Confidenze sull'America e sulla libertà

    La campagna dell'odio contro l'America, organizzata da quando è al governo Malenkov, non è stata soltanto un fallimento in tutte le provincie dell'impero sovietico, ma si è ritorta in certo qual modo a danno del Governo e dei suoi organi di partito; ha avuto l'effetto del lancio di un boomerang.
    In nessuna delle città dell'Unione Sovietica che ho potuto visitare ho avvertito alcun segno di avversione all'America; perplessità sì, ed anche molta curiosità, e quanto all'odio predicato dagli altoparlanti della propaganda ufficiale, un senso diffuso di scetticismo e, in molti casi, un'assoluta incredulità; tranne — beninteso — tra i servitori stipendiati del partito.
    Non mi sono mancate le occasioni di discorrere a quattrocchi con dei cittadini sovietici, comunque e dovunque mi capitassero a tiro; sulla panchina di un giardino pubblico, in qualche cantuccio tranquillo di una sala d'aspetto della ferrovia, in un aereo semivuoto, in trattoria, ed anche per la strada, dove attaccavo discorso con qualche passante scelto a caso. Sulle prime, erano tutti guardinghi e sospettosi ad un modo, ma poi capivo bene che erano contenti, specialmente nelle città fuori mano, di veder finalmente un americano in carne ed ossa, e di potergli fare tante domande che da anni, evidentemente, mulinavano loro in mente. Ho conversato, così, con molte diecine di persone di tutti i ceti, e l'impressione comulativa che me ne è rimasta è che, qual più qual meno, hanno tutti una stessa parola in punta di lingua — libertà — anche se non osano pronunziarla.
    Sulla panchina di un giardino pubblico a Taskent, capitale della Repubblica di Uzbek, un russo mi abbordò per chiedermi se ero un delegato di una qualche deputazione di lavoratori. Gli spiegai che ero il corrispondente di un'agenzia di notizie giornalistiche, che ha negli Stati Uniti la sua sede centrale.
    — Un'agenzia governativa?
    — No, gli risposi: le nostre agenzie di notizie sono aziende private.
    — Ma allora siete liberi...
    In aeroplano, incontrai un ometto ben pasciuto che era partito da Mosca per assolvere una missione importante, della quale gli ho promesso di tacere i particolari. Fu lui a rivolgermi la parola.
    — Vedo che siete un americano — mi disse additando il mio pacchetto di sigarette. Gliene offrii una, naturalmente. Fumò in silenzio per qualche minuto, e poi mi rivolse le solite domande a cui oramai mi ero abituato: Perchè siete venuto in Russia? Siete un funzionario, un delegato di organizzazioni sindacali, un membro del partito comunista del vostro Paese? Quando si rese conto ch'ero un libero cittadino in viaggio per motivi professionali, un giornalista il più possibile spassionato, fece un gesto più eloquente di qualsiasi replica verbale: accostò le mani alla bocca e, stringendo le dita, fece segno come per dire che gli fluiva un torrente di parole dalle labbra.
    — Potete scrivere come volete? mi disse poi... E soggiunse: Dev'essere una gran bella cosa poter parlare a cuore aperto!
    Ed io, con aria ingenua: Volete dirmi che da voi non è lo stesso?
    Mi guardò di sotto in su per vedere se mi burlassi di lui, diede una scrollatina di spalle e sorrise. Continuammo a discorrere di giornalismo e dei diritti e doveri dei giornalisti nei paesi d'Occidente. Gli dissi, poi, di aver notato non senza qualche sorpresa che nelle repubbliche della Russia meridionale molte città erano state ribattezzate coi nomi dei capi del Governo o del partito. Il russo tornò a ridere:
    — E perchè no, mi disse. Nulla ci impedisce di dare il nome di
    Belzebù con tutta la sua corte alle nostre città, se vogliamo cavarci questo capriccio!
    In un'altra, città, parlai a lungo con un ragazzo di quattordici anni il quale portava l'uniforme degli operai addetti alle ferrovie. Incominciai col chiedergli che uniforme fosse quella, e mi rispose che stava studiando per diventare un «mastyer», (capomastro o sorvegliante o qualche cosa di simile).
    — Ma non vorresti fare il meccanico o, che so io, studiare da ingegnere?
    — No, sarò un «mastyer».
    — È un mestiere che ti piace?
    — Mi piaccia o no, l'ho da fare.
    Quel ragazzo aveva un volto quasi da adulto e due occhi pieni di intelligenza e di curiosità. Difatti, prendendo coraggio, mi scaricò addosso un fuoco di fila di interrogazioni: se in America gli studenti portano l'uniforme, se possono studiare le materie che li interessano di più, se sanno niente dell'URSS, se sono iscritti ai reparti giovanili del partito. Ad ogni mia risposta, annuiva pensosamente, senza mai replicare.
    In un'altra città della Russia meridionale attaccai discorso con un giovane dall'aria malinconica che sedeva di fronte a me in una trattoria. Era ben vestito a confronto del solito tipo inclassificabile di cittadino sovietico, era perfino elegante: doveva essere una persona agiata. Cominciò dalle sigarette.
    — Dove le avete trovate le Lucky Strike?
    — Le ho comprate a Berlino, nella zona americana.
    — Ah già, siete un americano... Ma le sigarette di contrabbando si trovano pure in Russia: Lucky Strike, Camel, Morris... e giù una filza dei nomi delle più note sigarette americane. Come faceva a conoscerne tante? A Leningrado e a Mosca, dov'era andato subito dopo la fine della guerra, aveva fatto amicizia con molti americani. «Del resto, soggiunse abbassando la voce, le Lucky Strike e le altre si trovano anche adesso, chi sappia dove andare a cercarle...».
    Poi mi disse: — Io voglio bene agli americani.
    In una sala d'aspetto della ferrovia, sedetti accanto ad una donna del popolo, una donna matura, sulla cinquantina, la quale mi domandò di punto in bianco se anche in America le donne sono addette ai lavori pesanti. Le dissi di no, e che c'è una legge apposta che vieta il lavoro pesante alle donne presumendo che esse non possiedano la necessaria resistenza fisica. Non disse più nulla; con un largo sorriso meditativo, che sollevò triangoli di rughe sul suo volto riarso dai venti della steppa, incrociò sul grembo le mani nodose e sospirò.
    Un'altra conversazione più interessante l'ebbi con un ingegnere, il quale era stato ufficiale, sul fronte d'Occidente durante la guerra. Quel che l'aveva più colpito, mi disse, era il contrasto fra la «manica larga» degli americani e la ferrea disciplina imposta ai soldati sovietici. Era un uomo colto, un osservatore sagace, un esponente abbastanza qualificato, e così mi parve, dell'opinione pubblica colta che rispecchia il pensiero e le aspirazioni della nuova borghesia russa. Mi disse, che, con Malenkov, le cose sono cambiate per il meglio. — Dovete tener conto, soggiunge, che il nuovo governo è al potere da pochi mesi, ha ancora da farsi le ossa... Ma ora lavoriamo tutti con passione.
    Nel mio campo per esempio, si lavora giorno e notte per costruire nuove centrali idroelettriche e se non fosse per la carestia di mano d'opera, si farebbe anche di più. Non abbiamo abbastanza braccia per fare tutto ciò che vorremmo.
    Quanto alla tecnica, l'ingegnere ammise che l'America è molto più progredita e che gli operai americani sono molto meglio pagati dei russi. — Badate, però — mi avvertì — il nostro Governo dice la verità: le cose vanno meglio e fra due o tre anni andranno meglio ancora. Abbiamo molta strada da fare, ma arriveremo...
    Quel giovine ingegnere, non appena il disgelo della guerra fredda sarà a buon punto, come egli spera che avvenga presto, vuol andare in America per vedere che progressi vi ha fatto l'ingegneria. Per ora, lui e gli altri ingegneri giovani divorano i pochi giornali tecnici americani che possono procacciarsi.
    — E che pensate, gli domandai, delle nuove invenzioni russe di cui danno così frequenti notizie i vostri giornali?
    Capii dal suo sguardo che la Russia dei giovani colti non si lascia illudere da quelle millanterie.