"Il comunismo è un inganno"

    Un altro disse: «Sono tre anni che faccio di tutto per riscattarmi con il più diligente lavoro, qui in prigione, ma ciò nonostante mi trovo ancora qui. Sono stato ingannato. Mi pare che il governo mi sfrutti per farmi lavorare e non pagarmi». Non l'avesse mai detto. Tutti i carcerati insorsero contro di lui per fargli una critica spietata. Un altro disse: «Sono vecchio; sono innocente; sono qui da quattro anni; ho sempre lavorato; la mia pena mi è stata aumentata. Che cosa volete da me? Se mi volete mangiare, aprite la bocca e addentate le mie carni. Se mi volete ammazzare, estraete il coltello e tagliate. Io non ne posso più». Il poveretto qualche tempo dopo fu fatto scomparire e nessuno sa dove egli sia andato a finire. Lo scontento appariva in mille modi fra le brave e semplici parole di quei poveretti. Al mio secondino qualche volta scappavano delle parole poco controllate, quando si ritornava in cella. «Tutto è un inganno — diceva sommessamente — il bastone usato si brucia ed i buoi vecchi si macellano. Così si fa di me. Dopo tanti anni di servizio. Siano maledetti con i loro antenati per diciotto generazioni!». Un altro secondino un giorno disse: «Il comunismo è dolce prima, amaro poi. Lasciatelo dire a me che lo conosco da lunga data. Dolce per adescare, amaro per controllare ed inschiavire quelli che prima aveva adescati e abbindolati. Io e tanti altri abbiamo servito il comunismo anche con gran pericolo di vita per molti anni di guerra; ma alla fine ci siamo guadagnati la felicità di un carcere. Siano maledetti essi e tutte le loro famiglie!».
    Il continuo martellare la mente con le stesse idee, le critiche cavillose e maligne, le adunanze di poveretti costretti ad abbaiare uno contro l'altro, il cibo, l'insonnia e l’immobilità mi avevano sconvolto tanto che mi sembrava di essere caduto nell'inferno. In marzo mi ammalai seriamente, tanto che dovettero chiamare un medico. Credevo di morire e pregavo di tutto cuore il buon Dio che con la morte mi liberasse da simile bolgia. Mi ripugnava quella dottrina subdola e costrittiva; mi dava le vertigini quell'abominevole comportamento dei carcerati contro i carcerati, e nello stesso tempo mi facevano compassione sapendoli costretti a comportarsi così. Nel vedere poi tanti disgraziati, fra i quali il capo della Legione di Maria di Yutze, Li N. N., portare le manette ininterrottamente da tanti mesi, mi sgomentava. Di tanto in tanto riuscivo a dare una furtiva benedizione a Li N. N., e quanto ci godevo quando questi faceva un piccolo cenno d'aver compreso! Poi mi piangeva il cuore quando lo vedevo a capo chino ascoltare le critiche spietate e stupide che si facevano contro di lui.
    In aprile, forse prendendo a bella posta l'occasione delle mie peggiorate condizioni di salute, inscenarono contro di me un nuovo assalto. Dopo un breve interrogatorio mi imposero di scrivere le risposte ad alcune loro domande. Riguardo al mio comportamento coi giapponesi, risposi che avevo fruttato la mia nazionalità e la mia professione a bene del popolo cinese liberandone tanti dal carcere. Che se poi si sia verificato il caso di un cinese che, dopo la liberazione dal carcere giapponese, abbia fatto del male al popolo, questo era affare suo, e che a me al massimo si potrebbe imputare come un errore di previsione, non come colpa premeditata. Riguardo ai delitti contro l'infanzia, risposi elencando le bimbe e i bimbi da me raccolti ed assistiti, tuttora viventi e reperibili, ad eccezione di tre o quattro che, trasferiti nell'orfanotrofio diocesano, ignoravo dove potevano trovarsi dopo quei frangenti. Riguardo alle mie idee di politica internazionale, risposi che non capivo gran che, dato che l'esperienza passata mi aveva insegnato a diffidare dei giornali. Comunque riconoscevo di aver deriso la propaganda cinese, che chiamava l'esercito americano «una tigre di cartone», ma che d'altra parte non si riusciva a gettarlo a mare. Del resto, dicevo, nella guerra di Corea nessuno poteva cantare vittoria, per il semplice fatto che nessuna parte è arrivata a sconfiggere l'altra. Il fatto dell'armistizio lo dimostrava. Del resto la Cina comunista si poteva vantare d'averla impattata. In quanto poi alla Legione di Maria, cercai una via d’uscita, ammettendo, non in base alla mia coscienza personale, ma in base a quello che si scriveva contro essa sui giornali, che in casi e luoghi particolari fossero successi dei fatti per cui il governo si sia trovato nella necessità di intervenire. E che nel caso io potevo essere sospettato, ma solamente sospettato. Così potei accontentarli un po', senza compromettere la Legione né nuocere a me, dato che la mia fu una ammissione ipotetica, i.e. si vera sunt exposita dei giornali, ed accidentale cioè, per casi di carattere particolare e locale. Riguardo alla attività politica del sacerdote cinese Ccjanh N. N., risposi che io non c'entravo per nulla nei suoi affari. Infine, siccome sapevo bene che gli innocenti han sempre la peggio in regime comunista e che del dichiararsi del tutto innocente equivaleva a rimanere in carcere per tempo indefinito, dato che la polizia comunista non ammette mai di avere torto e non accetta la fama di trarre in arresto gli innocenti, neppure per sbaglio («il governo non sbaglia mai»), allora rivelai di aver dato uno schiaffo ad una persona, vent'anni addietro, perché mi aveva ingannato venendo a riscuotere il baliatico mensile per una bimba dell’Opera della «Santa Infanzia», già morta da molto tempo. Dissi che ero pentito di quella colpa e che chiedevo la meritata sanzione.