Don Giovanni Fornasini

L'angelo di Marzabotto

foto Don GIOVANNI FORNASINI

  Nato a Pianaccio il 23 novembre 1915, fu ordinato in S Pietro il 28 Giugno 1942 da S. Em. il Card. Nasalli Rocca, e subito nominato Vicario Adiutore del Parroco di Sperticano, alla morte del quale, il 21 Agosto 1942, gli successe arciprete della parrocchia. Fu ucciso presso il cimitero di Casaglia di Caprara il 13 ottobre 1944.

  Nelle scuole di Sperticano, due chilometri da Marzabotto, in quella notte del 12 ottobre 1944, tripudiava un'orgia bacchica da basso paganesimo. Si festeggiava il compleanno del comandante tedesco e tutti sappiamo per esperienza che cosa fossero per i tedeschi queste feste: tracannare vino e liquori fino ad avere la lingua ingarbugliata che si rifiuta a parlare, fino a perdere il senso della stabilità sulle gambe, fino a sentire la testa che si rifiuta di controllare l'uomo ragionevole per lasciare libero sfogo all'uomo bestia, fino a stramazzare dall'alcool. E allora beato chi riesce a liberarsi dalle pazze voglie di quegli inconsci criminali!
  Un sacerdote giovane, 29 anni, pallido nella sua ira a stento contenuta, rannicchiato su una sedia in un angolo della sala, guarda attorno e i suoi denti stridono nella stretta nervosa che gli dà il ribrezzo dell’uomo imbestiato. Al suono ritmico di danze sincopate alcuni tedeschi scamiciati danzano con ragazze vendute, altri seduti al tavolo giuocano, cioncano e sghignazzano sconciamente, altri lanciano frizzi e inviti osceni a ragazze terrorizzate costrette ad intervenire a quella crapula ributtante.
  Ma che fa qui, don Giovanni, l'arciprete del paese, ha tanto dilagare di lussuria? Non è il posto per un prete questo!
  Lo sa don Giovanni Fornasini. lo sanno anche i tedeschi che lo guardano con occhi di fuoco e imprecano nel loro incomprensibile linguaggio; ma don Giovanni ha ancora una nobile missione da compiere, da aggiungere alle molte già ingemmate nella corona dei suoi meriti, e forse questa è la più ardua, la più delicata, quella che forse gli costa di più. Qui c'è la purezza di una ragazza da difendere ed egli è disposto a tutto.
  Durante il giorno un ufficiale delle S.S. aveva adocchiato in canonica, fra i numerosi sfollati, una ragazza, se ne era incapricciato e le aveva imposto, in modo perentorio, di presentarsi alla sera alle scuole per la festa del suo compleanno. Avevano tremato i presenti, si era ribellata l'onestà di quei buoni cristiani, e sopra tutti aveva sussultato l'animo delicato del pastore buono, don Giovanni; ma non si poteva rifiutarsi ad un loro ordine. Bisognava andare! E allora il sacerdote zelantissimo aveva deciso di accompagnarla per proteggerla ad ogni costo, fiducioso che la sua presenza avrebbe frenato gli istinti bestiali di quei barbari.
  Ed eccolo in mezzo a loro.
  Davvero è utile la sua presenza. L'ha sorvegliata tutta la sera, ed ormai i tedeschi si sono convinti che non è possibile sfuggire alla ostinata vigilanza del «Pastore».
  È sbeffeggiato, insultato, sputacchiato?!...
  Che importa? Purchè ne esca salva la virtù.
  E la virtù è salva! In un intervallo il comandante gli da ordine di ritornare alla chiesa con la ragazza, ed egli sospira come di una liberazione a lungo agognata.
  Ma che gli ha aggiunto il comandante prima che lasciasse la scuola? Quali ordini gli ha comunicati? Quali minacce gli ha tatto? Non ci è possibile saperlo. Don Giovanni non l'ha rivelato a nessuno. Sembra che, in una accanita discussione con lui, egli abbia rimproverato a loro di non aver mantenuto la promessa fattagli più volte di rispettare le donne e i bambini e abbia accennato con più fuoco alle stragi di Casaglia e di S. Martino. Il comandante lo avrebbe invitato a trovarsi il giorno dopo sul luogo dei massacri per una inchiesta, e don Giovanni avrebbe accettato pensando di approfittare dell'occasione per dare sepoltura a quelle vittime.
  Il 13 ottobre, appena il giorno manda la sua luce dalle alture di Monte Sole, don Giovanni, fornito degli arredi sacri necessari, parte dalla sua canonica nella ubertosa valletta del Reno e si inerpica sulla stradetta sassosa che porta verso il «Caprara».
  Sa che dietro quelle alture è in agguato la morte, perchè ormai fin lì si è spinta la prima linea di combattimento, ma il suo zelo lo porta a benedire e seppellire le salme abbandonate e sparse.
  E da quel sacro pellegrinaggio di pietosa opera di misericordia non tornerà più.
  Si dice che giunto al cimitero di S. Martino di Caprara abbia mostrato all'ufficiale tedesco che lo accompagnava il cumulo dei morti che giacevano là ancora insepolti dopo la recente strage: donne, bambini, vecchi: non certo uomini pericolosi. E il vile aguzzino delle S.S. credette opportuno sopprimere con un colpo di rivoltella un testimone sì pericoloso.
  Anzi il medesimo ufficiale, tornato a Sperticano, portò la triste notizia alla madre del sacerdote:
  — Il Pastore ha fatto kaput —
  Così chiudeva la sua troppo breve vita don Giovanni Fornasini, e poteva ripetere veramente per sè le parole del vangelo: «Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle!».
  E il dono della sua vita era il coronamento di una esistenza vissuta tutta nell'entusiasmo dell'apostolato e della carità cristiana.
  Gli episodi si moltiplicano a sazietà.

* * *

  Nel 1942 don Giovanni prende possesso della parrocchia di Sperticano, paesetto di 400 anime. Dalla quieta casa parrocchiale alza lo sguardo alle alture delle colline che si profilano ondose e aspre attorno a lui, ove i greggi si inerpicano al pascolo tranquillo sui prati rigogliosi di vegetazione, e pensa che così si svolgerà il suo ministero: su e giù per quelle balze. Come il pastore al seguito del suo gregge, così lui alla ricerca delle anime a lui affidate.
  E quando si attacca alla campanella per chiamare i bambini al catechismo, li vede calare da ogni parte, frettolosi e sereni, avidi della sua parola di padre buono.
  Così sognava quando ancora la nostra provincia non sospettava di trovarsi un giorno nella morsa inesorabile della più opprimente delle invasioni.
  E fu un sogno troppo presto infranto.

* * *

  Gennaio 1944: giungono da ogni parte, a gruppi o isolati, spavaldi o fuggiaschi, i primi partigiani e si danno alla macchia, per le forre boscose di Monte Sole; dilagano improvvise le prime orde teutoniche prepotenti e dispotiche, davanti alle quali si sprangano inesorabili e spesso inutilmente le porte delle case: si profilano nel cielo le sagome ardite dei cacciabombardieri, che altalenando lentamente esplorano per ore ed ore, ogni giorno, la zona, facendo trattenere il fiato agli abitanti, che presentono negli orecchi il sibilo degli sganci.
  E allora... addio pace sognata, apostolato tranquillo e sereno!
  È l'inizio della lotta accanita fra la forza bestiale e la sublimazione ai più alti ideali umani.
  Don Giovanni si trasforma nel soldato di Cristo generoso e pronto a gettare ogni giorno la sua vita nella lotta per Cristo.
  Dice con commozione la mamma sua: sig.ra Maria Guccini: «Mio figlio non era mai in casa: correva a destra e a sinistra per fare del bene a tutti indistintamente». Un'altra persona: «Anima veramente missionaria: era contento di lavorare, e non solo nella sua parrocchia: era molto spesso in altre vicinissime al fronte...».
  Marzo 1944: quaranta case incendiate, dodici morti, decine e decine di creature senza tetto e sprovviste di tutto: è il risultato di una prima rappresaglia tedesca.
  Don Giovanni freme nel suo cuore che si ribella contro queste inumane sopraffazioni, e non può restare inerte a questa prima unghiata del nemico.
  Dimentica il cibo, non vuol ricordare nemmeno che il corpo ha bisogno di riposo, e vola instancabile dove si mostra più urgente la sua presenza e la sua carità.
  Riesce a raccogliere indumenti e cibi vari, bussando a tutte le porte, e riesce a portare un po’ di refrigerio a quegli infelici.
  Poco dopo sei persone del luogo, sei modesti lavoratori della terra, vengono sorpresi dai tedeschi intenti ai lavori dei campi nelle immediate vicinanze di una fitta boscaglia, dove si sapevano numerosi i partigiani. Sospettati di intelligenza con questi vengono giudicati colpevoli e condannati alla fucilazione.
  Il vigile don Giovanni giunge in tempo per salvarli, restando garante della loro innocenza.

* * *

  Giugno 1944: don Giovanni sta preparandosi alla celebrazione della S. Messa nella sua chiesa. Una persona entra affannata e porta brutte notizie: «Pioppe di Salvaro è in preda al terrore! Tedeschi e partigiani sono venuti a botte. Trenta civili, catturati sul posto, debbono essere uccisi per rappresaglia!».
  Egli non esita un istante. Lascia senza indugio la chiesa e vola con la sua inseparabile bicicletta ove lo sospinge la carità.
  Intanto nei pressi di Monte Salvaro «da ogni parte fucilate, urla bestiali come di belve inferocite in cerca di preda, si alzano tra la selva».
  Giunge don Giovanni trafelato, affronta senza esitare i comandanti tedeschi, spiega che la popolazione non ne ha colpa, che i civili rastrellati non sono affatto implicati nella guerriglia dei giorni scorsi.
  Non c'è niente da fare! Quelli sono irremovibili: i trenta rastrellati saranno fucilati entro le 18 dello stesso giorno.
  Allora appare nel suo splendore la grandezza generosa del cuore di don Giovanni. Con gesto eroico si fa avanti e con fermezza ammirabile offre se stesso per la salvezza di tutti:
  — Uccidete me! —
  Anche la durezza teutonica si piega commossa davanti a tanto generoso ardimento, e concede che 18 civili vengano risparmiati e mandati al lavoro con la Todt, mentre conferma la sentenza per gli altri dodici.
  Don Giovanni è costretto a piegarsi davanti a quest'ultima inesorabile sentenza, e pensa solo alla salvezza eterna di quegli infelici. Ad uno ad uno li prepara all'ultimo passo e li conforta coi Ss. Sacramenti.
  E anche quando sono caduti falciati dalla mitraglia, incurante dell'ordine tedesco che i cadaveri rimangano insepolti in pubblico «ad esempio», al mattino per tempo, trovato l'aiuto di pochi animosi, raccoglie pietosamente le salme e le porta al cimitero di Malfolle.

* * *

  30 luglio 1944: un treno di benzina mista a munizioni, ricoverato nella galleria «Misano». prende fuoco improvvisamente e salta in aria producendo danni ingenti alla linea ferroviaria e alla volta murale. Le cause del disastro non si conoscono. Il capo squadra dei cantonieri però, rimasto orribilmente ustionato, asserisce di aver visto un individuo sospetto transitare nei paraggi, poche ore prima dello scoppio.
  Il locale Comando tedesco non si cura di fare una regolare istruttoria del fatto:
  — È sabotaggio! — sentenzia. — Dieci civili verranno uccisi come monito ai Marzabottesi, e altri dieci come monito ai Vergatesi. —
  I poveri ostaggi, gente dei campi e viandanti insospettabili quanto sfortunati, sono rinchiusi in una casa del paese e aspettano con trepidazione la sentenza, raccomandandosi disperatamente a don Fornasini:
  — Ci salvi, don Giovanni! —
  Egli li tranquillizza, li solleva con parole di fiducia e senza frapporre indugio inizia un sopralluogo minuzioso, anche per mezzo di amici fidati. Mentre si trova coi prigionieri una faccia appare all'inferriata della finestra e una voce lo chiama:
  — Don Giovanni, ci sono novità —
  Egli si porta alla finestra, ascolta avidamente quanto l'amico gli riferisce, il sorriso gli balena sulle labbra e gli traluce la commozione attraverso le grosse lenti che gli velano la vivacità dello sguardo. I condannati seguono la scena, intuiscono buone nuove:
  — Forse un po’ di sole in tanta tempesta! — esclama uno fiducioso.
  Infatti ha saputo che non si tratta affatto di un atto di sabotaggio, ma semplicemente di una disgrazia dovuta all'imprudenza del figlio del capo cantoniere, il quale, nel tentativo di raccogliere la benzina che scaturiva da una botte incrinata, aveva incendiato il treno con l'acetilene a carburo della sua lampada.
  Don Giovanni è trionfante della buona riuscita dell'inchiesta. In paese tutti si sussurrano di bocca in bocca la notizia, ma nessuno osa, nemmeno le autorità repubblichine, parlarne ai tedeschi.
  Don Giovanni però non cede. Con l'aiuto di altri sacerdoti, suoi compagni, specie il curato di Panico, don Serra, e quello di Luminasio, don Pelati, attraverso mille stratagemmi, riesce a raccogliere i testimoni, a chiarire le circostanze, e, dopo 36 ore di lavoro indefesso, di corse affannose; di sospiri impazienti, ha la sorte di convincere il Comando tedesco a liberare i poveri condannati.
  La domenica dopo nella chiesa di Sperticano, tra la commozione di tutta la popolazione, quelle venti persone si accostano devotamente alla Santa Comunione, riconoscenti a Dio di aver avuto salva la vita quando già sentivano sfiorarli il soffio gelido dell'ala della morte.

* * *

  Alcuni giorni dopo: scontro fra partigiani e tedeschi a «casa di Bue», fra i confini di Marzabotto e Monte Severo. Subito si inizia un accanito rastrellamento: sei innocenti sono immediatamente soppressi sul luogo, gli altri vengono mandati alle «Caserme Rosse» a Bologna; altre 32 persone, in maggioranza donne e bambini, sono rinchiuse in una stalla a «Casa Comastri» di Montasico e trattenute come ostaggi.
  Don Giovanni approfitta in questa occasione delle sue buone relazioni coi partigiani e coi tedeschi. Infatti ha vincoli stretti coi partigiani del luogo, ormai conosce tutti i capi, sa dove sono i loro rifugi, ed in casa sua arrivano di frequente le staffette che portano o ricevono ordini. In queste circostanze egli ha mille consigli per tutti, raccomanda la massima calma, la prudenza per salvaguardare le popolazioni inermi dalle tremende rappresaglie tedesche, e soprattutto esorta alla concordia perchè tutto si possa risolvere per il meglio. È tanta la fiducia che gode presso il Comando dei partigiani che da questo ha avuto il permesso di poter andare in qualsiasi posto da loro occupato, anzi il Comando stesso lo tiene informato dei fatti più importanti, come dei movimenti delle loro truppe. Nello stesso tempo, agendo con tatto e pazienza ammirevole, si è conciliata anche la benevolenza del Comando tedesco. Ora è giunto il momento di sfruttare la felice situazione.
  Si reca al Comando tedesco e chiede che vengano rilasciati gli ostaggi, poichè la rappresaglia è già stata eseguita. Gli rispondono che la rappresaglia è appena cominciata e che gli ostaggi non saranno rilasciati finchè non si saranno presentati al Comando tedesco i partigiani della zona. Egli intuisce tutta la gravita della situazione e si sforza di far capire che in quella zona non vi sono partigiani, che lo scontro è stato casuale, provocato da elementi di passaggio. Insiste ancora garantendo la loro incolumità nell'avvenire e offrendosi di accompagnarli nei luoghi che essi sospettano occupati dai partigiani. Egli poteva anche assicurare ciò, perchè sapeva che effettivamente una pattuglia di partigiani toscani di passaggio aveva provocato lo scontro e che poi si erano allontanati, come gli aveva riferito una staffetta del Comando dei partigiani.
  Il Comandante tedesco lo piglia in parola e fa precedere la sua pattuglia di perlustrazione dal sacerdote. L'impresa è rischiosa, una mossa intempestiva dei partigiani sulla montagna può essere fatale, ma don Giovanni è fiducioso nella nobiltà della sua missione che è tutta votata al bene del suo popolo. Nei luoghi sospetti i soldati vanno cauti, con diffidenza varcano le soglie delle capanne, perchè sanno che i ribelli non scherzano. Don Giovanni, sicuro di sè, li precede nelle capanne, fruga con loro un chilometro di bosco: non trovano nulla di sospetto, non c'è anima viva.
  — Tu Pastore, sincero! — gli dice il tenente rasserenato e da ordine che tutti gli ostaggi siano liberati.
  Un'altra battaglia vinta.

* * *

  29 settembre: giunge doloroso fino a lui l'eco dei fattacci di Carpiano, di Casaglia, di Creda, e altri. Ancora una volta non riesce a soffocare la piena del suo zelo e si precipita per soccorrere.
  Questa volta viene rastrellato, chiuso con gli altri nella scuderia del Canapificio di Pioppe, interrogato e condotto a Bologna per farsi rilasciare da Sua Em.za il Card. Arcivescovo documenti che dimostrino la sua qualità di sacerdote.
  Ma appena munitosi di essi e fattili vidimare dalle S.S., non esita un istante a far ritorno nella sua parrocchia; è sulla breccia, nel pericolo, coi suoi fedeli, fino all'ultimo.
  La sua carità non ha soste: assistenza ai feriti abbandonati per le strade o nel fango dei fossati; liberazione di prigionieri, di rastrellati, che si calcolano ad un centinaio, e di lavoratori «obbligati» alle fortificazioni sulla Futa; sepoltura di morti col suffragio cristiano; cura e conforto ad orfani, vedove, famiglie nascoste nelle caverne o depredate dalla voracità dei barbari. Sono queste le gloriose tappe dell'opera di due anni di ministero, che dovevano condurre don Giovanni al supremo olocausto a difesa della virtù più bella: la purezza di una giovane, come abbiamo narrato.
  Don Angelo Serra, che l'ha visto all'opera, così dice di lui:
  «Al suo arrivo a Sperticano la parrocchia, sotto la forza del suo zelo, cambiò. Venne il triste 27 novembre 1943 col suo bombardamento a falciare 46 dei miei parrocchiani a Lama di Reno. Lo ricordo don Giovanni col piccone in mano lavorare con tanta forza come se dovesse scavare da quelle macerie la mamma sua. Del suo zelo possono parlare i parrocchiani di Vedegheto, quando sostituì per lunghi mesi quel degno arciprete, don Angredo Calzolari, che dovette assentarsi per motivi di salute. Nove chilometri di montagna sono duri: ma don Giovanni li affrontava anche due volte il giorno... I fascisti repubblicani uccidono il 24 giugno a Pian di Venola quattro innocenti e vorrebbero che non venissero sepolti. Egli però non teme: fa i funerali alle vittime e per di più tiene un vibrante discorso in chiesa. E bisogna pensare dov'è Sperticano: di fronte a Marzabotto, di là dal fiume, sotto Monte Sole, e chi è stato fra i partigiani sa che cos'era Monte Sole. Alcuni tedeschi sono feriti da fucilate arrivate da sopra Sperticano. Punizione decretata: sarà bruciato il paese. Don Fornasini si precipita dal Comandante, lo invita in canonica, gli offre del danaro e anche un maiale. Riesce così a revocare l'ordine... Sono arrivati i barbari per sbranare le pecore, ma hanno trovato i pastori a difenderle, e per le pecore loro hanno lottato e, come insegna il Vangelo, hanno dato la vita».
  Con don Giovanni Fornasini si chiude degnamente la serie delle vittime del Comune di Marzabotto: la «Cassino» dell'Emilia.
  «Ogni strada — si è detto — ogni sentiero. ogni casa furono centro di una tragedia: di tanti non sapremo mai nulla: tanti superstiti ignoreranno per sempre la sorte dei loro cari».
  Pare incredibile che le vittime siano state circa duemila! E furono vittime innocenti, spesso inconscie del motivo per cui erano abbattute! Questa la macchia indelebile che rimarrà a segnare di vergogna le aberrazioni di una civiltà che ha fatto della forza e della violenza un'arma contro il diritto.
  Rifulgono di gloria particolare, fra tanti immolati al Molok della più bieca brutalità, le serene figure di questi cinque sacerdoti, trucidati con la più sadica delle crudeltà, rei soltanto di essere stati banditori della parola di Cristo, che è parola di amore, contro la parola dei tiranni, che è parola di odio e di morte: Don Marchioni, Don Casagrande. Padre Capelli. Don Comini, Don Fornasini! Nomi che abbiamo il dovere di non più dimenticare.
  Viene spontaneo al labbro, nel tumulto dei sentimenti che suscita la morte degli innocenti, il liturgico: «Vindica sanguinem sanctorum tuorum, qui effusus est!»
  E il cuore si acquieta solo nel pensiero che la terra irrorata del loro sangue rifiorirà di vita cristiana.
  Perchè il loro sangue, sangue di apostoli non può essere stato sparso invano.