Non povertà, ma miseria

    I comunisti sovietici hanno una spiegazione pronta per qualsiasi cosa. Non v'è situazione, per quanto sconcertante o bacata da contraddizioni, che li metta a disagio dinanzi ad uno straniero.
    Meraviglia vedere le donne impegnate ad assolvere i mestieri più pesanti? Non v'è motivo di meravigliarsi, obiettano: è così perchè nell'Unione Sovietica le donne hanno gli stessi diritti degli uomini. È sorprendente l'affluenza della gente alle chiese? Non dovrebbe sorprendere, poichè la costituzione garantisce la libertà di religione: e poi, in chiesa ci vanno in realtà soltanto i vecchi. Si vedono mendicanti in giro? È gente che, non essendosi ancora riscattata dalla vecchia mentalità, fa della mendicità un mestiere: gente da tollerare e che, in ogni caso, è espressione di una generazione prossima ad estinguersi.
    Questo dei mendicanti è un argomento che merita un discorso a parte. Non varrebbe forse la pena di trattarlo se il fenomeno a sè stante e la spiegazione che ne danno i comunisti sovietici non fossero in fortissimo contrasto. I mendicanti non sono superstiti ruderi della vecchia generazione, ma è gente di tutte le età, travolta da casi pietosi.
    Alcuni hanno aspetto straziante. Sui loro volti e nei loro panni c'è talvolta l'agonia che viene da una miseria indescrivibile. E non voglio dire che altrove nel mondo sia diverso, ma ciò che sgomenta è che nell'Unione Sovietica il regime si ostina a ignorare questo fenomeno della miseria come fatto sociale.
    A Stalinabad, capitale della repubblica Tadgika, una giovane donna con un neonato in braccio era seduta su una cesta all'ingresso di un edificio governativo: sembrava in fin di vita e di tanto in tanto si scuoteva in singhiozzi chiedendo l'elemosina. Un'altra giovanissima donna, non avrà avuto venti anni, l'ho vista rannicchiata nell'atrio di un grande emporio sulla via Lenin a Kiev, la capitale dell'Ucraina; aveva anche lei un bimbo in braccio, era tutta stracci, e teneva una mano abbandonata sul pavimento in attesa di copeki. Le guardie la ignoravano, la maggior parte della gente le passava accanto senza notarla. Questi sono spettacoli che non v'è città sovietica che ne sia priva, e che è dato vedere in misura rilevante.
    La gran parte dei mendicanti si assembra dinanzi e vicino alle chiese tuttora aperte, e sembrano i soli ai quali la gente dia qualcosa. Il regime li ignora, disprezzandoli e chiamandoli residui di una mentalità superata dalla rivoluzione bolscevica. Si tratta invece di storpi, di ciechi, di infermi, di gente denutrita e, naturalmente, di vecchi. A Mosca i mendicanti vivono molto spesso sulla strada e cercano di trovare riparo durante la notte nelle stazioni della metropolitana, dalle quali la polizia tenta, spesso inutilmente, di farli sgomberare nelle prime ore del mattino. Altri vivono in cantine vicino o sotto le chiese, oppure si agglomerano nelle baracche mezzo sfondate alla periferia della capitale.
    Non era per amore di polemica che mi sforzavo di trovare una spiegazione accettabile al fenomeno di tanta desolante povertà in una società, quale la comunista, che afferma di aver cancellato ogni traccia di miseria abbietta. Tentavo unicamente di stabilire perchè un regime che fa del livellamento sociale uno dei dogmi basilari del suo credo abbandona in uno stato di abiezione chi, per un qualsiasi motivo, si trovava o è precipitato molto in basso. Ho urtato sempre contro un muro di incomprensione, nonostante sia impressionante il divario fra le condizioni più o meno accettabili in cui vive la grande massa e questa classe di relitti umani.
    Relitti che sanno di essere tali e, nella maggioranza dei casi, vivono a torme. Ad Alma Ata, la nevosa capitale del Kazakhstan, si tenevano raggruppati al termine della via Kalinin, vicino alla chiesa di rito ortodosso. A Taskent, capitale dell'Uzbekistan, avevano fatto gruppo sulla via Lenin gli storpi, e la maggior parte erano sistemati su rudimentali sedie munite di ruote che si erano costruite per loro conto con assi di legno, pezzi di lamiera, ruote rappezzate e spezzoni di corda e filo di ferro. Sempre a Taskent, un pomeriggio, ho incontrato una decina di mendicanti che se ne stavano appisolati sotto i nuovi caseggiati occupati sulla via Puskin da quel ceto medio che costituisce il più recente dei fenomeni sovietici.
    A Tiflis, la capitale della Georgia, i mendicanti erano concentrati in gran numero dinanzi alla grande chiesa ortodossa, sullo sfondo della principale arteria della città. A Kiev facevano ressa, uomini, donne e bambini, presso il portale della cattedrale Andreievski; un altro gruppo cospicuo sostava dinanzi al «Lavra», l'antico seminario ucraino nel cuore di Kiev. E mendicanti anche lungo la via Scevcenko e la via Lenin, due delle principali arterie della capitale ucraina.
    In ogni straniero, comunque, l'immagine dei mendicanti nell'URSS si associa all'immagine delle chiese soprattutto. Li accomuna di fatto, oltre la solidarietà dei religiosi verso i poveri, il distacco col quale li considera il regime. Perchè anche delle chiese hanno tenuto a sottolinearmi che si tratta di residui dello zarismo, e che si estingueranno per consunzione, ignorate dalle nuove generazioni.
    Da poco più di una decina d'anni, da quando cioè il clima di guerra impose al regime di assecondare, anche se con parsimonia, le esigenze spirituali della popolazione, molte chiese sono state riaperte al culto. Nei giorni festivi l'affluenza ai templi è rilevante. Non molti i giovani: in genere a riempire le chiese sono uomini e donne di media età e anche un certo numero di ufficiali anziani dell'esercito. È invece molto difficile vedervi i ragazzi, e quei pochi che ci vanno sono i più piccoli di casa, quelli che le madri portano con loro dovunque.
    Delle chiese, quelle che registrano affluenza sono quelle di rito ortodosso, le uniche ad avere espresso un clero di obbedienza governativa.
    Nella chiesa cattolica di Mosca, all'ombra del carcere «Lubianka», sono pochissimi e tutti vecchi i fedeli che seguono le funzioni officiate da un sacerdote lituano.