Espulso dal partito per tradimento agli operai

    «L'Unità» del 3 marzo 1953 recava, nella pagina della cronaca romagnola, il comunicato della cellula n. 3 di Villa Prati. Detta cellula «plaudiva alla vigilanza rivoluzionaria del popolo cecoslovacco tutto intento nella lotta per la pace, la libertà e il lavoro, e dichiarava che Alvaro Capelli era da considerarsi, elemento al servizio delle forze conservatrici e della guerra. Il suo posto perciò era in mezzo a tutti i vili e i traditori della classe operaia, della causa della pace e del socialismo!».
    Dopo i vari tentativi di ricuperarlo e dopo il rifiuto da parte sua di «autocriticarsi», il figlio della «Tugnina» è così fuori del Partito Comunista italiano.
    Le ragioni addotte dalla cellula contro il Capelli è d'essersi «legato in Cecoslovacchia ad una serie di provocatori dei quali non ha voluto fare il nome e di aver tentato di uscire dalla democrazia popolare con un passaporto non vistato dall'autorità cecoslovacca».
    Che questa sia una ragione per gli allocchi e per fermare lo scandalo che le sue dichiarazioni hanno prodotto nelle file del partito, apparirà chiaro da come laggiù viene esercitata la vigilanza poliziesca. Che se il Capelli avesse «congiurato» contro il Governo del defunto Gottwald, non avrebbe certamente riabbracciato la sua vecchia «Tugnina». Dopo tanti interrogatori subiti prima della prigione e durante la prigione, se fosse risultato un benché minimo appiglio per condannarlo, statene pur certi che non avrebbe portato in Italia la ghirba.

Giubbotto di gabardino

    «S.T.B.» ecco la sigla funerea e terribile. Dietro queste tre lettere sta l'apparato fortissimo della polizia comunista cecoslovacca. Vi fanno parte i comunisti usciti dalle scuole politiche e di provata fede. Vigilano tutto, e sono dovunque. Parte nella loro divisa cachi con le spalline rosse e la riga rossa attorno al berretto a visiera, e parte in borghese come gli altri cittadini col classico giubbotto di gabardino verde. Costoro, nel risvolto del giubbotto, tengono una placca di identificazione e un tesserino rosso, per altro segno d'identificazione, in tasca. E' la S.T.B., la polizia politica! Ha orecchi e occhi dappertutto. Per lei le quattro infauste prigioni di Praga non sono mai vuote.
    Per ogni semplice sospetto o per una parola di non simpatia pronunciata verso i capi comunisti, s'apre una cella. Incomincia il dramma terribile e silenzioso del prigioniero.
    Nella cella, invece della branda trova una semplice seggiola su cui dovrà riposarsi, se gli riesce. Se gli riesce, giacche ogni mezz'ora il secondino bussa alla porta ed il prigioniero deve alzarsi, e presentandosi alla guardiola, deve dire: «Pari Velitel cela n...» cioè «signor comandante, sono la cella numero....». Questo di giorno e di notte, in continuità. Il fisico si sfibra, le forze morali e fisiche vengono logorate inesorabilmente. Il cibo è dato a gocce: poco per nutrire, troppo per morire. Appena 120 grammi di pane nero, un mezzo piatto di brodo di patate e una mezza scodella di caffè d'orzo.
    Contemporaneamente avvengono gli interrogatori a continuazione, da un commissario all'altro. Il figlio della «Tugnina» nella prigione della Stirka ha conosciuto Jan, operaio di Praga sospettato di mormorazioni contro il Governo. Stava alla cella n. 1 e subì per tre giorni consecutivi una serie di interrogatori per farlo parlare e rivelare chissà quali complici! Alla fine è ritornato in cella più morto che vivo. Un bulgaro che dalla prigione «Pankraz» fu portato alla «Karlak» dov'era il Capelli, raccontò d'aver sentito urla di donne e bambini in Via Bartolomejska 10, dove generalmente avvengono gli interrogatori. E spiegò che in certi casi fanno venire i familiari del prigioniero, li torturano per farli gemere, mentre dall'altra stanza il povero diavolo li sente!
    Quando non riescono ad ottenere quelle dichiarazioni che la polizia esige, vere o non vere, adoperano anche maniere più atroci. Il Capelli ha saputo che alcuni suoi compagni di prigione furono condotti nei sotterranei della «Karlak», spogliati completamente e lasciati in quell'umidità e in quel freddo per giornate intere.
    Se sul figlio della «Tugnina» fosse gravato il benché minimo sospetto di «congiura», come il comunicato della cellula lascia credere, queste torture sarebbero toccate anche a lui, in tutti quei mesi di prigione, come son toccate ai suoi compagni.

Dopo l'espulsione

    Prima ancora che la Cellula N. 3 di Villa Prati espellesse Alvaro Capelli, lui stesso si era messo fuori dal Partito Comunista nel novembre 1951 a Praga dopo i primi interrogatori avvenuti nella prigione «Karlak».
    «Voi non avete il diritto di trattenermi per delitti che, non ho commesso — disse ad un commissario cecoslovacco nell'ultimo interrogatorio dove si tentava di indurlo all'autocritica — perché la mia attività nel vostro territorio nazionale è stata limpida e regolare. Se voi guardate le tabelle della mia produzione come operaio vi troverete che ho reso più del 160 per cento per il piano quinquennale. Mi avete predicato durante le lezioni di marxismo-leninismo che il comunismo si costruisce col lavoro ed io ho lavorato come gli altri e forse più!».
    Eppure essi lo volevano tenere in prigione e impedirgli il ritorno in Italia onde non far sapere dalla sua testimonianza la realtà di una situazione politica ed economica cecoslovacca. L'averlo sorpreso alla frontiera col passaporto italiano rilasciatogli dal Consolato di Praga non era un delitto. Il figlio della «Tugnina» da 17 mesi faceva domanda di riavere il suo passaporto e il visto di uscita dalla Cecoslovacchia. Perché non glielo avevano dato? Come cittadino italiano nessuno lo poteva fermare in una nazione straniera a meno che non avesse dei conti da regolare con la giustizia del luogo. Dagli interrogatori subiti e dallo spionaggio severo non risultava nessuna pendenza a suo carico.
    Era proprio questo che dispiaceva alla Polizia comunista: l'averlo trovato immune da ogni capo d’accusa. Ecco perché si arrovellava in tutte le maniere per fargli ammettere qualche mancanza. Solo così il Capelli avrebbe perduto la tutela, come cittadino italiano, del nostro Consolato e sarebbe passato immediatamente nelle mani loro.
    Troppo intelligente il figlio della «Tugnina» per non capire la manovra, troppo intelligente e sicuro della sua onestà. Dopo le varie minacce fattegli durante gli interrogatori e non essendo emerso nulla a suo carico, venne un Commissario per un ultimo incontro e gli si dimostrò gentile e lo lodò per il lavoro compiuto. Anzi lo invitò con buone maniere ad autocriticarsi incoraggiandolo a riconoscersi colpevole ai danni della Repubblica popolare. Del resto era giovane, poi era il primo errore dovuto forse a poco approfondimento della dottrina comunista. Se avesse accettato questa autocritica lo avrebbero subito liberato e inviato alle scuole di marxismo-leninismo. I dirigenti comunisti italiani a Praga desideravano venirgli incontro e aiutarlo.
    Ma il figlio della «Tugnina» non abboccò, «lo sono cittadino italiano e come tale posso ritornare in Patria quando voglio, ora che ho esaurito i miei impegni di lavoro con voi! Ai dirigenti comunisti connazionali di Praga non ho niente da dire. Da questo momento io non faccio più parte del Partito Comunista!».
    L’atteggiamento fiero del Capelli mandò sulle furie il Commissario, il quale cambiò subito tono e cacciandolo in cella gridò: «Andrete a casa quando vogliamo noi!».
    «Perché non hai accettato di autocriticarti?» gli chiesero i dirigenti comunisti di Ravenna quando lo invitarono nella sala segreta della Casa del Popolo a Villa Prati. La stessa domanda gli rivolgeva in carcere alla «Karlak» un certo Sauro Fossa, bolognese, anche lui comunista italiano e messo là dentro per taccia di sabotatore. Sauro Fossa, mentre si stavano facendo quegli interrogatori al Capelli, faceva parte dei dirigenti comunisti nell'ufficio «Democrazia popolare» di Praga. Solo qualche mese dopo fu messo in prigione, come si è detto, dietro accusa di sabotaggio. E in prigione raccontò al figlio della «Tugnina» ciò che si diceva di lui a Praga. «Sei stato poco intelligente — aggiungeva fraternamente — avresti dovuto accettare la tua brava autocritica, riconoscerti colpevole e così ti avrebbero mandato alle scuole marxiste da dove poi saresti venuto direttamente in Italia. Dopo il tuo rifiuto hanno giurato di lasciarti in carcere finché possono».
    Ora Sauro Fossa è ritornato in Italia e sta a Bologna. Come il figlio della «Tugnina» non è più comunista e desidera non avere più a che fare con le democrazie popolari e coi piani quinquennali. E' andato a trovare Capelli a Bagnacavallo, ma lo ha pregato di non fare il suo nome, perché ha famiglia e non vuole noie. Per questo non si è messo qui il suo indirizzo.
    Quindi la Cellula N. 3 di Villa Prati ha espulso dal partito uno che, già liberamente e da solo con cognizione di cause, si era allontanato..
    Il Capelli, dopo la pubblicazione sull’Unità di questi comunicati, si è presentato alla Camera del Lavoro per chiedere d'esser messo in lista tra i braccianti, come prima. Qualcuno si è meravigliato di ciò: «Come? I reazionari non ti hanno pagato?». E il figlio della «Tugnina» ha risposto che ciò ch'egli ha dichiarato è partito dalla sua lealtà e dalla sua preoccupazione di non vedere instaurato in Italia lo stesso sistema che ammazza la libertà!

Preoccupata «Tugnina»

    La «Tugnina» invece è preoccupata. All'anagrafe comunale è conosciuta per Antonia Foschini, nata nel 1897. Magra e piccoletta col suo tradizionale fazzoletto nero annodato sotto il mento. «Stai attento — disse al figlio appena i giornali si occuparono di lui — noi dobbiamo lavorare in mezzo agli operai!». Poi vide centinaia di lettere arrivare alla sua casa. Cosa insolita, giacchè prima non giungeva che la cartolina delle tasse, «Adesso ti conoscono dappertutto». Ed in dialetto aggiunse: «T'at si mes in un fat tramesch». («Ti sei messo in un curioso pasticcio»). «Quelle cose le dovevi tenere in te!». A cui il figlio rispose: «Mica mi sono trasformato in un propagandista. Mi sono venuti a chiedere che cosa ho visto e come si sta laggiù, ed io gliel'ho detto. Se a loro poi non piace che sia così è un'altra faccenda!».
    Anche la sorella Norma, che prima ostentava le realizzazioni del socialismo cecoslovacco, ora si è raffreddata sull'argomento e chiede al fratello: «Ma è proprio così il comunismo?».
    A dare conferma alle dichiarazioni del Capelli è giunto un certo Flavio Zomegnan, nativo della provincia di Padova ed ora abitante a Medicina (provincia di Bologna) in Via Oberdan 4. Lo Zomegnan è stato col figlio della «Tugnina» per più di dieci mesi a Chomotov, a lavorare nell'azienda agricola. Egli vi era andato nel 1947 con contratto di lavoro per 4 anni. Finito il suo impegno è ritornato portando con se una ragazza cecoslovacca che aveva sposato. Appena sui giornali ha letto del Capelli è andato subito a trovarlo a Bagnacavallo. I due si sono abbracciati affettuosamente, mentre la «Tugnina» stava in un angolo della casa e si asciugava, dalla commozione, gli occhi con la cocca del grembiule.
    «Finalmente siamo liberi — esclamò Zomegnan — e mia moglie può comperarsi i vestiti che vuole e non quelli che le danno le cooperative!».
    La «Tugnina» e la Norma hanno avuto così conferma di quanto stava dicendo Alvaro sul comunismo cecoslovacco. La «Tugnina», anzi, si lasciò scappare la frase: «Allora è proprio vero che il comunismo non è così come ci dicono!».

La biografia di Alvaro

    E adesso che è terminata la vicenda politica del figlio della «Tugnina», per la quale il Partito Comunista ha perduto un iscritto e il mondo libero ha acquistato un assertore della libertà, possiamo dire chi è. Un giovane fiero e leale senz'altro, se, in mezzo ad un ambiente operaio comunista, ha potuto rinnegare il sistema bolscevico senza uscire dalla lotta per il benessere dei lavoratori. Nacque nel 1924, e dopo aver frequentato le elementari più quattro classi dell'Istituto Tecnico Commerciale, entrò subito nel sindacato braccianti di Villa Prati. Come si è detto, derivava da una famiglia e da ambiente socialista: ecco perchè fece parte dell'organizzazione antifascista capeggiata dal dottor Giuseppe Sangiorgi di Bagnacavallo fin dal 1942. Avvenuta la caduta del fascismo col 25 luglio 1943, nel periodo badogliano andò sotto le armi e fu arruolato nei carristi della Divisione Centauro prima a Siena poi a Montepulciano. Il figlio della «Tugnina» era aiutante furiere fino all'8 settembre, epoca in cui si disperse il reparto ed egli tornò a Bagnacavallo per correre subito in montagna insieme al gruppo antifascista di Villa Prati. Andarono nella zona del Monte Falterona a rafforzare l'VIII Brigata partigiani di Forlì. Per quattro mesi rimasero in quella zona, protetti e bloccati dalla neve. Ciononostante subirono due rastrellamenti, dall'ultimo dei quali il reparto fu letteralmente scompaginato. Ne tornarono una settantina, su circa 1100 che erano. Tra coloro che si salvarono ci fu anche il figlio della «Tugnina» il quale venne furtivamente a Villa Prati per consultarsi con l'organizzazione antifascista. Insieme ad altri fu avviato nella zona della Bassa Romagna e precisamente nella Valle per arruolarsi alla 28a Brigata partigiana «Mario Gordini».
    Il figlio della «Tugnina», in quel periodo, fu vice-comandante della terza compagnia e poi, morto il comandante Italo Cristofori, assunse lui il comando.
    Finita la guerra, fece, per incarico dei dirigenti comunisti, il corso di sminatore a Forlì. Ritornato a Villa Prati fu incaricato dell'organizzazione comunista, e nel 1949, poco prima di partire per la Cecoslovacchia, era segretario della sezione del partito al suo paese e faceva parte del Comitato Direttivo.
    Ha un volto aperto e fiero, una parola franca e decisa, un carattere dove non c'è posto per la paura. La sua fidanzata, con la quale ha ripreso a far l'amore dopo la parentesi dell'esperienza comunista in Cecoslovacchia, ha timore per il coraggio che egli dimostra.