Sicuro che se io ti venissi a raccontare tutte queste cose senza darti la possibilità di controllarne la verità, tu potresti anche pensare che io sia un farabutto qualunque. Uno dei soliti attivisti che fanno propaganda per imbrogliare le idee degli altri.
No, no. Io te lo dico subito dove ho imparato queste cose. La legislazione sul lavoro? Ecco, è un libro che si intitola così: CODICE SOVIETICO DEL LAVORO. È stato tradotto in italiano da Mario Matteucci, uno che sa bene il russo, nel 1945. D'accordo che non ci sono le ultimissime disposizioni governative sul lavoro. Ma quelle ce le diranno coloro che sono stati in Russia. Essi ci diranno anche come sia la realtà del lavoro in Russia, cioè l'applicazione della legge.
Come? Tu dici che io prenderò degli uomini che parlano per partito preso? No. Se io riportassi le testimonianze di un democristiano tu avresti ragione di dubitare delle sue affermazioni. Perché i democristiani sono avversari del Comunismo. E l'avversario, tu lo sai, dice sempre male del suo rivale. Specialmente in politica. Sì, sì, avresti ragione.
Ché se poi io riportassi le testimonianze di attuali comunisti, allora ci sarebbe ancora da dubitare. Perché i comunisti attuali sono amici del comunismo. E l'amico dice sempre bene del suo compagno. Specialmente in politica. Anche quando magari... Non ti pare?
E allora? Allora io farò parlare della gente che era notoriamente comunista, e che è vissuta vari anni in Russia sotto il Comunismo, con entusiasmo comunista. Due saranno specialmente i nostri informatori. Un italiano, un vecchio membro delle brigate rosse internazionali nella guerra di Spagna, e un russo, un vecchio funzionario Sovietico ed entusiasta del Partito Comunista:
Hanno entrambi diritto di essere creduti. Te ne accorgerai leggendo attentamente. Quello che essi raccontano quadra benissimo con la legislazione sovietica sul lavoro. E ciò è la più certa garanzia di verità.
Non più signori. Che bello, eh? Finalmente di signori non ce ne saranno più. L'è ora. I signori sfruttano la povera gente. Ma col Comunismo saremo tutti uguali.
A dirle ad un povero, queste parole, gli fanno venire l'acquolina in bocca: finalmente saremo tutti uguali!
Ma per essere economicamente tutti uguali, e prescindendo da tutto il resto, bisogna ricevere uno stipendio uguale; almeno presso a poco. Perché se io, per esempio, prendo 500 scudi al giorno, e tu ne prendi solo 200, va a finire che io sto meglio di te; e pian piano divento più signore di te.
«Ma sotto il Comunismo, in Russia, prendono presso a poco tutti uguale», tu mi dici. E io non ci credo. Non ci credo perché apro lo Statuto del Partito Comunista Confederale dei bolscevichi così come ce lo traduce l'attuale comunista Napolitano Tomaso, e trovo che perfino tra i comunisti militanti in Russia c'è una grande diversità economica. Lo deduco da quanto si legge all'articolo 76. Eccolo:
«Le quote per i membri del partito e per i candidati sono stabilite nella seguente misura:
Coloro che percepiscono paghe fino a 100 rubli versano 20 copechi.
Coloro che percepiscono paghe da 101 rubli fino a 150 rubli versano 60 copechi.
Coloro che percepiscono paghe da 151 rubli fino a 200 rubli versano 1 rublo.
Coloro che percepiscono paghe da 201 rubli fino a 250 rubli versano 1 rublo e 50 copechi.
Coloro che percepiscono paghe da 251 rubli fino a 300 rubli versano 2 rubli.
Coloro che percepiscono da più di 300 a 500 rubli versano il due per cento.
Coloro che percepiscono più di 500 rubli versano il tre per cento».
A ben riflettere, ci s'accorge che lo Statuto del Partito Comunista russo suppone che ci sia della gente che arriva sì e no a prendere uno stipendio di 100 rubli mensili, ed altra gente che ne prende oltre 500. La qual cosa significa che c'è tale un divario di stipendio in Russia, che l'uguaglianza resta lettera morta. È lo Statuto del Partito che lo dice. E allo Statuto bisogna sempre crederci.
Una testimonianza di fatto?
Vanni racconta: «Poveri operai, guardie notturne e donne addette alla pulizia si lagnavano perché riscuotevano 15, 20, 30 rubli. «E che volete da me?» diceva impassibile la cassiera. «Andate dal contabile». Sapevano che era inutile ma ci andavano ugualmente: «Compagno contabile, non ci basta per il pane, non è possibile». Il compagno, senza alzare la testa dalle sue scartoffie, diceva invariabilmente: «Idì k ciortu»: «Va’ al diavolo!».
E Kravchenko testimonia: «Il mio salario mensile oscillava fra i 1500 e i 1800 rubli, ma con le gratificazioni accordateci, arrivavo spesso a 2000 rubli e anche più. Per capire che cosa significava per me un simile trattamento, bisogna sapere che i capi tecnici e gli operai specializzati che lavoravano ai miei ordini guadagnavano raramente più di 400 rubli, mentre le donne e i semplici manovali non andavano oltre i 175 o 200 rubli».
Ascoltiamo ancora ciò che dice Bettelheim : «Per quanto riguarda i salari più bassi citiamo un’ordinanza dell’1-11-1937 con cui il Governo dell’U.R.S.S. prescriveva un aumento di salario per la categoria degli operai e dei piccoli impiegati industriali, come pure per coloro che lavoravano nei trasporti il cui livello salariale era basso. Col nuovo livello queste retribuzioni non avrebbero dovuto essere inferiori a 115 rubli al mese per i lavoratori permanenti e a 110 per i giornalieri. Se si considera che il potere d'acquisto di un rublo, nel 1937, equivaleva, in media, a poco più di un franco francese, si vede a qual punto il tasso di remunerazione di questa categoria era basso. Per quanto riguarda i salari più elevati, si può dire che molti tecnici, ingegneri, direttori di fabbrica ricevono da 2.000 a 3.000 rubli al mese, cioè 20 o 30 volte di più degli operai poco retribuiti».
Ti pare che proprio sia uguaglianza, questa? — Ma nelle cellule — insisti — ci dicono che saremo tutti uguali. Sì, lo so. E tu ci credi'? Guardati attorno. Non te ne sei ancora accorto che loro vanno in macchina e tu... vai a piedi?
Che ne diresti se un bel giorno, col pretesto di lavori importanti ed urgenti per lo Stato, il ministro Scelba mandasse in giro degli autocarri e facesse caricare tutti, anche te, per costringervi a quel determinato lavoro? Ci scommetto che tu diresti che quello sarebbe un gran brutto giorno: il giorno in cui la tua libertà di lavoratore sarebbe finita.
Orbene leggiamo quanto è stabilito in Russia :
«Art. 11. In casi eccezionali (la lotta contro calamità dovute agli elementi, insufficienza di mano d'opera per l'esecuzione di importanti compiti dello Stato) tutti i cittadini della RSFSR, salvo le eccezioni indicate agli articoli 12 - 14 (minorenni - vecchi - ammalati) potranno essere chiamati al lavoro obbligatorio, in base a speciali ordinanze del Consiglio dei Commissari del Popolo...».
Hai sentito? Tu sai bene che in Russia il padrone delle fabbriche, per esempio, è lo Stato, cioè — praticamente — il Partito.
Infatti la Costituzione Sovietica all'articolo 6 dice: «La terra, il sottosuolo, le acque, i boschi, le officine, le fabbriche, le miniere, le cave, i trasporti ferroviari ecc... sono proprietà dello Stato». E, se non lo hai dimenticato, lo Stato Comunista considera suo «compito importante» l'attuazione del Piano Quinquennale. (Costituzione Sovietica art. 11: «La vita economica dell’URSS viene determinata e diretta da un piano statale...»). Le quali leggi significano che in Russia, per l'attuazione del Piano Quinquennale, lo Stato ( = il Partito) è autorizzato per legge a ricorrere al lavoro obbligatorio. Ci pensi tu cosa significhi tutto questo? Specialmente ove lo Stato è in mano ad un Partito Politico unico. Ti piacerebbe, a te, capitarci sotto?
In Russia chiamano Ukaz quello che noi chiamiamo «decreto legge». Ce n'è uno che riguarda i ragazzi. Tu non vuoi bene ai tuoi ragazzi? Sì, certamente. Allora vediamo un po’ cosa dice questo decreto legge del 28 dicembre 1940 in favore dei ragazzi. È un decreto un po’ lungo. Parla dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni che frequentano le scuole di addestramento; e stabilisce che quei ragazzi che si allontanano senza permesso siano puniti «coi lavori in colonia sino ad un anno». E ciò, amico mio, è mostruoso. Sì, sì, è mostruoso. Ma ti pare? Condannare dei minorenni ai lavori forzati?!
Eppure esiste in Russia un Codice del lavoro Correzionale dell'U.R.S.S. . Non sono riuscito a trovarlo. Ma ne parlano i nostri testimoni, della sua applicazione. Ne hanno parlato anche all’ONU (sezione economico-sociale) il 14 febbraio 1949. In quell'occasione la Delegazione Inglese affermò che tale codice correzionale contempla 3 categorie di lavoratori forzati . E siccome la Delegazione Russa negava, allora Willard L. Thorp, americano, propose di fare una inchiesta internazionale. Ma la Russia si rifiutò. Me lo sai dire tu perché rifiutò? Se le accuse erano false, l'inchiesta era il modo più semplice e convincente per sbugiardare gli Inglesi. Invece... Non è forse vero che sono i panni sporchi che non si vogliono far vedere? Chi non lo capisce?
L'anno scorso a Parigi un vecchio deportato francese nei campi nazisti, ha domandato la costituzione di una commissione internazionale d'inchiesta nei paesi ove esistano dei campi di concentramento per lavori forzati, cominciando dalla Russia. Il settimanale comunista «Lettres Françaises» lo accusò di falso per ciò che riguarda la Russia. E David Rousset, il deportato, intentò processo. Un processo al quale egli ha voluto dei testimoni degni di fede; non ha voluto dei democristiani o degli americani: ha voluto dei comunisti rivoluzionari che sono vissuti in Russia e che sanno bene come stanno le cose. Sentiamone qualcuno.
È un filosofo giudeo, Margoline, che è stato 5 anni in Siberia. Egli afferma il 9 Dicembre 1950: «Je n'ai pas plus inventé les camps de deportation soviétique, que je n'ai inventé mes cheveux blancs, qui ont bianchi dans les camps...,...nous déportés, nous voulons mobiliser tous les hommes libres pur tenter de sauver des millions d'innocents qui crèvent dans les forètes profondes avec de la neige jusqu'au ventre, par 30 degrés au dessous de zéro» .
E il notissimo generale El Campesino, rifugiatosi in Russia e amico dei pezzi grossi del Comunismo, lancia ai suoi vecchi «compagni» questa sfida, il 5 Gennaio 1951: «Est il vrai qu'il y a environ 23 millions de condamnés aux travaux forcés dans l'immense étendue de l’U.R.S.S., dont 19 millions soviétiques et 4 millions étrangers? Et si ce n'est pas vrai, pourquoi le Kremlin ne m'autorise-t-il pas à accompagner la commission d'enquéte proposée par les associations d'anciens déportés?» .
La stessa cosa hanno testimoniato gli ex-comunisti M. Weisberg e Sig.na Elinor Lipper. Infine l'avv. Maestro G. Rosenthal citava, a conferma, il Codice del lavoro correzionale nell'U.R.S.S., e la «Grande Enciclopedia Sovietica» ed. 1947.
È dal 1947 che si trascina, all’ONU, sezione Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC), lo sforzo di ben 32 Nazioni che sono disposte a collaborare ad una inchiesta imparziale sulle condizioni dei lavoratori di tutto il mondo. L’unica Nazione che continua ad opporsi è la Russia.
«Eppure — accusa la Confederazione Internazionale Sindacati Liberi — dovunque l'Unione Sovietica diffonde il suo controllo, tra le prime misure vi è quella della soppressione dei diritti sindacali».
Un altro capoverso del documento di detta Confederazione dice che in Romania «... è stato posto fuori legge il diritto di ciascuno a scegliersi il luogo di lavoro e quello di creare o di iscriversi ai liberi sindacati e il diritto di sciopero».
L’ultima riunione del Consiglio Economico e Sociale dell’ONU si è tenuta nel marzo di questo 1951 a Santiago, la Capitale del Cile. Risultato? Sempre la stessa storia: il delegato sovietico, il Sig. Pavel Chernischev, ha rigettata la proposta delle altre nazioni per l'indagine sulle condizioni di lavoro degli operai di tutto il mondo. Allora il delegato americano Kotsching ha insistito, leggendo alcune statistiche accluse al programma economico ufficiale del Governo Sovietico per l’anno 1941. Da tali statistiche risulta che il 14 per cento dei Fondi stanziati per le opere pubbliche fu devoluto ai centri di lavoro forzato.
Dunque esistono i campi di lavoro forzato, se per la loro organizzazione ed efficienza vengono stanziati dei fondi. E quali fondi! Ma non c'è nulla da fare. I comunisti non ammettono che si facciano inchieste dove comandano loro. In case d'altri, però, i comunisti le vogliono fare le inchieste, non ti ricordi?
Io capisco: i comunisti russi hanno ragione a non volere inchiesta; mica sono fessi: chi ci crederebbe più alle loro chiacchiere?
Come? Il diavolo non è poi cosi brutto come si dice? In pratica, insomma, in Russia il lavoro forzato non c'è? Sta attento a non farti illusioni, amico mio. Io ho paura che il diavolo sia ancora più brutto di quel che si dice. Infatti: «Coperti di stracci, le gambe immerse nel fango fino alle ginocchia, i forzati non avevano più aspetto umano. I guardiani avevano accesi dei grandi fuochi per difendersi dagli insetti, ma i lavoratori erano circondati da vere nuvole di zanzare». (Kravchenko p. 364). È un testimone oculare che parla. Lo stesso che più oltre prosegue: «Per di più il lavoro forzato ora diffuso a Taganrog su scala anche maggiore che a Nicopol... Nelle nostre officine la quasi totalità del lavoro di manutenzione era assicurato da un forte contingente di schiavi della N.K.V.D. (polizia politica) che sudavano per dieci o dodici ore al giorno sotto la vigilanza dei guardiani armati». (Kravchenko p. 504). Non c'è che dire. I fatti sono conformi alla legge. Il vecchio combattente delle brigate internazionali, parlando della vita in fabbrica, ci racconta che l'Operaio Ramos esclamò: «Non torno alla fabbrica neppure per ordine di Stalin. Preferisco farmi fucilare». (Vanni p. 74),
Tuoi dire dunque che non ci si trova poi tanto bene in quella fabbrica, ti pare?
Io avevo un amico comunista che... sì, era un furbone. Perché non è mica vero, sai, che i comunisti siano tutti ingenui. Ero suo amico. È forse male essere amico di un comunista? Beh! Egli mi diceva che lui faceva proprio poca fatica a lavorare. «Come può essere?» — gli chiesi —. «Semplice. Lavoro adagio, adagio. Come una lumaca. Tanto mi pagano a ore. Che importa se non rendo nulla?».
Ed è stato proprio ripensando a quel mio amicone che mi è venuto il dubbio che forse anche in Russia, dopo tutto, non c'è poi da ammazzarsi per il troppo intenso lavorare. Ma è stato un pensiero di un momento. Sai? Mi tremavano le mani dalla rabbia, mentre leggevo l'articolo 56 (Codice Sovietico del Lavoro): «Le norme di rendimento sono fissate d'accordo tra l'amministrazione dell'impresa o istituzione e il sindacato e l'organo sindacale interessato». Di’che non avevo ragione di arrabbiarmi. Sono loro, sempre loro, quelli che non lavorano, a stabilire quanto io devo produrre. Lasciami sfogare: è una porcheria. Una legge così giustifica i soprusi del datore di lavoro che, pagando i sindacalisti politici, può esigere sempre di più. D'altra parte i sindacalisti, per ingraziarsi il padrone, — la solita lurida storia — saranno loro stessi a spingere la produzione.
Ciò specialmente in uno stato come la Russia ove il datore di lavoro è quasi sempre lo Stato stesso, cioè il Partito. Ma a lavorare tocca poi sempre a quel povero diavolo di operaio. E succede proprio così.
Guarda, per esempio, quale produzione fu imposta nel 1941 ai vari campi di lavoro forzato dell’U.R.S.S. (cfr. Discorso di Kotsching all'Assemblea del Consiglio Economico e Sociale dell'O.N.U., tenuta a Santiago il 16 marzo 1951):
— il 12% della legna da ardere;
— il 22% delle traversine ferroviarie;
— il 17% del legname grezzo;
— il 40% dei minerali di cromo.
Queste cifre rappresentano il contributo imposto dal padrone Stato-Governo ai lavoratori schiavi. Mica sono chiacchiere, queste.
Perfino il sindaco del tuo paese ha inteso parlare dello Stalkhanovismo. Fu un operaio russo, Stakhanov, che, spingendo lo sforzo produttivo, superò la quantità ordinaria di lavoro. I premi si succedettero ai premi. Se Stakhanov, l’operaio esemplare, aveva prodotto tanto, segno era che anche gli altri — con buona volontà — avrebbero potuto imitarlo. Dovevano dunque imitarlo. Chi riusciva vedeva il suo stipendio aumentato, e chi non riusciva se lo vedeva calare, calare sempre più, fino all'accusa di sabotaggio. E lì cominciavano i processi.
Lo Stakhanovismo è ancor oggi in pieno vigore in Russia. È evidente che è una cosa da schiavi. Ma è vera. E guai a chi non riesce: è la sua rovina integrale.
Lui: «La vita è già tanto dura, ma, sembra che lo diventi ogni giorno di più».
L'altro: «Puoi dirmi, tu che ormai sei un personaggio altolocato, quando ci sarà finalmente permesso di vivere come esseri umani? Sono ventidue anni che aspettiamo».
E l'indovinello consiste in ciò: nel saper dire dove può essere stato ascoltato tale dialogo tra due lavoratori.
Avvenne nel 1939. Su, non starci a pensare tanto tempo, altrimenti lo so anch'io che ci prendi. Ci vuol poco: a togliere 22 da 1939 si ottiene 1917. Che è l'anno...
Beh, te lo dirò io: erano due operai della Russia (Kravchenko 579). «Inoltre gli operai non si appassionano al lavoro; vivono in pessime condizioni e, detto fra noi, le razioni alimentari che ricevono sono insufficienti per lo sforzo che si esige da essi». (Kravchenko 150).
Lo sai, nevvero, che Kravchenko è stato processato a Parigi per avere scritto il libro dal quale trascrivo le citazioni? È stato un processone. Sono venuti dei testimoni d'accusa perfino dalla Russia; mandati da Papà Stalin. Ma la causa l'ha vinta Kravchenko. È stato dimostrato che egli ha detto la verità. Quello che egli racconta non lo hanno potuto negare neanche i testimoni mandati da Stalin. Bisogna quindi dire che proprio si tratti di cose vere. Prova a pensare, amico lavoratore, alla situazione in cui si trovano tanti tuoi compagni, in Russia.
E se gli attivisti ti ripeteranno sempre la stessa cosa, che, cioè, non è vero quanto narra Kravchenko, allora tu devi saper rispondere sempre con la stessa domanda: perché non ci lasciano andare a vedere liberamente?
Se quello è il Paradiso dei lavoratori, perché non ce lo fanno visitare liberamente? Non lo sai tu, il perché?
Te lo voglio proprio raccontare. Tanto per farti capire come al mondo possa esistere ancora della gente irragionevole.
È accaduto proprio a me. Quando ero studente.
— Come dici? Un castigo? No, no. Dei castighi, io ne ho presi tanti. Questo non è stato un castigo. È stata una autentica ingiustizia. Avvenne così: la lezione cominciava alle ore 9. Alle 9 così precise che tu non te lo immagini nemmeno. Da casa mia io prendevo il tram alle 8,30. Comodissimo. Arrivavo sempre con 10 minuti di anticipo. Anche quella mattina presi il tram alle 8,30. Ma venne a mancare, quasi subito, la forza motrice: e il tram si fermò. Cosa avresti fatto tu? Scendere e tentare di raggiungere la scuola a piedi significava arrivare in ritardo di almeno un quarto d’ora. Aspettai. Aspettai ancora. Finalmente il tram ripartì. Ma arrivai con cinque minuti di ritardo. Sì, appena cinque minuti. Indovina cosa mi è successo. Il professore — che Dio lo benedica! — non mi ha voluto ricevere in classe. Se si era fermato il tram a lui non importava niente: peggio per me. Dovevo pensarci prima.
Capisci? E fui proprio respinto. Oh! ti dico io che se fossi stato più grande, proprio glieli avrei dati due bei ceffoni. Anche a costo di una sospensione perpetua. Che ne dici tu? Ti piacerebbe avere dei superiori così? Neanche per sogno, eh?
E allora senti: «La nuova legge disponeva che ogni operaio che si presentasse al lavoro con un ritardo di venti minuti venisse automaticamente deferito alla giustizia locale... Coloro che si erano svegliati tardi o erano giunti in ritardo per guasti al veicolo che li trasportava non trovavano grazia...». Lo racconta Kravchenko delle fabbriche in Russia.
Una legge, hai capito? una legge che sanziona un così mostruoso modo di agire contro i lavoratori. Dimmi, la vorresti, tu, una legge simile, nella tua fabbrica?
Eppure, quando il padrone è lo Stato, l'uomo diventa uno schiavo. E guai a lamentarsi. Lo conosci anche tu lo Stato: non le paghi anche tu le tasse?
Quando mia madre mi sculacciava per bene, io mi affannavo a ripetere, tra le lacrime, che io non ero colpevole, che non era colpa mia: «Non sono stato io!».
E debbo dargliene atto, a mia madre. Se potevo dimostrare che veramente non era colpa mia, mia madre non mi castigava. Le ricordo ancora le sue parole: «Si castiga soltanto chi è colpevole». Era giusta, mia madre.
E se a te accadesse... Sì, se nella tua officina venisse a meno l'energia elettrica e tu dovessi sospendere il lavoro, credi tu che sarebbe giusto che il padrone non ti pagasse?
No. Se la interruzione del lavoro avviene senza tua colpa, tu hai diritto al tuo stipendio tutto intero. È logico: tu non ne hai colpa.
A te sembra tanto logico, ma in Russia... Ascolta:
Codice Sovietico del Lavoro, articolo 68: «In caso di arresto del lavoro NON IMPUTABILE AL LAVORATORE, il salario è pagato in misura pari alla metà...»;
Articolo 68, 1: «I prodotti che SENZA COLPA DEL LAVORATORE costituiscono uno scarto completo sono pagati in ragione dei due terzi del tasso stabilito...».
Articoli assurdamente ingiusti. Mostruosi. Perché puniscono il lavoratore che essi stessi riconoscono non colpevole. E se egli non ne ha colpa, perché punirlo con la riduzione dello stipendio? Rifletti bene. Con questi due articoli, che hanno valore di legge, si da al datore di lavoro la possibilità di infierire legalmente contro i lavoratori. Guai, guai a te, operaio, se in Italia fosse in vigore il codice del lavoro che vige in Russia!
Articolo 57: «Qualora un lavoratore di una impresa, istituzione o azienda di Stato, pubblica o cooperativa, SENZA SUA COLPA non raggiunga il rendimento fissato per lui, sarà remunerato secondo la quantità e la qualità del prodotto, senza che gli venga assicurato alcun minimo di salario».
Io non riesco a commentarlo quest'articolo 57. È troppo atroce l'insulto al lavoratore. Egli lavora con onestà. Che colpa ne ha lui, se, per esempio, la materia prima è scadente? Tocca al padrone provvedere roba buona se vuole una produzione buona. Sì, la colpa è del padrone che forse s'è lasciato imbrogliare acquistando materiale scadente. Ma chi ci rimette è sempre l'operaio. Oh! io mi sento rivoltare. È mostruoso tutto questo. Il lavoratore è considerato come una macchina. La persona umana affoga nel bruto imperativo dello Stato che domanda, domanda sempre, senza mai retribuire.
Ma, dimmelo sinceramente, quale lavoratore italiano si sentirebbe di firmare liberamente un articolo così? Il lavoratore non ne ha colpa? Per il Padrone Stato la colpa non c'entra. Esso si propone di ottenere, per mezzo di leggi così assurde, il massimo rendimento con la minima spesa. È infatti evidente che il lavoratore, per vivere, si spremerà fino all'impossibile. E se morirà, poco male. Tanto, in Russia, della gente ce n'è.
Inoltre, quando tu vuoi valutare la portata di questi articoli antidemocratici del codice Sovietico del lavoro, tu devi tener presente che in Russia legislatore (= Stato) e datore di lavoro (= Stato) sono una medesima cosa. Ciò significa evidentemente che la legge non sarà mai a vantaggio del lavoratore, sibbene favorirà sempre il datore di lavoro.
Ma forse tu mi vuoi dire: sempre e tutto così ingiusto il codice del lavoro in Russia?
Amico mio, non sempre e non tutto. Sta attento però a non fidarti troppo della veste esterna, perché a volte essa cela, sotto una apparente benignità, una insidia paurosa.
L'articolo 83, 1, a leggerlo così isolatamente, apparirà una disposizione severa ma giusta. Eccolo:
Articolo 83, 1: «Gli operai o impiegati sono pecuniariamente responsabili verso il datore di lavoro dei danni che gli hanno causato, sino a concorrenza dell'ammontare totale dei danni, nei casi seguenti:
a) quando i danni sono stati causati da atti del lavoratore che rivestono il carattere di ATTI PERSEGUIBILI PERSONALMENTE...».
Cosa c'è di ingiusto? Nulla. Ma se non si è dimenticato che è perseguibile penalmente, in Russia, anche il ritardo di 20 minuti sull'orario, sia pure dovuto ad incidenti al mezzo di trasporto; se non si è dimenticato che (articolo 37, 1) «il rifiuto, senza giusti motivi, di accettare il trasferimento (in altra fabbrica o in altra zona) è considerato come INFRAZIONE ALLA DISCIPLINA del lavoro»; se non si è dimenticato tutto questo, allora l'articolo 83, 1, così giusto nell'apparenza, diventa un articolo strozzatore dell'indipendenza del lavoratore.
Nota, se. non ti dispiace, quel crudele sarcasmo dell'articolo 37 «... senza giusti motivi...». Gli è che a determinare se i motivi siano giusti o meno, questo appartiene alla legge, cioè allo Stato, cioè al padrone.
Vedi fino dove può giungere la perfidia degli uomini.
Oltre la sufficienza di un salario che basti per lui e per la sua famiglia, il lavoratore deve poter avere un alloggio che sia degno di una persona umana.
Lo so che oggi ci sono, in Italia, delle intere famiglie che vivono (ma non è una vita, la loro) pigiate in una sola stanza.
Ma non c'è chi non veda che è una situazione assurda, dovuta alle spaventose distruzioni della guerra, e che, infatti, è in via di lenta ma costante soluzione.
Leggiamo una disposizione sovietica che suona a vantaggio del lavoratore e che... tradisce una situazione davvero paurosa:
«I lavoratori e gli ingegneri tecnici che si sono distinti come organizzatori di brigate di punta, come membri di brigate o come partecipanti alla emulazione socialista e quelli che sono stati al servizio della stessa impresa per un lungo periodo ecc... hanno diritto ai seguenti privilegi: a) se non godono di condizioni di alloggio soddisfacenti, avranno diritto con precedenza a un alloggio sul fondo alloggi dell'impresa...» (Ordinanza del C.E.C. e del C.C.P. dell'U.R.S.S. del 15 dic. 1930. Cfr. Codice Sovietico del Lavoro, pag. 104, appendice 1, art. 11).
Dunque esistono dei lavoratori che non hanno alloggi soddisfacenti. Anzi l'averli è un privilegio. Un privilegio teorico dei lavoratori di punta; noi diremmo: dei lavoratori migliori e più anziani. Essi hanno un diritto di precedenza: questo è tutto. E gli altri?
Ci si sente vibrare, in questa disposizione del Codice Sovietico del Lavoro, la miseria profonda degli alloggi per i lavoratori. E siamo nel 1930: la guerra non c'entra. Sono parole autentiche della legge, le quali richiamano alla mente quanto dice Kravchenko (p. 151): «Ci infangammo fino alle caviglie prima di arrivare davanti alla fila delle tristi abitazioni. Gli edifici amministrativi erano dotati di elettricità ma si era ritenuto inutile prolungare la linea sino alle baracche degli operai. Lampade a petrolio e stoppini che bruciavano in tazze colme d'olio gettavano sulla sporcizia e sulla desolazione di quei tuguri una penombra sepolcrale».
Se tale è la situazione della fabbrica nella quale uno lavora, ebbene — tu mi dici — non è mica necessario restare in quella fabbrica. Se ne sceglie un'altra.
Non è raro il caso, nei nostri paesi occidentali, di lavoratori che abbandonano un impiego per assumerne un altro più redditizio. Abbandonano una fabbrica ove sono mal pagati per un'altra fabbrica ove sono pagati meno male.
Il lavoratore è lui che sceglie. Anche in Russia?
Tieni sempre presente che in Russia Partito e Governo sono la stessa cosa. Di conseguenza il programma economico del partito sarà il programma economico del Governo. E poi leggi con me: «È necessario, ai fini dello sviluppo pianificato dell'economia popolare, provvedere alla massima utilizzazione di tutte le forze operaie che si trovano nello stato, ed alla equa distribuzione e ridistribuzione di esse tanto fra i diversi ambiti territoriali, quanto fra le diverse branche dell'economia popolare». (Napolitano o. c, p. 133, Programma del Partito Comunista..., n. 6).
Da questo programma governativo, che rivendica a sé il diritto di decidere sul luogo e sul genere di lavoro del lavoratore, fluiscono con logica irreprensibile i vari decreti del 15 dicembre 1930 contro la fluidità della mano d'opera, e del 15 novembre 1935, secondo cui «ogni operaio che non si sia presentato al lavoro e non possa addurre una ragione giudicata valevole, è licenziato per sei mesi con proibizione di presentarsi entro quel tempo in qualsiasi altra azienda dello Stato». (Cfr. Bettelheim, o. c., p. 210, n. 2).
È naturale e giusto che tu abbia tutto il tempo necessario per meditarle bene queste parole della legge russa. È comunque evidente che in Russia il cambiar fabbrica non dipende dalla volontà del lavoratore, ma dalla volontà del datore di lavoro (= Stato).
Non ti ricordi più del «passaporto» per l'interno, necessario ad un cittadino che intenda spostarsi da una località ad un'altra del territorio russo? Tale passaporto è il mezzo di cui si serve il Governo per controllare e approvare o meno tali spostamenti.
In Russia: «È stato creato il concetto di «diserzione dal lavoro»: il lavoratore che lascia il suo lavoro senza l'autorizzazione della direzione è suscettibile di un certo numero di sanzioni penali e tutti i contratti di lavoro che stipula in avvenire sono privi di valore». (Bettelheim, o. c., p. 209-10).
Non potrai dunque, tu, se il tuo padrone non te lo permette, lasciare, per esempio, la fabbrica di Casaralta per passare alla Ducati. Se lo facessi anche, il tuo contratto con la Ducati resterebbe privo di valore. Il che è come dire che la Ducati, in tale eventualità, non sarebbe obbligata (dallo Stato) dalla legge a pagarti il lavoro compiuto. La senti la catena della schiavitù che si ingigantisce sempre più attorno alla tua persona? Il padrone Stato ha fame del tuo lavoro; esso ama il tuo lavoro ma non ama te. Tu devi esistere per lo Stato, a vantaggio dello Stato, e non lo Stato per te. E tu sai che la stessa sorte tocca a tutti i lavoratori. E sai ancora che lo Stato, per il quale tutti vi dovete svenare nel lavoro, lo Stato non è poi altro, in definitiva, che il Governo. E il Governo non è altro che il Partito. E il Partito, diciamolo francamente, non è altro che l’interesse lurido dei pochi caporioni. Tutta una mostruosa montatura in cui la Patria e il benessere comune fanno da paravento al losco traffico di sudore umano condotto legalmente dai detentori del governo.
Come non sentirsi presi da commozione? Un papà, con tanti bimbi da sfamare, licenziato dal lavoro. Perché il padrone ha voluto cosi. Difficilmente si può trovare una cosa che meriti tanto la nostra condanna, quanto l'egoismo sordo di un padrone, che aumenta il suo guadagno e diminuisce la sua spesa buttando intere famiglie alla fame.
Ma possibile che non si debba fare una legge che difenda i lavoratori? C'è una tale legge? Almeno nel Paese dei lavoratori, là ci dovrebbe essere. Eccola:
Codice Sovietico del Lavoro, articolo 47 - 1: «Il lavoratore che senza validi motivi, trascuri per un giorno intero di presentarsi al lavoro, SARA’CONGEDATO dalla impresa od istituzione».
Leggilo ancora. Dietro lo schiavismo assurdo di questo articolo sghignazza soddisfatto il datore di lavoro. Ed è umiliante quel «senza validi motivi», che serve a dare alla legge disumana una patina di umanità: umiliante perché denso di sarcastico disprezzo. Ma chi determinerà quando siano validi i motivi addotti? Lo Stato. Sempre Lui.
Il mostro apocalittico che — senza Dio — divora i suoi figli.
Se tu sciopererai perché sei pagato troppo male, il giudice, che è poi la stessa persona del padrone, dirà che i tuoi motivi sono invalidi. E tu sarai dimesso. Sarai licenziato. Con tutte le conseguenze politiche che ne deriveranno, dato che il padrone è poi anche il «Governo» al quale tu ti sei ribellato.
E così dimesso tu non avrai nemmeno diritto all'indennità: la dice l'articolo 89 (del Codice del Lavoro) che, elencando i casi in cui il lavoratore ha diritto all'indennità, non porta il nostro caso.
E tu, allora, sarai costretto a non scioperare mai. Anche se il salario sarà insufficiente. Tacerai, per necessità. Non basta. Perché nel Codice Sovietico del Lavoro c'è ancora qualcosa. C'è la perfidia, tortuosa fin che vuoi, che dà al datore di lavoro la possibilità pratica (e il diritto) di licenziare chi vuole. Leggiamo l'articolo 37: «Un salariato non può essere trasferito da un'impresa ad un'altra o da una località ad un'altra... se non con il suo consenso; in difetto di consenso il contratto di lavoro può essere risolto DA CIASCUNA DELLE PARTI, nel qual caso il salariato riceverà una indennità di licenziamento...». Ad esaminarlo attentamente questo articolo, è una autorizzazione, farisaicamente velata di giustizia, che la legge dà al datore di lavoro di licenziare chi vuole. E quando vuole. Il datore di lavoro ordinerà al lavoratore di cambiare città: gli dirà che il suo lavoro è necessario in quella fabbrica lontana, che, insomma, bisogna cambiare.
E il lavoratore sa che in quella fabbrica lontana egli andrà incontro ad un trattamento peggiore, sa che dovrà lasciare lontana la sposa e i figli. Allora il lavoratore non accondiscende al cambiamento: non è giusto.
Non ti par di vederlo il padrone, il succhiasangue di professione, col codice alla mano, articolo 37? Se il lavoratore si rifiuta di cambiare, allora egli «può scindere il contratto». E lo scinderà.
Stasera, quando i tuoi bimbi saranno a riposo e tu sarai solo con la tua sposa accanto al focolare, provati a supporre: «Sai, cara? — e la guarderai negli occhi come quando si deve partire. — Domani partirò. Dovrò trasferirmi. Lontano. Il padrone vuole che io lavori laggiù...».
Tu la vedrai, la tua sposa, impallidire. «Mi lascerai sola? E i bimbi? Non andare, caro. Ti prego, resta con noi...».
No, io non continuo. Sarebbe troppo crudele sottoporre te e la tua sposa ad un tormento così angoscioso. Ma tu, tu ci dovresti pensare a queste cose. E se toccasse a te? E se tua moglie imparasse che tu, tu stesso sei responsabile di questo stato di cose, in quanto tu hai lottato per la loro realizzazione anche qui a casa nostra, dimmi se tua moglie sapesse tutto questo, credi che essa saprebbe sopportare la vita che tu stesso le spezzeresti?
Via! Non essere ancora ingenuo. Sta attento. Forse la lotta che tu stai conducendo sotto le bandiere che portano scritto il tuo interesse, forse tale lotta è contro il tuo interesse.
Supponi di aver lavorato per tanti anni in una fabbrica.
Tu hai contribuito a migliorare le condizioni economiche del padrone della fabbrica. Hai dato il tuo lavoro: che è una parte di te. Hai dato, quindi, qualcosa di impagabile: tu non sei una macchina. Ebbene: il padrone si accorge che, allo stato presente dell'economia, egli ha assai più interesse a investire il suo capitale in alberghi, anziché in acquisti di materie necessarie per il funzionamento della fabbrica in cui tu lavori. Lui, il padrone, sa far bene i conti. 100 milioni investiti nella fabbrica gli daranno un guadagno di 200.000 lire? Ma 100 milioni investiti in alberghi gliene daranno 500.000. Ecco il calcolo dell'egoista. E gli operai della fabbrica dovranno essere ridotti di numero. Il licenziamento. Dimmi non è questa la lurida trafila di interessi che mette sul lastrico tante famiglie anche da noi? Lo so: da noi è una cosa non legale.
Invece... leggiamo insieme: Codice Sovietico del Lavoro, articolo 36: «Se, temporaneamente, non vi è nell'impresa l'occasione di adibire un salariato al lavoro per il quale è stato ingaggiato, il datore di lavoro ha il diritto di destinarlo ad un altro lavoro che corrisponda alle sue attitudini. Qualora il lavoratore si rifiuti di eseguire tale lavoro, il datore di lavoro può licenziarlo, dandogli una indennità di licenziamento».
È , questa, un'artificiosa casistica che sfocia definitivamente nel licenziamento. Credi tu che il datore di lavoro, volendolo, duri fatica a far mancare il lavoro per cui fosti assunto, e a proportene quindi un altro praticamente inaccettabile?
Tu lo sai che i datori di lavoro in generale non sono mica dei santoni. L'interesse è l'unico consigliere. E spesso l'interesse di lui può essere divergente o anche contrario al tuo interesse. Sarà il caso in cui legalmente ti licenzierà. Francamente, sì, francamente mi sembra quasi impossibile che oggi ci siano dei lavoratori che lottano strenuamente per realizzare il Comunismo anche in Italia. È infatti troppo strano che essi credano ciecamente ai propagandisti, senza esaminare oggettivamente quali sono le condizioni di lavoro che il Comunismo dà ai lavoratori laddove esso è al governo. La legislazione stessa della Russia Comunista, in materia di lavoro, è quanto mai sufficiente per fare aprire gli occhi a chi ama non essere ingannato. È tutto un susseguirsi di disposizioni che rafforzano sempre maggiormente le catene della schiavitù. Amico mio, è significativo il fatto che nessuno può andare liberamente a visitare la Russia.
Perché mai? Se davvero quello è il paradiso dei lavoratori, perchè non ne aprono le porte per farcelo vedere?
Tu le conosci forse meglio di me le condizioni del nostro alto Appennino Emiliano. Tu sai bene che tanta parte della popolazione emigra nella stagione invernale. Partono a gruppi, questi stupendi figli d'Italia che non trovano pane sufficiente nella loro terra. Dove vanno? Tu non lo sai? Però tu sai bene dove non vanno. Secondo te vanno forse dove si sta male? Oppure scelgono i paesi migliori? Tu dici che loro vanno dove si guadagna di più, dove si sta meglio. E sta bene. Perché dunque vanno non in Russia? Se in Russia il lavoratore sta come un principe, perché i nostri emigranti non ci vanno? E neanche i comunisti, capisci? Basterebbe, dopo tutto, che i nostri emigranti andassero in Russia a lavorare e ritornassero carichi di risparmi a testimoniare che là tutto va bene, basterebbe questo per farci pensare che, anche se le leggi sono contro i lavoratori, la pratica però è tutta in loro favore. Basterebbe dunque così poco! Davvero io lo proporrei ai comunisti nostrani: invece di spendere tanti milioni in propaganda, organizzino bene delle emigrazioni in massa nella Russia. Sarà il modo più convincente di provare che il Comunismo è il difensore dei lavoratori. Essi ritorneranno carichi di soldi e ci diranno: «Venite anche voi! Veramente là c'è il Paradiso».
È un consiglio. Come? Tu dici che la Russia non vuole lavoratori perché là ci sono tutti i posti occupati? Ah! ho capito.
In Russia è come in treno: tutto occupato.
E quando il treno è tutto occupato allora si sta male, non ti ricordi?
Tutto occupato: al completo, in Russia. E fa capolino, tra le righe, l'ombra nera dei lavori forzati. La Russia non vuole lavoratori liberi. Ha bisogno di un esercito di schiavi.
Operaio, è questo il paradiso che tu vuoi? Perché dunque non vai in Russia? Non è poi tanto lontana...
Tu sorridi, e preferisci rimanere qui in Italia, fuori del Paradiso.
Sei furbo, tu.