Atto primo - scena terza

Riflessioni dell'uomo comune

    Come accadrà mai, nella patria del socialismo e dei lavoratori, che i lavoratori non contino proprio nulla? Fino a ieri infatti, così i loro fogli, tutti i lavoratori di Russia (e del mondo) applaudivano con libera scelta all'artefice di tutte le vittorie: militari, politiche, economiche. Oggi ci dicono che, mutata la decisione dei nuovi capi, finalmente si parla con libertà di quell'uomo infame che non rispettò gli insegnamenti di Lenin, e impose agli altri la propria volontà, che massacrò gli innocenti, che falsò la storia. E i lavoratori, esprimono, nella critica e nell'autocritica, il loro severo giudizio sugli errori di Stalin.
    Allora, fino a ieri, la patria dei lavoratori non altro fu che una terra di schiavi al capriccio del despota. Ieri, dunque, i lavoratori osannavano a Stalin solo perché vi erano costretti. Eppure si parlava della patria ove il lavoratore era l'arbitro della sua volontà.
    Oggi, invece..., chissà, forse anche oggi, in questo ributtante voltafaccia sul cadavere di uno dei più grandi assassini della storia, i lavoratori non sono liberi di dire quello che pensano. Così come le lodi di ieri, gli insulti di oggi hanno tutto il sapore di atteggiamenti obbligati. Parole d'ordine.
    Come credere, d'altra parte, agli uomini che oggi condannano Stalin e lo fanno condannare dagli operai e dal popolo? Non sono essi forse gli stessi che collaborarono con lui a tutti i suoi orrendi misfatti? Ieri erano gli esaltatori adulanti che mangiavano alla greppia del padrone; oggi, che il padrone è morto, sputano vilmente sul piatto in cui tanto lungamente mangiarono. Essi collaborarono con Stalin per il mito Stalin. Essi pure, quindi, sono con lui gli attori della grande truffa ai danni dei lavoratori di tutto il mondo.
    Sapevano che Stalin barava al gioco sul tavolo del marxismo-leninismo: lo esaltarono quale inarrivabile maestro di marxismo-leninismo. Sapevano che falsava la storia e la cultura e l'arte: lo indicarono come realizzatore inarrivabile della cultura e dell'arte. Sapevano che costringeva a ripetere ciò che egli aveva preparato, senza lasciare libertà: lo additarono quale campione della libertà. Sapevano che condannava o fucilava senza prova, estorcendo le confessioni: collaborarono con lui a condannare e a fucilare degli innocenti, additandoli alla esecrazione del popolo.
    Sapevano tutte queste orribili cose: non le denunciarono, non si opposero. Erano vili: avevano paura loro, i rivoluzionari d'avanguardia. Non denunciarono, non si opposero al traditore del popolo, al violatore della libertà, all'assassino criminaloide di innocenti: perché erano vili.
    Ma fecero di più: collaborarono con lui, lo sostennero, lo approvarono, lo difesero dagli attacchi delle vittime: erano assassini come lui. Peggiori di lui. Ributtanti danzatori di tarantelle, stomachevoli mandolinisti su ordinazione.
    Mi sono riletto il discorso di Togliatti in occasione del 70° compleanno di Stalin a Mosca. E tenevo sul tavolo, con l'Unità di quel dicembre '49, anche l'Unità del 15-3-1956 ove c'è ancora Togliatti che parla di Stalin.
    Quale ributtante contrasto!
    A Stalin vivo, Togliatti confessò entusiasta la sua assoluta ammirazione, e fece giuramento di essergli fedele, nel marxismo-leninismo e nelle realizzazioni del socialismo in Italia : «fare in Italia ciò che lui ha fatto in Russia» , era il programma (Unità, Ed. Milano, 5-1-48).
    Un meraviglioso programma.
    A Stalin morto Togliatti rimprovera di aver falsato il marxismo-leninismo.
    A Stalin vivo gli evviva più invasati.
    Sul suo cadavere, dopo tre anni, le accuse più infami.
    Togliatti sapeva, allora, che Stalin uccideva gli innocenti estorcendone le confessioni.
    E giurò di seguirne l'esempio.
    Togliatti sapeva che Stalin barava sul tavolo dell'ideologia marxista-leninista.
    E giurò di seguirne l'esempio.
    Togliatti sapeva che Stalin era un dittatore crudele.
    Togliatti sapeva che Stalin reprimeva ingiustamente.
    E giurò di seguirne l'esempio.
    Togliatti sapeva che Stalin si metteva al di sopra degli organi del partito violandone lo Statuto.
    E giurò di seguirne l'esempio.
    Togliatti sapeva che Stalin voleva essere adulato.
    E giurò di seguirne l'esempio.
    Togliatti sapeva che Stalin favoriva il carrierismo.
    E giurò di seguirne l'esempio.
    Come Togliatti anche Longo e Secchia e i dirigenti tutti.
    Quale misero esempio di servilismo a quelli che comandano a Mosca! Pensiamo con ammirazione a quei compagni comunisti che, sulla parola del Togliatti dello Stalin vivo, affrontarono con coraggio le torture e la morte.
    Peccato che si siano immolati per una mostruosità così indegna.
    Peccato che il loro coraggio eroico sia servito e serva da maschera ai loro dirigenti. Che sono poco coraggiosi davvero.
    Quale attendibilità possono più avere le parole di siffatta gente? E' mai possibile che il buon senso dei lavoratori non debba prevalere? Possibile mai che i lavoratori non ancora abbiano capito che i dirigenti del P. C. sono dei profittatori della loro povertà, sono degli speculatori sul loro salario magro e insufficiente, sono dei giocolieri funamboli di ogni illusione?
    E' tanto triste constatare come i lavoratori stessi, affidando le loro giuste istanze a gente come quella, abbiano ormai quasi compromesso l'esito della loro lotta. Si sono paurosamente divisi, i lavoratori.
    E incitati da quei dirigenti, essi hanno ciecamente obbedito, hanno ciecamente creduto. Siamo arrivati al punto in cui si sono massacrati dei lavoratori da parte di altri lavoratori, unicamente per odio di partito. E ne è nato un solco profondo di divisione incolmabile. Ne è venuto l'asservimento del sindacato al partito di quei dirigenti. Ne è venuta la frattura sindacale.
    Chi può averci guadagnato, in tutta questa stolta separazione di fratelli?
    Qualcuno ha accusato la Chiesa che, fino da allora, condannava l'asservimento alla volontà di Stalin, despota anticristiano.
    Oggi quella condanna si trasforma in formidabile chiarezza di verità: Stalin non faceva gli interessi dei lavoratori. Chi aveva, dunque, ragione?
    Per lui si è fratturata la unità sindacale. Sono stati i lavoratori della C.G.I.L. a voler credere a lui piuttosto che alla Chiesa che — finalmente si è visto — diceva la verità.
    L'unità dei lavoratori, premessa necessaria ad una vera società giusta nei rapporti del lavoro, può realizzarsi solo abbandonando quegli uomini che, loro stessi lo dicono, fino ad oggi li hanno imbrogliati.
    Ciò che più sgomenta in quei dirigenti è la faccia tosta con cui continuano a parlare.
    Dopo l'indegna truffa ai danni dei lavoratori, durata fino al nuovo ordine venuto da Mosca, quei capi continuano a parlare come se essi fossero sempre stati leali e sinceri. Come se non li riguardasse la retromarcia faticosa nel nome del padre dei popoli ecc. ecc. Hanno spudoratamente mentito per anni. Per decine di anni. E osano, ora, continuare a presentarsi paladini della sincerità e della verità.
    Con una spudoratezza senza pari presentano il loro mutamento come un atto di coraggiosa autocritica.
    Potrà essere sincero l'impegno per l'avvenire dì questi abituati carrieristi? E' facile prevedere di no.
    E' coraggiosa la critica a un morto? E' facile dimostrare di no. Ma non il futuro ci interessa soltanto. E' il loro lurido passato che ci sgomenta. Possibile che decine di anni di truffe e di menzogne e di assassinii si debbano dimenticare d'un colpo, riammettendo nel consorzio civile i colpevoli e riabilitandoli a tutti gli effetti? Decine d'anni di vergognosi errori e di indegni atteggiamenti, in regime
    rosso si pagano con la fucilazione. In regime di libertà si può concedere ai responsabili, dopo recitato il mea culpa, di ritirarsi a vita privata. Ignominiosamente. A vergognarsi della propria miseria e della propria viltà.