Appendice

Il cristiano e lo sciopero

    Lo sciopero altro non è essenzialmente che una concertata cessazione del lavoro. Ci sono scioperi che sono reazioni collettive di un gruppo di salariati i quali si sentono solidali di fronte ad una ingiustizia. Ci sono pure scioperi i quali sono determinati dalla volontà di migliorare le condizioni sociali dei lavoratori attraverso ad una effettiva partecipazione degli operai agli utili di una impresa. E ci sono anche scioperi politici.
    Bisogna notare subito che lo sciopero non è un mezzo normale per raggiungere la giustizia sociale o per mantenere equilibrata la posizione sociale. Moralmente pertanto è da augurarsi che si possa arrivare ad una tale organizzazione della giustizia economica da poter togliere allo sciopero ogni ragion d'essere. Questo perché la sua natura ha piuttosto i caratteri di un atto di violenza. Violenza tuttavia che, in via eccezionale, può diventare legittima di fronte ad una violenza più grave. Appunto per questa sua natura di violenza lo sciopero resta un mezzo estremo, l’ultima ratio cui si può ricorrere per ottenere ciò che l'egoismo e l'incomprensione hanno reso inottenibile per via ordinaria e normale.
    D'altra parte il fatto che lo sciopero appaia sancito come diritto nella Costituzione non esime dal considerarne la natura morale.
    Lo sciopero è dunque lecito? Riferendosi al suo elemento essenziale «cessazione concertata del lavoro», lo sciopero non è cattivo in se stesso. Né basta a renderlo cattivo il fatto che sovente esso è accompagnato da taluni atti di violenza o da taluni effetti dannosi. Violenza e conseguenze dannose restano infatti separate, per definizione, dallo sciopero: non ne costituiscono l'intima natura, quindi nulla hanno a che vedere con la sua moralità. Comunque la moralità dello sciopero è, in qualche modo, legata ai motivi che lo determinano.
    È intuitivo che lo sciopero, per essere lecito, presuppone delle rivendicazioni lecite. Non basta infatti che la cessazione del lavoro sia lecita, ma bisogna che pure il fine da raggiungere sia lecito.
    Supponendo che lo sciopero sia motivato dalla volontà di far rispettare il contratto di lavoro più o meno larvatamente violato appare evidente che esso è lecitissimo. Né si può dire che rispetto del contratto di lavoro significhi soltanto la salvaguardia dei termini scritti del contratto. Non sono le parole che sono poste in causa, sì bene la giustizia commutativa la quale può esser violentata già preventivamente nella fissazione stessa del contratto, il quale fu accettato dal lavoratore per necessità, sia dalla situazione cangiante dell'economia. Così un contratto giusto al momento della sua stipulazione può risultare essenzialmente ingiusto col cangiare delle situazioni economico-sociali.
    Pertanto anche il riequilibramento dei salari in riferimento agli utili e al costo della vita si iscrive d'evidenza nel campo della giustizia propriamente detta.
    Non altrettanto può dirsi se lo sciopero mira ad ottenere un miglioramento delle condizioni sociali del lavoratore senza diretto riferimento al contratto salariale. Tale fine, pure umano, non s'iscrive nei termini della giustizia ma solo in quelli ben vicini della aequitas. E ciò non tanto per la cosa in se stessa quanto per la mancanza di istituti giuridici che permettano a questo sforzo di riabilitazione umana di richiamarsi alla giustizia.
    Sarebbe tuttavia immorale voler negare all'operaio il diritto al miglioramento della sua situazione col pretesto che la legislazione non contempla le sue eventuali rivendicazioni. Lo sguardo cristiano nel mondo delle ricchezze giustifica pienamente l'aspirazione del lavoratore al miglioramento della sua situazione economica. Le ricchezze infatti il Creatore non le ha messe a servizio di pochi ma della comunità. Nulla pertanto di più cristiano di questa aspirazione a far accedere il maggior numero possibile di uomini al banchetto dei beni sociali. È d'altronde intuitivo che il cammino verso l'equilibrio sociale-economico si ripercuote d'istinto sul quadro della eguaglianza, dunque della fratellanza umana.
    Se lo sciopero per salvaguardare il rispetto del contratto di lavoro appare naturalmente giusto, non così può dirsi dello sciopero per migliorare la situazione. A esaminare però a fondo la situazione s'avverte anche nel secondo caso, sia pure attraverso la complessità dei congegni produttivi, che il salariato non è semplicemente al servizio del datore di lavoro, ma che l'impresa stessa si inserisce nel gioco della produzione nazionale e che pertanto lavoratore e datore di lavoro collaborano al benessere della comunità. Il fatto di essere entrambi collaboratori a tale benessere, per mezzo della produzione, da ad entrambi il diritto di attingere al provento della comunità (cfr. Pio XII, Allocuzione del 7 maggio 1949). È normale infatti che colui che collabora al bene di tutti possa attingere al reddito comune. Se pertanto il reddito comune aumenta, appare evidente il diritto del lavoratore a partecipare all'aumento degli utili. Negare al lavoratore il diritto di sciopero per ottenere il miglioramento della sua situazione si riduce, in termini ultimi, ad affermare che il datore di lavoro, lui solo, ha il diritto all'aumento degli utili che pure derivano da una collaborazione del capitale col lavoro dell'operaio. Per un'altra strada, se si vuole, ma sempre giustamente, lo sciopero tende a salvaguardare la stabilità della equità del contratto.
    Il cristiano non può fare, a priori, di ogni fatto della vita operaia (sciopero o rivendicazione) una operazione di guerra. Egli non può fare a priori di un istituto (sindacato o comitato d'impresa) uno strumento di lotta. Egli non può situare, per principio e da principio, ogni cosa nella visuale della violenza. Una rivendicazione operaia, per un cristiano, prende il suo significato per se stessa e non in funzione di una lotta, sia pure necessaria. Una rivendicazione di salario, p. e., deve essere perseguita in ragione della sua giustizia intrinseca e non certo per ottenere un rifiuto dal datore di lavoro, allo scopo di mettere in agitazione la fabbrica. Si deve agire con assoluta lealtà per tentar di ottenere ciò che si rivendica; e solo dopo, in caso di rifiuto, si potrà in date condizioni ricorrere allo sciopero. Il quale è di natura sua un atto di violenza.
    Da ciò ne deriva che un cristiano può anche prospettarsi la eventualità di un combattimento operaio. Di una azione violenta, in qualche maniera.
    Certo c'è violenza e violenza. La violenza lecita ad un cristiano è quell'azione in cui esso sia obbligato a impiegare dei mezzi illegali come, p. e., la occupazione di fabbriche e cose del genere. Ci possono essere invero situazioni così assurde da obbligare un cristiano a passare a siffatte azioni.
    Il cristiano è uno «impegnato» a far sorgere nel mondo, ad ogni costo, la dimensione umana. La quale tocca, da un lato, gli inalienabili diritti del lavoratore, e dall'altro, i pure inviolabili diritti dei padroni.
    Né ci si può appellare, contro lo sciopero, ai danni che ne derivano alla comunità. Tali danni infatti, certo reali, sono compensati dai benefici che uno sciopero giusto apporta sempre. Anche quando lo sciopero non ottiene immediatamente lo scopo prefisso, esso resta tuttavia un innegabile strumento di progresso nel campo della giustizia sociale, sempre tenendo presente la natura eccezionale del ricorso a tale arma.
    Quanto allo sciopero politico bisogna notare che, se esso rientra perfettamente nella logica marxista, esso fluisce però da una concezione errata e totalitaria della vita sociale. Lo sciopero è un'arma, d'eccezione d'altronde, essenzialmente sociale. Metterla pertanto a servizio di altri scopi è falsarne la natura, è un ricadere nel medesimo vizio di chi giustifica la violenza. Lo sciopero puramente politico è quindi immorale.
    Non si intenda però per «sciopero politico» ogni sciopero che metta in questione lo Stato o il Governo. In tanti casi infatti lo sciopero tocca, direttamente o indirettamente, lo Stato. I salariati statali o di imprese nazionalizzate si trovano, nella ipotesi di una rivendicazione giusta, alle prese con lo Stato. In tal caso però lo Stato è in causa in quanto datore di lavoro e non in quanto fattore di politica.
    Moralmente lo sciopero è ammesso allorché ci si trova di fronte ad una rivendicazione giusta cui non si poté arrivare in altro modo. Esso deve inoltre sempre salvaguardare i diritti certi dei terzi.
    Lo scioperante cattolico, il quale avrà dovuto ricorrere allo sciopero come mezzo estremo per salvaguardare la giustizia, deve tener presente, nel corso dello sciopero, che egli non è dispensato dall'osservare integralmente tutta la legge morale. Il corso dello sciopero quindi non può dimenticare e calpestare la libertà, la integrità e la proprietà altrui. Uno sciopero per quanto giusto nelle sue aspirazioni, ma che si servisse di mezzi violanti i diritti certi degli altri, scadrebbe dalla sua liceità.
    Un atto diventa cattivo per uno qualsiasi dei suoi componenti che sia cattivo .

    Serrata. La serrata è una specie di «sciopero dei datori di lavoro»; è infatti il rifiuto da parte loro di fornire lavoro. È una istituzione di marca puramente liberale. Nella Costituzione Italiana è riconosciuto il diritto di sciopero (art. 40 «Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano») ma non il diritto di serrata.
    Non certo la Costituzione Italiana è norma per valutare la moralità o meno di un istituto. Moralmente la serrata partecipa della natura dello sciopero. Si tratta però di datori di lavoro, la cui situazione economica non è certo «a zero». Il danno dunque cui, per mezzo della serrata, intendono ovviare non è sempre di tale entità che ne giustifichi gli effetti disastrosi: la mancanza del pane nelle case dei lavoratori.

    Non collaborazione. La non collaborazione consiste nella applicazione alla lettera dei regolamenti di lavoro, rifiutando assolutamente ogni altro movimento che non sia direttamente contemplato nel contratto.
    L'operaio non collaboratore, per esempio, rifiuterà il suo apporto allo spegnimento di un incendio scoppiato improvvisamente nella fabbrica, col pretesto che il suo lavoro contrattuale non è quello di spegnere gli incendi: l'operaio non collaboratore, entrando in fabbrica, non accenderà la luce poiché quello non fa parte del contratto firmato con il datore di lavoro, ecc. ecc.
    Essa da una produzione volutamente ridotta e scadente pur pretendendo la retribuzione integrale. La non collaborazione è della stessa natura del furto.