I comunisti volevano "ricuperarlo" ma egli narrò ciò che aveva visto

    Questa odissea che il Capelli mi aveva narrata e che io pubblicai sul giornale, si divulgò in un baleno, accreditando quelle delusioni che erano trapelate fra i suoi ex compagni comunisti poche ore dopo il suo ritorno. Ecco perché i dirigenti comunisti della zona, si preoccuparono subito di «ricuperarlo». Per questo, la mattina dopo il suo ritorno a Villa Prati, e cioè il martedì 27 gennaio, lo andarono a trovare alle ore 8, a casa sua, mentr'egli stava ancora a letto. Erano una ventina. Il Capelli, come si è detto, era ritornato in famiglia la notte precedente. Egli abita con la «Tugnina», la sorella Norma moglie di Angelo Antonellini, il fratello Germano e una bimbetta. Tutti sono iscritti al Partito Comunista come lo era lui. Il colloquio durò fino a mezzogiorno, in quella stanza da letto. Le parole del figlio della «Tugnina» non lasciavano dubbi presso i suoi interlocutori che gli chiedevano se dicesse ciò per rabbia o vendetta. «No, no — rispose — io resto progressista ma non mi sento di lavorare più per un partito che non rispetta la libertà degli individui!».
    Si salutarono, e il giovedì pomeriggio lo invitarono nella Casa del Popolo per fare «una partida d'ciàcar», cioè per parlare un po' di tutto. C'eran di quelli che capeggiano il partito a Villa Prati e a Bagnacavallo. Si ritirarono nella sala riservata e dopo cordialissimi convenevoli gli dissero, press'a poco: «Tu prima avevi responsabilità nel partito ed ora le dichiarazioni che stai facendo lo danneggiano. E' bene che ci chiariamo al più presto!». «E allora — rispose il figlio della «Tugnina» — parlo subito io e dico che non sono disposto nemmeno a pensare il popolo italiano come un popolo da campo di concentramento agli ordini di Mosca come sta avvenendo in Cecoslovacchia».
    E incominciò a spiegare il modo come il Partito Comunista era andato al potere a Praga, quale era stata la propaganda fatta e quale realtà invece era seguita. La seconda Repubblica che si ebbe col primo Governo comunista, formato dai comunisti insieme a pochi socialisti, fu il primo passo d'una realizzazione che va attuandosi spietatamente dal 1951 ad oggi. Si disse dalla propaganda che Masarik (il «Premier» della coalizione democratica) si era suicidato mentre a Praga si sente dire che quella morte fu ben più tragica. La salma di Masarik, davanti a cui sfilò tutto il popolo ceco, non la si poteva vedere che da dieci metri di distanza.
    I primi atti della seconda Repubblica furono la distruzione del capitale privato, della grande industria e del latifondo. Il popolo era entusiasta. In questa trasformazione si costituirono tre tipi di nazionalizzazione: o mettere la metà del proprio capitale in comunità cooperativistiche, o tutto, o consegnarlo all'azienda statale. E mentre avveniva questo trapasso sul terreno economico, si eliminavano le opposizioni politiche. Ne sanno qualcosa le miniere di uranio di Jakimova. Jakimova è un nome tristamente popolare nella Cecoslovacchia. Gli operai ora hanno creato perfino una canzone, che cantano a bassa voce. Dice la canzone «Na zapad je cesta dlouha»: «Per andare all'Occidente, la strada è lunga, ma io egualmente la tenterò. Se riesco, la libertà mi arride, altrimenti la polizia mi condurrà a Jakimova dove non si fa più sabotaggio e si lavora senza libretto paga!».

Piano quinquennale

    In seguito furono create le scuole di partito in ogni capoluogo di provincia donde trarre gli elementi politici da mettere nell'esercito, nella polizia, nelle fabbriche e nelle aziende. Incominciava a funzionare l'apparato comunista. Le cose cambiarono, e l'atmosfera divenne pesante. Tutto passò in gestione statale, dagli alberghi alle macellerie, dalle botteghe ai ristoranti. Per chi parlava o si lamentava c'era una scelta: o le miniere di Jakimova o le celle della «Stirka» o della «Karlak». Fu proprio alla «Karlak» che il figlio della «Tugnina» conobbe Vaslav, un operaio di Praga che doveva scontare sei mesi di lavori in miniera per aver detto che Zapotockj, Presidente del Consiglio ed organizzatore del piano quinquennale, avrebbe fatto meglio ad andare a suonare la fisarmonica. (Zapotockj prima dell'ascesa politica, suonava la fisarmonica, a sentire i racconti di Vaslav).
    Col piano quinquennale («Petiletka pian») ogni cittadino è mobilitato, e a disposizione dell'Ufficio del Lavoro. Funziona in questa maniera: si stabilisce dalle gerarchie politiche, dove non è mai estraneo lo zampino russo, che nel 1956 la fabbrica tale deve consegnare, per esempio, un tot di macchine. Ma per un tot di macchine occorrono tante ore lavorative con tanti operai. Si dividono le ore fra gli operai che si hanno a disposizione, e ognuno deve lavorare 12-14 ore, magari. E man mano che il tempo passava e che l'apparato politico con tutti i suoi commissari e le sue milizie di fabbrica si irrobustiva, il lavoro, per chi restava fuori della gerarchia, aumentava. Aumento di lavoro e calo di paga, in quanto questa gente politica deve essere pagata! Alla fabbrica Mannesmann il figlio della «Tugnina» era controllato continuamente dal cronometro della polizia politica. Una sola parola si sente: «Rikle» («svelti!»). Chi non produce quello che gli è stato determinato è un sabotatore e per i sabotatori rimane una scelta: o Jakimova o Stirka! Nei diversi reparti di ogni fabbrica è stata collocata una lavagna dove si segna il rendimento giornaliero di ciascun operaio come un tassametro fa per le macchine.
    Ogni parola sospetta è punita. Nella cella numero 1 della «Stirka» il figlio della «Tugnina» conobbe un operaio di Praga che scontava alcuni mesi di prigione per aver detto ch'egli faceva le «colombe della pace», intendendo dire d'essere impiegato nella fabbrica di bombe a mano!

L'operaio Tondo

    Tutto questo Alvaro Capelli spiegava a quei dirigenti comunisti che lo avevano invitato nella sala riservata della Casa del Popolo di Villa Prati. Costoro cercarono di intervenire e stemperare quel pessimismo spiegando che, in ogni fase di trapasso sociale dalla struttura borghese a quella socialista, si registra fatalmente una crisi! Lo invitarono a pensar bene su quello che faceva e diceva, ma il figlio della «Tugnina» non diede segni di resipiscenza! Si salutarono: ciao, ciao. A questo punto il motto delle cellule era quello di pazientare e di compatirlo. «Lasciate che si ingrassi, e poi vedrete che ritorna da noi!».
    I giorni passavano e le sue dichiarazioni si comunicavano da bocca a bocca, e i giornali le registravano. «L'Unità» e il settimanale comunista della federazione di Ravenna non ne facevano parola e quel silenzio nel campo d'Agramante aumentava le proporzioni del chiasso presso gli altri.
    Fu così che l'11 febbraio, dopo una ventina di giorni da che il Capelli era ritornato, da Ravenna giunse a Villa Prati una 1100 nera targata RA 14974 (che precisione, compagni, è la nostra!) con a bordo esponenti provinciali — insieme con capi locali (Placci, Giacomoni e Calderoni) e con qualche altro — e invitarono il figlio della «Tugnina» nella solita sala riservata della Casa del Popolo.
    Quando il figlio della «Tugnina» comparve, un esponente provinciale teneva spiegato il giornale recante le di lui dichiarazioni sottoscritte. «Vedi — gli fu detto poi — tu affermi d'essere rimasto progressista, ma non lo sei più se dai questi argomenti alla reazione.... Sei ancora in tempo a ritornare nel partito facendoci una dichiarazione dove tu smentisca quello che è stato scritto sul tuo conto! Puoi dichiarare che laggiù si sta facendo la riforma agraria?».
    Il figlio della «Tugnina», senza scomporsi. narrò la storia dell'operaio Tondo che lavorava accanto a lui nella fabbrica Mannesmann.
    Tondo teneva tre figli e la moglie malata. Era addetto al trasporto materiali dove non guadagnava a sufficienza. Pregò la commissione politica di fabbrica di volerlo passare al forno, lavoro pesantissimo e che Tondo credeva più remunerativo. La sua richiesta fu accolta, e dopo una settimana di lavoro al forno gli consegnarono la busta paga con 3650 corone invece delle 3500 che prendeva prima. Tondo si lamentò. Chiamato a rapporto dalla commissione politica, ritornò con la testa bassa al lavoro. Il figlio della «Tugnina» gli chiese come fosse andata la faccenda, ma Tondo abbassò il capo, si mise sul naso il dito per indicargli di star zitto e continuò il pesantissimo lavoro, duro quanto il suo destino.
    Terminato il racconto di questo episodio, Capelli rispose alla domanda che gli avevano rivolto circa la riforma agraria. «Sì, io sono disposto a fare una dichiarazione sulla riforma agraria ma aggiungerò anche come è stata fatta e come la vedono gli operai, e manderò la stessa dichiarazione a tutti i giornali italiani e non solo all'Unità». E per finire aggiunse che Stalin è considerato dagli operai cechi come Hitler, perché tutta la produzione va alla Russia. «Nei primi tempi per ogni tubo ch'io tagliavo alla fabbrica Mannesmann prendevo corone 0,70 in quanto quel tubo andava alla Svizzera. Dopo le autorità russe hanno vietato il commercio con l'estero, e mi pagavano il taglio del tubo solamente 0,50!».
    Dinanzi a questa documentazione valevole più di ogni disquisizione accademica, uno degli esponenti provinciali comunisti rispose «Abbiamo visto, tu parli come Magnani e Cucchi. Addio» e si salutarono.
    Da allora gli attivisti delle cellule considerano il figlio della «Tugnina» un venduto alla reazione: non si ricupera più.