sempre in compagnia del collega bersagliere e dell’amico alpino, qualcosa di più. Affascinato dal risultato ottenuto da quella prima sortita dal Campo, la mente fu per diversi giorni occupata da un altro progetto che annullava ogni altro pensiero. Alcune centinaia di metri di distanza separavano l’osservatorio dalla zona del porto, peraltro non troppo affollata; da quel luogo si distinguevano chiaramente la sagoma inconfondibile di una grossa nave da trasporto, alta come una collina, ormeggiata al molo, e di fianco allo scafo una scaletta obliqua che da terra raggiungeva il boccaporto del castello di prora. Una grossa catena penzolava da un oblò della prua e si perdeva nell’acqua; forse sorreggeva la grossa ancora. Soltanto a momenti si udivano brusii e mormorii ovattati e distinti; si notava il giallognolo delle acque immobili confondersi, man mano che scendevano le tenebre, col buio della notte; nient’altro. Il mare, il cielo, la libertà, l’Italia, la famiglia, erano a un passo da noi, o quasi.
- Se mi avvicino pian piano alla zona del porto, poi spicco una corsetta alla bersagliera - pensò tra sé il c.b. - in un battibaleno attraverso lo spiazzo che mi separa dalla nave, salgo a due a due gli scalini e in un minuto sono su quel barcone. Troverò bene un buco per nascondermi su quella enorme casa galleggiante, e anche se i marinai dovessero scoprirmi, visto che hanno dimostrato di essere brava gente accettando il nostro messaggio, tutt’al più mi faranno discendere ma non mi consegneranno certo ai russi.
L’ipotesi e il piano sono logici; sì, vale la pena di osare. L’amico bersagliere è del parere che l’impresa debba essere tentata uno alla volta, per far meglio digerire ai francesi il boccone pericoloso; poi, se tutto andrà bene, la notte dopo sarà il turno del secondo. D’accordo e per tante ragioni.
Scende la notte e arriva il momento fatidico. Un abbraccio e via per lo scosceso sentiero. Poi una guardinga ed ansiosa marcia di avvicinamento, una veloce corsa sul piazzale del molo ed ecco la scala; quindici, venti gradini in ferro saliti a saetta, il fiato in gola, il cuore a duecento pulsazioni al minuto e infine il c.b. si ritrova davanti al parapetto della nave. - Boia di un Peppe, t’ho fregato!
Ma un fitto parlottare e in lingue diverse, di cui una notissima, arresta di colpo il proseguire e smorza l’entusiasmo dell’evaso. Sbirciando con somma cautela, il c.b. fuggitivo scorge a qualche metro di distanza, al di là del grosso canapo che funge da porta d’ingresso al ponte, tre soldati russi e due marinai francesi che stanno fumando e parlottano tra loro più a gesti che a parole; comunque riescono a capirsi perché ogni tanto i discorsi sono interrotti da sonore risate.
- Che scalogna! Che iella! Boia di un Peppone, mi hai rifregato! - mormora a se stesso il c.b.; - Se tento di scavalcare quel grosso canapo e passo oltre mi vedono senza dubbio e mi beccano.
A marcia indietro, ridiscendendo le scale tenendosi ben saldo al cavo laterale che fa da corrimano, lo scoraggiato neoclandestino fuori bordo poggia i piedi nudi sui lastroni del molo; calza le scarpe che aveva appeso al collo coi laccetti per non fare rumore, riattraversa il piazzale e tenta la via del ritorno al Campo risalendo il declivio che aveva disceso con orgogliosa sicurezza.
Il chiarore dell’alba comincia a fugare le tenebre. Il c.b. riesce, non visto, a rientrare in sede; poi, sudato come un bue che ara nei campi e bagnato come un castoro, stanco come un barbone dopo un giorno di vagabondaggio, si sdraia sul duro giaciglio e dopo un poco russa come un ghiro, e per l’intera giornata. Nel sogno, almeno sognando, sbarca a Marsiglia, fa un salto a Parigi e visita la piazza dove nel 1789 la liberté, la fraternité, l’égalité nacquero ed emigrarono per il mondo in modo che ogni uomo prendesse coscienza di sé e tutti i popoli dessero inizio ad una nuova era di libertà e di giustizia, fatte salve le rare eccezioni che in genere confermano la regola; proprio come poi doveva accadere nell’ottobre del 1917 in Russia, che interpretò quelle magiche parole rivolte ad una sola parte del popolo, cioè la nomenklatura, e non al popolo tutto che come tutto conta niente, cioè meno della parte che costituisce il tutto e che invece conta parecchio, anzi tutto.
I soliti maligni, alla domanda: “Ma perché le sentinelle russe non facevano la guardia sul molo o non si trovavano ai piedi della scaletta, bensì sulla nave?”, rispondevano: “Non certo per evitare ai compagni russi di scappare dal libero paese socialista, pressoché impossibile, ma per impedire ai marinai francesi di scendere a terra, sul suolo della grande madre russa ed ascoltare così dalla viva voce dei compagni proletari le meraviglie della patria socialista e vedere con gli occhi le grandi conquiste del popolo lavoratore”. Probabilmente il vero motivo era ben altro: quei soldati desideravano mettere i piedi sulla nave francese, su qualsiasi nave dell’Occidente miserevole per sentirsi, almeno per un’ora, liberi e non soffocati da quella feroce dittatura che fuori li opprimeva come una cappa di piombo e, infine, per poter poi raccontare ai figli o ai nipoti, un giorno più o meno lontano, di aver vissuto per alcuni momenti sul suolo di un vituperato paese imperialista e borghese.
Mentre la riabilitazione fisica e culturale prosegue di gran lena, l’ozio, che è il padre dei vizi, smorza l’attività creatrice degli insofferenti celoviek e rende l’attesa della partenza insopportabile e snervante.