Qualche parola in merito ai pareri forniti dall'Ufficio legale sulla questione. Innanzitutto i pareri sono venuti dopo i fatti. Abbiamo un parere in data 9 febbraio 1951, nel quale l'Ufficio ci parla sulla interpretazione della convenzione Comune-Orlandini, sulla sclassificazione dell'area pubblica di via Lame e sulla questione del relativo prezzo. Tutto ciò è contenuto in una pagina e mezza dattiloscritte, che dovrebbero servire a dimostrare la giustezza della via seguita dal Comune per il rispetto della convenzione e per tutto quanto si riferisce al suolo pubblico di via Lame già consegnato all'impresa costruttrice senza previa sclassificazione e senza convenirne il prezzo. L'ufficio legale, nella lettura della convenzione, si è soffermato più che altro sul punto dei famosi 900 mq. e sull'ormai noto termine dei 18 mesi e dichiara molto semplicisticamente che le linee stradali alla testata d'incontro S. Felice-Lame furono determinate «in base ad un piano di esecuzione» (non è detto quale) per cui rimasero disponibili per la riedificazione più di 900 mq. e da ciò il dovere del Comune di restituirli agli Orlandini insieme ad una striscia di suolo pubblico di via Lame che è quindi necessario sclassificare, mentre «sembra opportuno non pregiudicare quello che sarà per essere l'atteggiamento del Comune circa il prezzo della striscia». Il termine dei 18 mesi poteva venire in discussione ( «in ipotesi» ) soltanto nel caso che agli aventi causa Orlandini fosse residuata un'area inferiore a mq. 900. Questo è, press'a poco, il testo del primo parere dell’Ufficio legale sulla questione e, francamente, ci sembra che si commenti da sé: corrisponde, a mio avviso, a una semplice dichiarazione di approvazione dell'operato della Giunta.
Il secondo parere dell'ufficio legale riguarda il rilievo da noi fatto circa la mancata applicazione alla convenzione Orlandini dell'alt. 34 del R.D. 8 febbraio 1923 n. 422 che prescrive, per la rinuncia all'esproprio, l'approvazione dell'Autorità da cui promana la dichiarazione di pubblica utilità.
L'Ufficio legale afferma, ma questa volta con dovizia di parole e di citazioni, che «in materia di piani regolatori comunali le norme sancite dal ridetto art. 34 circa la rinuncia ivi contemplata, non sono applicabili, perché nella materia stessa, come in genere in materia urbanistica, vigono speciali criteri».
L'AVV. Alberti ha già esaurientemente contestato questo secondo e ultimo parere dell'ufficio legale ed io non starò a ripetere le sue giuste argomentazioni. Mi preme soltanto mettere in evidenza lo sforzo che deve aver compiuto l'Ufficio per sostenere la tesi e lo farò con qualche osservazione significativa. Dice testualmente l'Ufficio legale:
«L'art. 34 del predetto R.D. n. 422 del 1923 manifestamente è dettato per le opere pubbliche eseguite dallo Stato, ed infatti è contenuto nel Capo 2° di detto R.D., mentre nel R.D. stesso le disposizioni per i lavori degli enti locali sono contenute soltanto nel successivo Capo 3°».
Si vorrebbe cioè far credere che il Capo 2° (comprendente l'art. 34) riguardi soltanto le opere da eseguirsi dallo Stato, mentre questo è l'oggetto del Capo primo; ed il Capo secondo ha per oggetto, invece, le dichiarazioni di pubblica utilità e le espropriazioni, queste comuni a tutti, sia Stato che enti locali.
Per chi non ha sott'occhio la legge, lo scambio del Capo 1° col Capo 2° può produrre un certo effetto.
L'Ufficio legale afferma il diritto degli espropriandi a riedificare essi sulle aree non impiegate per l'esecuzione dell'opera pubblica e, a conferma di ciò, cita l'art. 23 della Legge Urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 che effettivamente concede questo diritto all'espropriando. Ma, al momento della convenzione, cioè nel 1936, la citata legge del 1942 era ancora da venire. Nel 1936 vigeva il ripetuto articolo 34, che dava facoltà all'ente espropriante di rinunciare all'espropriazione delle zone limitrofe previa superiore approvazione come già detto, per cui non vi era diritto dell'espropriando, ma soltanto possibilità di evitare l'esproprio delle aree adiacenti a discrezione dell'ente espropriante e dell'Autorità che aveva decretata la pubblica utilità dell'opera.
Del resto è evidente che l'Ufficio legale non è fermamente convinto di ciò che afferma. Usa pertanto espressioni di questo genere: «Però, un esame approfondito di questa disposizione di legge (art. 34) pare che nel caso debba convincere per una soluzione diversa». Pare, cioè, non siamo sicuri. E ancora: «... nel caso poteva anche considerarsi diritto dell'0riandini il ricostruire lui...». Poteva anche considerarsi diritto, cioè, non si afferma il diritto. E non aggiungo altro. Ma la più chiara e netta smentita alla sua tesi, l'Ufficio legale la dà nell’analoga nuova convenzione Saceb deliberata il 3 luglio 1950 e alla cui redazione l'Ufficio legale crediamo abbia collaborato: all'articolo 7 (corrispondente all'art. 4 della vecchia convenzione del 1940) è detto infatti che il Comune si riserva di consentire agli espropriandi di provvedere essi alle nuove costruzioni «a’sensi dell'art. 34, 3° comma del R.D. 8 febbraio 1923 n. 422». Dove si vede che anche per il Comune non è vero che l'art. 34 sia stato «manifestamente dettato per le opere pubbliche eseguite dallo Stato», ma anche per le opere pubbliche eseguite dal Comune. Nell'anzidetta nuova convenzione Saceb del 1950, il convincimento del Comune circa la applicabilità dell'art. 34 si è dimostrata talmente radicata al punto da non considerare neppure la possibilità che il richiamato art. 34 potesse essere stato superato dall’art. 23 della Legge Urbanistica del 1942.
Ho dimostrato con quali argomenti l'Ufficio legale si è battuto nell'intento di dimostrare la non applicabilità dell'art. 34 alla Convenzione Orlandini. Altri Consiglieri, pure legali, hanno avanzato un argomento sussidiario, citando l’art. 60 della legge 25 giugno 1865 n. 2359, il quale dice testualmente: «Dopo l'esecuzione di un'opera di pubblica utilità, se qualche fondo a tal fine acquistato non ricevette o in tutto o in parte la preveduta destinazione, gli espropriati o gli aventi ragione da essi che abbiano la proprietà dei beni da cui fu staccato quello espropriato, hanno diritto ad ottenere la retrocessione. Il prezzo di tali fondi, ove non sia pattuito fra le parti, sarà fissato giudizialmente in seguito a perizia fatta a norma degli art. 32 e 33».
Questa tesi per giustificare l'arbitraria riconsegna degli immobili riconosce all'Orlandini e suoi aventi causa il diritto alla retrocessione degli immobili non utilizzati per l'esecuzione dell'opera pubblica. Ma il citato art. 60 dice chiaramente che la retrocessione non consiste in una semplice riconsegna, ma costituisce una rivendita di area precedentemente espropriata che non ha ricevuto in tutto o in parte la prevista destinazione. Presupposto quindi per la retrocessione è che l'area sia stata precedentemente acquistata dall'ente espropriante, il che la relazione di maggioranza nega; inoltre il diritto alla retrocessione può esercitarsi soltanto dopo l'esecuzione dell’opera pubblica e l’opera pubblica, ciò è pacifico, deve essere eseguita secondo legge. Giova pure citare l'art. 61 della stessa legge il quale dice: «Un avviso pubblicato nel modo prescritto dall'art. 17 deve indicare i beni, che non dovendo più servire all'eseguimento dell'opera pubblica, sono in condizioni di essere rivenduti». E aggiunge: «Nei tre mesi successivi a questa pubblicazione i precedenti proprietari e gli aventi ragione da essi che intendano riacquistare la proprietà dei suddetti fondi, debbono farne espressa dichiarazione da notificarsi per atto d’usciere all’espropriante: nel mese successivo poi alla fissazione del prezzo debbono effettuarne il pagamento; il tutto sotto pena di decadere dalla preferenza che la legge loro accorda».
Ora, quando mai è stata seguita e dal Comune e dell'Orlandini o suoi aventi causa, questa procedura? Perché quindi gli estensori nella loro relazione di maggioranza si appellano all'art. 60 e affermano a favore dell'Orlandini un diritto di retrocessione inesistente nel caso? Questa tesi legale è ignorata dall'Ufficio legale del Comune.