L'istruzione correttiva

    L’otto dicembre ci fu il grande raduno dei carcerati di Yutze. Eravamo millecinquecento. Ci fecero sedere sul ghiaccio dalle dieci del mattino alle tre e mezzo pomeridiane per farci ascoltare l’istruzione correttiva. Un centinaio di poliziotti ci cingevano come una siepe con le baionette puntate. Il tormento fu orribile. Credevo di morire. Quando ci fecero rialzare, alcuni ricaddero a terra sfiniti. Durante l’istruzione ad alcuni venne aumentata la detenzione per infrazione commessa in carcere; altri vennero citati al merito per aver lavorato a tutta lena e per aver denunciato le infrazioni altrui. Verso Natale le mie condizioni di salute divennero preoccupanti. Non riuscivo più a tenermi in piedi, e sentivo prossimo il collasso finale. I carcerieri non vollero o finsero di non accorgersi. Chiesi loro che mi fucilassero piuttosto di farmi patire in tal modo. Mi risposero che il regime progressista non è solito fucilare nessuno, senza aver prima lasciato un certo tempo di resipiscenza all'imputato. «Qui non si fa come presso voialtri imperialisti; qui non si uccidono gli uomini alla cieca. Le vostre prigioni sono luoghi di vendetta, mentre le nostre sono scuole di riforma dei carcerati». Se tutti quei milioni di cinesi detenuti e se tutti gli altri milioni di cinesi massacrati dal regime comunista potessero farsi avanti e parlare liberamente si conoscerebbe l'inferno delle galere comuniste. Comunque mi cambiarono trattamento consentendomi di comprare ogni giorno due pani o crescentelle azzime di circa tre etti complessivi e di fare giornalmente un po’ di moto. Potei così resistere e vivacchiare. Intanto essi non mancavano di farmi osservare la loro premura per me: «Guarda che ora non c'è più la razione del pane neppure per il popolo — mi disse un giorno il carceriere — invece a te vien comprata, con tanta nostra fatica, dovendo aspettare nella fila sino a quattro o cinque ore, tutti i giorni. Per te, capisci? Dovrebbe essere questa una ragione di più per deciderti finalmente nell'opera di riforma!». Io non davo risposta. Pensavo che se si fa tanta fatica per comprarmi due pezzi di pane azzimo, non dovrebbe essere ascritto a merito del regime comunista; ma piuttosto a suo discapito e disonore per essere caduti in tanta miseria nonostante le continue promesse di fabbricare il paradiso terrestre. Riformarmi? Solo per la briga che si prendono di farmi patire in questo carcere? Mi mettano piuttosto in libertà che mi arrenderò da me stesso. Il secondino Cianh N. N. ogni tanto si lasciava prendere dal nervoso ed imprecava: «Ho combattuto quindici anni per mangiare questa sbobba? Siano maledetti i gerarchi e tutti i loro antenati a diciotto generazioni!». Per il Capodanno ci diedero due scodelle di riso col sugo. Fu un avvenimento. Tutti i carcerati furono riuniti in conferenza ed ognuno dovè parlare, effondendosi in elogi verso la bontà del governo che trattava così benevolmente «questa masnada di delinquenti». «Solo sotto il regime comunista — ha detto un carcerato — i detenuti hanno la fortuna di passare un degno Capodanno. Siamone grati ed affrettiamo la nostra riforma!»: Certamente che dopo il lungo obbrobrio di quelle sbobe quotidiane a base di miglio, avena e saggina, due scodelle di riso sembravano un lauto pranzo. La notte fra l’8 e il 9 gennaio fui interrogato per sei ore continue dal capo della polizia Cjao e dai suoi funzionari. Inquisirono ancora sulla Legione di Maria e poi vollero sapere perché i giapponesi, in seguito a mie petizioni, scarcerarono tanti detenuti. Io rispondevo costantemente che, data la mia nazionalità e la mia professione, essi si fidavano di me. Ma quelli insistevano sul caso di spionaggio, essendo impossibile — secondo loro — che i giapponesi mi facessero tanti favori senza una contropartita. Dopo tante insinuazioni e mie recise risposte, mi stancai tanto che alla fine scattai dicendo loro che non mi importava di morire e che, se si aspettavano da me una falsa autoaccusa, avrebbero fatto meglio a risparmiare tempo e fatica. «Allora tu non pensi più ai tuoi genitori? — disse uno di loro mellifluamente — Sei diventato così degenerato da non voler dare ai tuoi vecchi neppure la consolazione di rivederti? Pensa che la tua ostinazione è proprio il grande impedimento al tuo ritorno in patria. Se tuo padre e tua madre fossero qui, anch'essi ti condannerebbero. Se tu confessassi i tuoi delitti, e riconoscessi che la Legione di Maria è reazionaria, se non altro perché si contrappone al materialismo, allora noi ti rimpatrieremmo pagandoti anche le spese del viaggio».
    Era ripugnante sentire parlare così proprio da coloro che disconoscono l'amor filiale, ed ora vorrebbero indurmi a mentire facendo leva su quel sentimento. Mi venne addosso tanta agitazione che incominciai a piangere e a rispondere gridando, tanto che essi dovettero esortarmi più volte alla calma. Mi sfogai urlando: «Siete proprio voi che mi impedite di rivedere i miei cari, siete proprio voi che commettete questo delitto verso i genitori di quel figlio che ha fatto tanti benefici verso il vostro popolo! E poi mi meraviglio che osiate asserire che la Legione di Maria sia reazionaria solo perché non professa il materialismo! Allora come spiegate gli articoli della vostra legge che dicono di garantire la libertà di religione?». Uno d'essi riprese serio serio: «Sappi che materialismo, comunismo e governo sono tutt'uno». E concluse rimproverandomi la mia insufficiente educazione progressista. Infine mi preavvisò che avrei dovuto subire un corso di istruzioni e di indottrinamento, dopo cui il governo prenderebbe le misure del caso. Ritornai in cella e per tre giorni non feci che scrivere le impressioni sull’interrogatorio. Ero stanco sfinito.
    L’undici gennaio incominciò il corso di istruzione invernale. Le conferenze cominciarono alle sette del mattino, per essere interrotte al primo pasto, verso le nove, e ricominciare subito fino alle due e mezzo pomeridiane. Dopo il secondo pasto, che era anche l'ultimo, ricominciava l'istruzione fino alle nove di sera: ora di coricarsi. Stavamo tutti seduti per terra, pigiati come sardine, dentro una stanza annerita dal fumo di un fornello a carbone; fumo che col suo puzzo soffocante ci distoglieva un poco la mente da vari altri guai e dolori. Eravamo circa un’ottantina. Si trattava di biasimare la vecchia società con tutti i suoi principi, usi e costumi. Si doveva riconoscere che i principi della vecchia società sono stati causa di tutti i mali. Si doveva svolgere e stabilire nella mente di ognuno l'idea del lavoro, perché appunto con l'idea del lavoro si ha il moto e l'indirizzo all'opera. Ognuno si doveva esaminare, fare l'autocritica pubblica e manifestare i suoi progetti di riforma. Infine veniva scatenata la mutua critica per cui ognuno doveva sottoporsi al biasimo di tutti. Su questi argomenti si fece una tiritera di ben circa quattro mesi. Guai a chi non stava attento, o si muoveva, o dormicchiava. Era impressionante vedere come si scagliavano l’uno contro l'altro, di modo che non rimaneva nascosto nulla, neppure la più piccola inezia di parole e di infrazioni, alle quali davano sempre un’interpretazione maliziosa. Dopo l'autocritica i detenuti erano chiamati a fare la critica. Io solo venivo lasciato indisturbato e considerato piuttosto come spettatore. Pochissime volte parlai quando vedevo che l’argomento si prestava e non mi comprometteva in nessun modo. Sarebbe troppo lungo riferire tutto quello che si è detto in centoventi giorni, dieci o dodici ore al giorno, da circa ottanta elementi. Ma si può riassumere così: «La vecchia società era viziata perché c'era una classe di persone che non lavorava. Questa classe voleva vivere, e per vivere sfruttare quelli che lavoravano. Siccome lo sfruttare il lavoratore rendeva più che il lavorare, ne è venuto di conseguenza che gli sfruttatori erano ricchi e gozzovigliavano, mentre i lavoratori dovevano vivere nella miseria e soffrire la fame. Ora il popolo, guidato dal comunismo ed educato sul principio che chi lavora mangia, ha scosso il giogo dei capitalisti ed ha trovato la sua dignità ed il pane. Noi siamo vittime della vecchia società. Il suo veleno ci ha corrotti. Abbiamo bisogno di essere rieducati e di ricostruirci e di rinnovarci attraverso il lavoro. Il governo ci tiene in carcere e ci costringe al lavoro appunto per questo, cioè per farci diventare degni della nuova società, e ridarci in seno poi al popolo dal quale siamo stati rigettati. Il governo ci tratta come un padre tratterebbe un figlio ribelle. Il governo è il nostro padre in cui dobbiamo sempre confidare». A forza di ripetere per settimane la stessa filastrocca, su quell'ammasso di visi sbiancati e macilenti apparirono evidenti i segni di stanchezza e può anche darsi che dentro quei crani posti su quei tronchi raggomitolati per terra ed insaccati nei loro stracci, sia rimasto qualche cosa della dottrina della nuova società. Ma l'inconveniente era la stridente contraddizione esistente nella realtà. La mente, infatti, andava divagando su quel po’ po’ di burocrazia comunista: gerarchi, poliziotti senza numero, funzionari, controllori, propagandisti, istruttori, incettatori del governo, raccoglitori, agenti cooperativisti, capi azienda, carcerieri e mille altri prezzolati vagabondi. Chi mangia il fiore della farina? Chi si prende il lusso di buone pietanze e di bei vestiti, se non quelli che non lavorano ed hanno il mestolo in mano? Ma peggio fu quando durante la mutua critica alcuni perdettero la pazienza e, quasi trasognando, osarono dire quel che pensavano nel fondo della loro coscienza. «Io ho sempre lavorato — disse un povero diavolo tutto d'un fiato — e siccome col mio lavoro sono riuscito a racimolare il sufficiente per star bene, ecco che gli invidiosi mi hanno accusato ed ora giaccio in questa prigione». Ebbe appena il tempo di dirlo che intervenne il carceriere istruttore con una severa sgridata e dopo qualche giorno si seppe che a quel tale erano stati inflitti altri tre anni di carcere perché aveva dato segni di non essersi riformato.