Galere comuniste

    Fui arrestato la mattina del 6 novembre 1953. Veramente già dal 6 gennaio 1950 ero stato destituito dalla libertà di viaggiare e di assentarmi dalla residenza di Yutze, senza un permesso speciale della polizia. Dissero che la polizia ci voleva proteggere da presumibili nemici; doveva perciò essere preavvisata di qualunque nostro spostamento. Inoltre ci volevano far comprendere che il popolo, già tanto scontento di noi, avrebbe potuto ricorrere ad assalti sulle vie per sfogare la sua ira contro gli oppressori. Gli «oppressori» saremmo stati noi. Ci consigliarono, per il nostro bene, a star quieti e ritirati; tutt'al più muoversi solo in caso di necessità e soltanto entro i limiti del rione cittadino, ma con cautela. Per oltrepassare detti limiti era necessario informare la polizia essendo essa incaricata della nostra protezione. Così, con la ipocrita scusa di proteggerci fummo tenuti in arresto, in casa nostra, circa quattro anni.
    Chiesi tre volte il permesso per il nostro vescovo che doveva recarsi a Taiyuen per aggiustarsi la dentiera, ma sempre con un esito negativo. Dentisti ce n’erano anche a Yutze, ed essi ritenevano che non fosse proprio il caso di andare a Taiyuen. Alle mie obbiezioni sulla libertà di scegliersi un medico o un dentista, mi si rispose iratamente: «Osi tu calunniare i medici di qui come incapaci? Sei sicuro tu che qui non ci sia un dentista bravo abbastanza per piantare dei denti nelle gengive di un imperialista?». Capii l'aria che tirava e mi accomiatai al più presto. In seguito fecero sapere per vie indirette che era desiderio del popolo di non vederci più. Capitava spesso che qualche cristiano venisse a raccomandarmi a non farci vedere per le vie del rione, che al nostro apparire c'era chi imprecava. Nessun dubbio sul buon cuore di quei cristiani, ma si può star sicuri che essi erano strumenti inconsci della polizia, poiché s'è poi scoperto che erano gli stessi emissari della polizia ad imprecare a bella posta per farsi udire da qualche cristiano e spargere il terrore tra noi. Comunque, ci sentimmo sorvegliati, mal tollerati e costretti all’immobilità.
    Intanto, con l’andar del tempo, la polizia allungava i suoi tentacoli fin dentro la comunità dei cristiani. Essi venivano chiamati nottetempo da qualche commissario, sottoposti a lunghe conversazioni notturne, fatte di indottrinamento, di interrogazioni, di calunnie contro di noi; venivano dati loro incarichi speciali di vigilarci e di riferire alla polizia; questa, dal canto suo — dichiaravano gli sgherri — riceveva rapporti da altre spie e quindi sarebbe stato dannoso per l'incaricato il non riferire tutto e bene. Sarebbe come una specie di autoaccusa di connivenza con gli imperialisti il non riferire tutto e bene. Tanto più che quei poveri diavoli scelti a questo incarico erano persone incriminate e sospette per aver collaborato con l'antico governo, alle quali perciò venivano date quelle mansioni come mezzo dì riscatto.
    Il silenzio era loro imposto sotto la minaccia di pena capitale. Ma i cristiani buoni vogliono prima far i conti con la loro coscienza. E venivano a chiedere consigli precisamente da noi sul come comportarsi in un imbarazzo così grave.
    Attraverso questi, nel 1951, apprendemmo di un «consiglio-ordine» della polizia di non prender parte troppo attiva nelle funzioni religiose giacché non sta bene vedere il popolo cinese inginocchiato dietro un imperialista straniero funzionante sull’altare.
    Nel frattempo ricevevamo visite di certi bellimbusti, tre o quattro alla volta, i quali, senza tanti preamboli, entravano nelle nostre stanze e le perquisivano. Poi, senza un motto della più ovvia urbanità, se ne andavano. Eravamo considerati già prigionieri; ed io dovetti diradare ancora le rare uscite dalla residenza.
    Morto il vescovo, per risentimento del modo barbaro con cui fu trattato durante la malattia (non si permise al medico di venirlo a visitare e non venne permesso a lui stesso di andare all'ospedale di Tientsin) volli far qualche passo oltre i limiti prescritti sino a un rione lontano di Yutze per visitare un sacerdote infermo. Fui visto, ma nessuno mi disse niente: tanto dovevo pagarla una volta per tutte.
    In Corea era stato firmato l’armistizio e nel mondo sembrava tornata la calma. Pensavo che quella distensione internazionale tornasse un poco anche a mio vantaggio. Pioveva la mattina del 6 novembre 1953. Chi può uscire di casa quando piove? Maggior ragione di calma e tranquillità. Stavo facendo lezione di medicina alle suore, quando un brutto ceffo, di nome Lao Siè, entra e squadrandomi con due occhi cattivi mi dice: «Ah, tu stai qui». «Sì, come vedi». — E lui: «Finisci pure la tua incombenza con comodo, prego». Dopo una decina di minuti, come annoiato, riprende: «Non hai ancora finito?». «Sì, eccomi pronto: desideri?». Egli mi invita ad uscire dicendomi: «Andiamo in camera tua, avrei piacere di fare due chiacchiere con te. Oggi questa pioggia mi impedisce di andare a vedere la commedia, perciò mi permetto di venirti a disturbare». Io andavo chiedendomi come mai tanta gentilezza; che mi porti il permesso di tornare in Italia? Son tre anni che aspetto.
    Alla porta della mia stanza vi era un altro che non conoscevo, il quale sorridendo mi fa segno d'entrare. «Bene, entrate anche voi due» — dico io. Però uno solo di essi, il Lao Siè, entra e l'altro invece si dilegua. Mentre ero tutto intento a fare gli onori di casa a Lao Siè, che si mostrava così gentile, improvvisamente irrompono nella stanza sei o sette poliziotti con baionetta in canna. Uno di essi mi spiana la rivoltella contro gli occhi, mi impone di alzare le mani e mi grida: «Tu sei un imperialista, nemico del popolo, istitutore della reazionaria Legione di Maria! - Ordine del governo del popolo: da questo momento sei in arresto».
    Con manette di ferro mi legano le braccia dietro alla schiena. Con uno spintone mi cacciano fuori dalla stanza e via, sotto la pioggia, fra una truppa d’una cinquantina di poliziotti armati. Non mi sarei mai immaginato che ci fosse bisogno di tante forze armate per me.
    Le vie erano deserte, sia per la pioggia e sia per i picchetti armati piantonati agli sbocchi. Qualche bimbo occhieggiava dalle porte semichiuse. «Avanti, mascalzone: non girare il capo e gli occhi a destra e a sinistra» — mi ordinò il poliziotto capo con uno strattone alle manette provocandomi un dolore orribile. «Maledetta tua madre! Va adagio! Cosa ti metti a correre? Vorresti scappare dalle nostre mani?». E giù un'altra stretta accompagnata dalla irripetibile precedente bestemmia.
    Alla porta del carcere fui perquisito da capo a piedi. Non mi fu lasciato niente addosso. Era una stanzaccia larga tre metri, col piancito rugoso e sconnesso, luridissima. Un piano elevato di mattoni con sopra una stuoia lacera. Un finestrino inferriato in alto. Non vi era l'ombra di un sedile. Sul piano elevato di mattoni si vedevano nella semioscurità tre individui seduti uno appresso all'altro: capo infossato tra le spalle, occhi sbarrati e confusi, braccia conserte coi gomiti appoggiati sulle ginocchia, gambe contratte e tenute una sull'altra: sembravano esterrefatti.
    «Ecco il posto destinato a te; su quel pezzo di stuoia vicino al muro: é fa di starvi disciplinarmente». La voce rauca e dura di questo comando mi sconvolse. Ero in prigione. La cruda realtà mi si parò dinanzi improvvisa. Come farò a vivere qui? Sarà provvisoriamente, pensavo. Possibile che questa sia un'abitazione umana? Gli altri tre mi guardavano zitti. Ero madido di acqua e di sudor freddo; ma non davo a ciò molta importanza, giacché il guaio principale erano le manette che mi stringevano le mani procurandomi un acuto dolore.
    Intanto cerchiamo di farci qualche amico. Mi rivolsi ad uno di quei tre chiedendogli: «Da quanto tempo ti trovi qui?».
    «Poche chiacchiere inutili — fu la risposta — Pensa ai tuoi delitti e al modo di redimerti, e basta».
    Fu come una botta sulla testa. Tacqui subito. Sedevo immobile come una statua e andavo intanto ripensando all’arresto improvviso, al rigore del carcere e chissà per quanto tempo avrei dovuto starci; e a che cosa potrei aver commesso contro le leggi del governo. Salvai tanti cinesi dalla morte e dal carcere durante l’occupazione giapponese; ne aiutai tanti altri in cento modi: asilo ai profughi, scuole ai bimbi poveri, assistenza agli orfani, e tanti altri quotidiani modi di carità cristiana. Avevo ceduto al governo del popolo gli edifici del seminario, della residenza centrale, le case attigue: si tratta di non meno di 230 vani. Avevo comprato numerose schede del prestito nazionale; avevo lasciato al governo una gran quantità di materiale da costruzione; avevo lasciato al popolo oltre quindici ettari di terra da noi dissodata e resa fertile; avevo beneficato il popolo con l'istituzione di un ambulatorio medico; avevo anche prestato le mie mansioni ecclesiastiche di parroco e di procuratore diocesano al clero indigeno per non venir tacciato di imperialista. In che cosa avrei potuto mancare? Forse qualche mormorazione contro le ingiustizie perpetrate dal governo verso di noi?
    Un acuto dolore alle mani mi riscosse. Per attutirlo mi alzai in piedi. «Ohe, ohe, chi t’ha dato il permesso di muoverti? Credi di trovarti a casa tua? — mi apostrofa uno dei carcerati. — Devi sapere che senza un debito permesso, qui non devi muoverti affatto. Hai capito?».