Don Ferdinando Casagrande

L'odissea di un padre

foto Don FERDINANDO CASAGRANDE

  Nato il 5 novembre 1914 a Castelfranco Emilia da Augusto e Ghermandi Anna, ordinato sacerdote nella chiesa di S. Martino di città il 16 luglio 1938 da S. Em.za il Cardinale Nasalli Rocca, cappellano a S. Martino di Caprara, poi parroco a Gugliara dal maggio 1944. Ucciso a S. Martino di Caprara il 9 ottobre 1944.

  Il buon vecchio a stento riesce a frenare il tremito che dall'ottobre 1944 ha invaso le sue membra ed è andato aumentando con il crescere della sua ansia dolorosa. Ci guarda coi suoi occhi un po’ appannati, ma ancor vividi di luce intelligente. Una austerità misteriosa trapela dal suo volto scarnito.
  — Volete che vi parli del mio don Ferdinando? — incomincia incerto. — Beh! vi dirò quel che so, e non potrà che fare un po’ di bene anche a me parlare di lui. Pensate! Ci è stato tolto a trentanni appena, da solo cinque mesi parroco a Gugliara. Eravamo tutti assieme lassù: mia moglie, i miei cinque figli! e son rimasto solo! Si vede che il Signore voleva così! — Sospira profondo, e ripiglia dopo una breve pausa in cui lo contempliamo in silenzio.
  — Siamo al 22 settembre del '44. Di tanto in tanto si fa più aspra la lotta fra «quelli» nascosti nella montagna e le truppe tedesche. In una scaramuccia resta colpito mortalmente un soldato delle S.S.: ed ecco la rappresaglia. Tutte le case della borgata «la Quercia». ove è avvenuto lo scontro, sono interamente distrutte dal fuoco e s'inizia una caccia spietata alla gente del paese.
  Il mio don Ferdinando, che si trovava proprio nel rifugio della galleria «La Quercia» fugge assieme alla sorella Gabriella, e viene a nascondersi nella casa «Calvane» ove eravamo già raccolti noi tutti. Laggiù alle «Quercie» dove era la nostra casa, non era più possibile la vita, e speravamo un po’ di pace lassù alle «Calvane» nella casa del nostro contadino.
  Alle ore sei del 29 settembre siamo avvertiti da un contadino che ormai stanno per giungere i tedeschi. Dove fuggire? Ovunque c'era in agguato la morte: i tedeschi ci braccavano come selvaggina, gli alleati, ormai a pochi chilometri, ci tempestavano di proiettili.
  Decidiamo di lasciare le donne, ed io, con don Ferdinando e l'altro figlio Giannino ci andiamo a nascondere in un piccolo rifugio dietro il cimitero di S. Martino di Caprara. Il rifugio ci parve sicuro: scavato nel tufo, su uno strapiombo con l'ingresso nascosto dal folto degli alberi, a cui si accedeva per un sentiero da capre, attraverso la roccia dello strapiombo. Nemmeno i tedeschi lo avrebbero saputo individuare.
  Decidemmo di andar a prendere le nostre donne e così dal 1° ottobre ci ritrovammo ancora uniti e qui rimanemmo rintanati fino al nove ottobre.
  Furono quelle, giornate di angoscia incredibile: sopra di noi stava in vedetta un soldato tedesco, e solo di notte, con mille precauzioni potevamo fare qualche sortita per cercare un po’ di alimenti. La sera dello stesso 1 ottobre, giunsero fino a noi gli spari dei tedeschi contro i disgraziati che si erano rifugiati nella chiesa di S. Martino, e anche l'acre odore nauseabondo dei loro cadaveri dati al fuoco.
  Asseragliati come belve sentivamo, giorno e notte la terra sobbalzare sotto l'incessante martellamento dell'artiglieria alleata. Nessuno osava portarsi allo scoperto! si correva il rischio di lasciarci la pelle. Per tutti quei giorni, eterni e sfibranti, ci nutrimmo di castagne crude e di pere acerbe (bottino di una sortita notturna), una al mattino, una a mezzogiorno, una alla sera.
  Vedevo i miei cari consumarsi a poco a poco, i volti sbiancati farsi più affilati, e anche il mio don Ferdinando, che era sempre stato magro, come vedete anche da quella fotografia (e ce l'addita appesa al muro), si era ridotto all'osso, i suoi occhi si erano affondati ancor più nell'orbita. Pure era sempre lui che ci teneva alta la fiamma della rassegnazione e della speranza, e fugava col suo esempio di fiducia in Dio la tristezza cupa che ci attanagliava di ora in ora sempre più.
  Al nono giorno di tomba però don Ferdinando ha voluto salire al Comando tedesco, che aveva sede a S. Martino onde ottenere il permesso di uscire e di attraversare quelle zone proibite, perchè capiva che ormai non potevamo più resistere agli stimoli della fame. Sua sorella, la Giulia, che era maestra all'asilo della «Gardelletta», ha voluto accompagnarlo in quella missione e dividerne i pericoli. Li accompagnammo fino all'ingresso del rifugio, li abbracciammo, invocando l'aiuto di Dio per loro, li osservammo buttarsi fuori veloci e scomparire. Un cupo presagio ci rimase nel cuore, mentre, seduti in silenzio, ascoltavamo il fischio dei proiettili. Non li abbiamo più visti!... —
  Il vecchio china il capo e tace a lungo per ricomporre la sua voce rotta da un singhiozzo. Attendiamo in religioso silenzio.
  — Solo passati parecchi giorni ho potuto sapere la loro triste fine; e i particolari ci saranno forse per sempre sconosciuti.
  Pare che don Ferdinando riuscisse a raggiungere il Comando tedesco e farsi rilasciale il permesso di transito. Ma lui e la Giulia avevano appena voltato le spalle per ritornare che quelle belve li colpirono a tradimento con scariche di mitraglia. Il mio don Fernando cadde sul sentiero con un proiettile nella nuca; la buona Giulia con cinque pallottole di mitraglia al petto. Sono morti abbracciati stretti, e dai tedeschi buttati così nel precipizio che fiancheggia il sentiero.
  Col lento passare dei giorni compresi che ormai era vana la tormentosa attesa dei miei cari.
  Ma non era finita l'ascesa al mio doloroso calvario!
  L'11 ottobre, giornata piovosa, alle 11,30 precise, un proiettile che scoppia nei pressi del rifugio colpisce con una scheggia l'altra mia figlia, la Gabriella, uscita per un istante, e la butta a terra immersa nel suo sangue. Ne copriamo il cadavere con un panno e ci buttiamo giù verso il Setta in cerca di un luogo più sicuro.
  Giunti al fondo de «La Conca» ci fermiamo nascosti nel folto del bosco, in attesa dell'ombra della notte per passare il fronte di guerra; ma appena calate le tenebre, poco dopo le 18, mentre stiamo rannicchiati sotto i bagliori degli scoppi che illuminano i tronchi degli alberi, una cannonata ci colpisce in pieno: mia moglie e gli altri due figli, Lina e Giannino, sono colpiti in pieno. Io ho il piede destro ferito e rimango solo vivo, tra il tormento della mia carne offesa, tra il sangue della moglie e di Giannino che più non possono rispondere alle mie invocazioni, tra gli urli strazianti della Lina che ha le gambe stroncate e chiede disperatamente aiuto... e davvero non so come il cuore non mi sia scoppiato in tanto strazio! —
  Due lacrime rigano il suo volto patito e si perdono fra le rughe. Un singulto gli stronca ancora la parola. Pure si fa coraggio e prosegue la sua incredibile avventura.
  — Ormai mi sentivo solo al mondo. Eppure quanto è grande nell'uomo l'attaccamento alla vita! Non volevo morire e speravo pazzamente che qualcuno dei miei si potesse ancora salvare: almeno la mia Lina!
  Mi alzo per andare in cerca di soccorso. Barcollo, ogni passo è uno strazio: pure resisto, stringendo i denti e appoggiandomi al bastone, e vado solo solo!... vado cercando, invocando ad ogni passo i miei sei cari, disperatamente certo ormai del loro tragico destino!... vado, arrancando, verso posizioni ove speravo trovare aiuto!
  A Rivabella c'erano dei civili, lo sapevo, e volevo giungere fin là. Invece, prima del «Beccadello» mi imbatto in una pattuglia di tedeschi che mi fanno prigioniero. Perquisito, derubato di tutto, perfino di una boccetta di aceto che mi serviva per medicare le ferite, mi trattengono con loro. Oh, la notte passata con essi, con la gamba ferita stesa su di una sedia, fra gli spasimi della carne e il martellamento dei ricordi che mi torturavano il cervello!
  Al mattino del 12 ottobre, aiutato da una ragazza che era a servizio dai tedeschi, riesco a portarmi fino ad una stalla abbandonata ove buoni amici, che a stento mi riconoscono (ero calato venti chili!) mi hanno assistito e curato; ma non ci fu possibile portare aiuto alla mia cara Lina, e sempre io avevo davanti agli occhi la mia piccola, che illanguidiva a poco a poco, nella perdita del sangue.
  Finalmente il 25 ottobre i tedeschi se ne andarono sconfitti e il 27 arrivarono gli alleati.
  Io già mi sentivo in forze, la ferita era rimarginata bene ed avevo in cuore una smania che non mi dava riposo: «Bisogna che io vada, mi dicevo, che corra a seppellire la mia famiglia!».
  Da Rivabella guardavo giù nella vallata, ma non riuscivo più a vedere nulla che mi orizzontasse: tutte le cose erano ridotte un cumulo di macerie; anche la Chiesa e il campanile di S. Martino di Caprara non apparivano più nel fondo della vallata: tutto il paese era raso al suolo.
  Tuttavia sempre lo stesso pungolo mi tormentava il cuore e non mi dava pace: «Voglio vedere i miei cari. Bisogna che vada!».
  E un giorno sono andato, appoggiato al mio bastone, con passo sempre più affrettato.
  Chiedo, supplico informazioni agli abitanti del luogo. Tre miei amici mi aiutano e riusciamo a rintracciare le salme benedette. Le componiamo sotto la terra ancora sconvolta, con mani tremanti, bagnate di lacrime e di sangue.
  Gli Americani poi ci hanno mandato tutti noi che eravamo a Rivabella senza casa, prima a Firenze, poi, in diverse tappe, fino a Roma, a «Cinecittà», ove anch'io sono stato alloggiato per sei mesi. —
  Il buon vecchio tace ancora. Nel suo volto non c'è più l'abbattimento che vi aveva prodotto l'emozione del racconto: ora è sereno della serenità che bacia la fronte dei giusti, anche di quelli che sono stati sottoposti alle prove più dure. Con commozione gli stringiamo la mano.

* * *

  Sì, buon vecchio, hai ragione di sentirti orgoglioso del tuo straziante sacrificio! Quel figlio sacerdote, il tuo Don Ferdinando, che oggi con gli altri tuoi familiari riposa nel cimitero di Castelfranco, ha immolata la sua giovane vita sull'altare dei più inumani degli odi: l'odio anonimo e collettivo della guerra.
  Ed egli che aveva sentito insopportabile nel suo cuore di pastore la ripugnanza ad ogni oppressione ingiusta verso gli innocenti, verso i deboli e gli indifesi, tuonando spesso dal suo altare contro i delitti perpetrati dall'odio che soffocano i precetti evangelici della carità e della giustizia, ha suggellato col suo sangue la sua parola d'amore, che ancora risuona ammonitrice all'orecchio delle sue pecorelle.