Don Domenico Gianni

Una vittima della cecità umana

foto Don DOMENICO GIANNI

  Di anni 36; oriundo della Diocesi di San Sepolcro; ordinato sacerdote a Bologna dal Card. Nasalli Rocca nel 1938, fu inviato quale sostituto a S. Vitale di Reno di cui divenne Parroco il 30 novembre 1938. Cappellano Militare durante la guerra in Jugoslavia, fu ucciso a S. Vitale di Reno il 24 aprile 1945.

  C'è nell'uomo un fondo di insana inclinazione al male che lo avvilisce fino ad attentare alla vita altrui per sfogo di rancori personali o, peggio ancora, per vendette a sfondo politico. La risultante è il più mostruoso dei delitti. Come il buon senso degli italiani si sentì fremere all'annuncio dell'uccisione di Giacomo Matteotti e di don Minzoni, così noi ci siamo ribellati all'annuncio della uccisione di tanti sacerdoti, soppressi quasi tutti per odio di parte, dopo la liberazione di Bologna del 21 aprile 1945.
  Ricordo che in tal giorno un operaio, anziano e nerboruto, fermò rudemente un sacerdote per via Urbana e, mentre tutti si impazziva per la libertà finalmente raggiunta, gli piantò un dito sul petto:
  — Ohe!, reverendo, come la mettiamo? — gli sghignazzò in bolognese.
  — Cosa intendete dire? — rispose il sacerdote interdetto. — Mi pare che la mettiamo bene! C'è la libertà per tutti! —
  — Beh! state attenti voi preti: che vi possiamo far la pelle! — e se ne andò ancor più ributtante.
  È un fatto insignificante, ma che dimostra una mentalità preconcetta, un atteggiamento già inizialmente ostile al sacerdote, solo perchè sacerdote. Erano appena poche ore che i tedeschi avevano sloggiato dalla città. E come quell'anonimo operaio molti italiani non hanno capito quale uso si deve fare della libertà se fin dal principio ne hanno abusato. Intendendo la libertà per il diritto di stroncare i nemici politici, anche sopprimendoli, instauravano la intolleranza politica: e l'intolleranza non è libertà.
  Ho presente ancora una scena della liberazione a Porta S. Mamolo.
  Sul muretto innalzato dai tedeschi a difesa dello «Sperzone». un giovanotto ha issato una fiammante bandiera rossa che ondeggia sulle «jeep» degli alleati in transito. Un ufficiale americano ferma la macchina accanto alla bandiera, si alza, la toglie dal suo sostegno e vi sostituisce uno sgargiante tricolore che garrisce festoso nel sole; poi si volge alla, folla che si è ammutolita:
  — Questa vostra bandiera!
  I numerosi presenti si guardano in faccia in silenzio, poi qua e là si innalza un applauso che si trascina dietro il consenso della maggioranza.
  Sì, quella era ed è la nostra bandiera; e quella sola dovevamo e dobbiamo porre in alto nella ricerca di quella unità di pensiero, di concordia di spiriti che ci cavi dall'abisso della nostra rovina. È un errore che ha fatali conseguenze il far precedere il vessillo di parte al simbolo nazionale. Noi la pensavamo così e avremmo giurato che gli italiani tutti l'avrebbero così intesa. Invece molti si buttarono ciecamente alla ricerca dei loro presunti nemici o avversari e, approfittando del periodo di disordine nel trapasso dell'autorità, quando faceva difetto il controllo della legge, hanno operato vendette personali o politiche, colpendo spesso persone innocenti.
  Così è avvenuto all'Arciprete di S. Vitale di Reno, don Domenico Gianni.
  Anch'egli era fiducioso nella bontà dell'uomo, e quando il 22 aprile gli giunse la notizia che ormai anche la sua parrocchia era finalmente sgombra dai tedeschi, nel pomeriggio inforcò la sua bicicletta e volle partire per giungere almeno a fare la funzione della sera nella sua chiesa.
  Mons. Ivo Bottacci, che l'aveva avuto valido aiutante, come Cappellano militare, nel periodo di guerra fino al settembre 1943. lo dissuase ad esporsi ad una reazione insensata di qualcuno più esaltato e male informato: lasciasse passare almeno un po’ di tempo, qualche mese, finchè si fosse fatta palese la sua innocenza (come del resto l'aveva consigliato, qualche tempo prima, anche S. Em.za il Card. Arcivescovo). Ma don Gianni scrollò il capo e montò risoluto sul sellino, dicendo:
  — Che ho fatto di male? Io sono del tutto innocente! Non mi faranno nulla! —
  Appena arrivò al paese, accompagnato da un certo Calanchi, suo inquilino, in un lampo si diffuse la notizia: — È giunto il Curato —
  Coloro che gli avevano giurato odio e vendetta gli tesero un agguato: erano elementi locali che gli rimproveravano di aver dato ai tedeschi indicazioni precise per il prelevamento di uomini della zona, e che avevano giurato di vendicarsi. Fra essi, e forse la più accanita nel suo odio mortale, una donna, una ragazza del paese.
  Appena giunto, si ferma ad esaminare i danni recati alla chiesa e alla canonica; quindi entra, apre le finestre e passa negli altri ambienti.
  Intanto il Calanchi, che era rimasto all'ingresso, viene affrontato da tre giovani armati di tutto punto che chiedono del Parroco:
  — Non gli faremo del male. Si tratta solo di un semplice interrogatorio. —
  Mentre il Calanchi sta discutendo, don Gianni intravede il pericolo e, invece di presentarsi, sale di corsa nel granaio e di là si arrampica sul tetto, tentando di calarsi per la casa degli inquilini a fianco della chiesa, per guadagnare la campagna e dileguarsi. Niente da fare!
  Altri armati hanno accerchiato il fabbricato, e, appena d. Gianni mette piede a terra, lo arrestano. Egli si vede perduto e, sfidando le bocche dei mitra puntati su di lui. invoca aiuto ad alta voce, ma tutto il paese è contro di lui, e chi non è contro è sotto il terrore dei facinorosi.
  Strettolo in mezzo lo accompagnano ad un borgo di case detto «Bottega» e lo rinchiudono in un porcile. Dopo un paio d'ore lo riconducono in canonica, pallido, la veste sporca, abbattuto, ma senza alcun lamento. Verso sera giunge da Bologna anche la sua donna di servizio, ignara di tutto; vede don Gianni in cucina attorniato da quattro armati; e non può far nulla per lui. All'imbrunire è chiuso nella sua camera e davanti ai suo uscio fanno il turno di guardia.
  Il mattino seguente è condotto in cucina, ove ricomincia il suo martirio: agli aguzzini del giorno prima si sono aggiunti gli Ufficiali di una compagnia della Divisione «Legnano», sobillati dai primi: è sputacchiato, insultato, maledetto.
  D. Gianni tace.
  Il pomeriggio è condotto di nuovo alla «Bottega» rinchiuso prima nel macello, poi di nuovo nel porcile, con altri disgraziati. Sembra che in tanto incalzare di umiliazioni, il suo spirito si sia temprato: ha ora una calma perfetta e il sorriso sulle labbra; offre anche da fumare ad un certo Magni, fattore di un proprietario di S. Vitale, e suo compagno di sventura.
  Verso le 16 un partigiano entra, chiama l'Arciprete:
  — Si è pentito di quello che ha fatto?
  — No! — risponde d. Gianni — perchè non ho fatto nulla di male.
  — Si vergogni di portare quell'abito, che lo disonora! — gli replica.
  Ma d. Gianni non risponde: china il capo, ormai convinto che è inutile ogni tentativo di convincere degli esaltati che gli hanno giurato la morte.
  Poco dopo infatti vien fatto uscire, e salire su di un autocarro che, gli dicono, «lo condurrà a Bologna, alla caserma «Magarotti» ove sarà sottoposto a interrogatorio.
  Ma a Pontelungo la macchina devia verso Calderara di Reno, ove giunge alle 17. Non si sa bene ove abbia trascorso la notte: alcuni dicono rinchiuso nel Macello, altri nell'Ammasso; alcune voci anche nella Camera Mortuaria del cimitero.
  È certo che il povero sacerdote fu sottoposto ancora a brutali sevizie, di cui il cadavere portava le traccia; e alle ore 17 del 24 aprile (martedì) fu condotto dietro il cimitero di Calderara e freddato a colpi di mitraglia. Davanti ai mitra spianati si era posto la mano sugli occhi, e la raffica di pallottole gli lacerò la mano, colpì la fronte, l'occhio destro che si gonfiò orrendamente di sangue, quindi il petto, il ventre, la gamba destra: uno strazio.
  Prima di ucciderlo l'avevano derubato di tutto: orologio, penna stilografica, portafoglio con 15.000 lire, bicicletta quasi nuova.
  Così era sacrificato d. Gianni innocente.
  Le prove della sua innocenza si moltiplicano ogni giorno. Mons. Bottacci, che ha sempre avute le confidenze di d. Gianni, afferma di aver sentito spesso dalle sue labbra come erano andate le cose.
  Un giorno della fine del 1944, mentre don Gianni stava nella sua canonica di S. Vitale di Reno, presente un medico ivi sfollato e che fu testimone dei fatti che esponiamo, fu sorpreso da un gruppetto di Ufficiali delle S.S. germaniche che, entrati in casa con un elenco già compilato degli uomini della parrocchia, chiesero a d. Gianni indicazioni per trovare le loro case D. Gianni si schermì con tutti i mezzi, affermando di essere tornato da poco in parrocchia, di non sapere con esattezza. Quelli insistettero:
  — Tu essere Pastore! tu conoscere tua parrocchia! Venire con noi! —
  Lo portarono sulla macchina in mezzo a loro, in giro per la parrocchia, presso le case che avevano segnate e che sapevano individuare benissimo.
  I parrocchiani che lo videro, in mezzo a quegli odiati rastrellatori, passare da una casa all'altra ritennero che fosse implicato nella losca faccenda, e subito per loro d. Gianni fu una spia venduta ai tedeschi e ai repubblichini e i colpiti dalla triste sorte giurarono la sanguinosa vendetta; senza riflettere che le apparenze potevano averli ingannati.
  Subito egli aveva dovuto lasciare il paese perchè sentiva maturare intorno a sè il delitto. Mons. Bottacci afferma che ripetutamente, con le lacrime agli occhi, don Gianni proclamava la sua innocenza e che nulla aveva fatto che potesse anche lontanamente danneggiare un suo parrocchiano. Lo slancio col quale partì il giorno stesso della liberazione, volando fiducioso incontro all'atroce morte, ci palesa la sua innocenza, che non gli lasciava sospettare una vendetta per un delitto non compiuto.
  Comunque, anche fosse colpevole, noi avochiamo alla sola autorità costituita il diritto di far vendetta del crimine commesso. Essa deve indagare, esaminare e dare la giusta sentenza, e ad essa i cittadini debbono sempre rivolgersi per avere giustizia.
  È a questa autorità che noi facciamo appello.
  Noi vogliamo giustizia per i nostri sacerdoti!