Gli undici preti uccisi a Reggio Emilia, escluso don Pessina, sono della zona appenninica. Montagna.
Aprì la serie il parroco di Corriano, don Pasquino Borghi. Si sono trovati i cilici di questo santo sacerdote: uno scapolare di setole e una catenella appuntita. L’ultima parola pronunciata davanti al plotone di esecuzione, al tiro a segno, l’alba del 30 gennaio 1944 fu: «Gesù mio, misericordia». Al collo s'era messo il Rosario, le mani giunte. Rifiutò la sigaretta e il bicchiere di cognac che l’ufficiale gli offriva. Con lui venivano fucilati, in quell’alba tragica, altre sei persone accusate di attività partigiana. Tutti baciarono il Crocifisso portato dal cappellano militare. Uno solo lo rifiutò: un anarchico, l’ultimo della fila. Il primo era don Borghi.
Aveva 42 anni e una statura normale. Già missionario del Sacro Cuore, era tornato nella sua provincia reggiana da pochi anni. Molto caritatevole. Dopo l'8 settembre la sua canonica rigurgitava letteralmente di profughi. I poveri gli volevano bene per queste sue qualità disinteressate. Alla fine di gennaio andò a predicare un triduo nella parrocchia di Villamozzo poco distante dalla sua, in preparazione alla festa di Sant'Agnese. Terminata la predica si mise in cammino per il ritorno. Lungo la strada lo ferma una pattuglia di camicie nere. Lo ammanettano e lo portano nel carcere di Scandiano. Si ignorano le torture fisiche subite in questa prigione per farlo confessare complicità partigiane. Pochi giorni dopo, eccolo a Reggio nella prigione dei Servi. Una sentenza sommaria poi, prima della luce del giorno, caricatolo con gli altri sei prigionieri sul camion cellulare, fu portato al tiro a segno per la fucilazione. Aveva ospitato partigiani nella sua canonica aperta alla carità.
I tedeschi e le camicie nere, quando presero il parroco di Cervaiola, si trovarono davanti un vecchio di 64 anni. Da 36 anni viveva lassù in quella parrocchia dell’Appennino. Fu ucciso sull’aia del contadino attigua alla Chiesa, insieme a 25 suoi parrocchiani.
Fu così. La zona era naturalmente percorsa da partigiani, e qualche scaramuccia armata succedeva sempre. Quella mattina del 20 marzo 1944, vista arrivare sù la colonna tedesca, gli uomini di Cervaiola fuggirono dal paese nascondendosi nelle montagne circostanti. Ma i tedeschi e le camicie nere persuasero le donne ad andarli a chiamare. Non avrebbero subito alcun danno. Nell’attesa, i tedeschi andarono a prendere il vecchio don Battista Pigozzi per sapere cose che egli non poteva dire sui movimenti partigiani. Lo denudarono e lo lasciarono così per circa due ore sull’aia mentre essi si facevano preparare da mangiare. Venuti finalmente gli uomini della montagna, furono ammassati accanto al parroco don Battista, e falciati da raffiche automatiche delle pistole-machine. Morto con la sua gente. Eguale il martirio.
Di 26 anni appena era don Giuseppe Donadelli, il giovane parroco di Vallisnera. Un pretino ancora imberbe. Tutta bontà e delicatezza. Non si sa il motivo per cui, in quel 2 luglio 1944, si presentassero alla sua canonica tre individui accompagnati da un tenente della Milizia. Lo prelevarono insieme a due giovani dell’Azione Cattolica, e lungo la strada li uccisero.
L’indomani furono trovati cadaveri sul ciglio del fosso. Ma la gente non sa il motivo. Nemmeno un pretesto, c'era. Forse uno scambio di persone?
Con don Aldemiro Corsi incomincia una nuova tecnica per l’eliminazione. Sarà la classica. A bussare alla porta saranno i soliti ignoti (almeno ufficialmente) la notte avanzata del 22 settembre 1944. Don Aldemiro, sessantaduenne, stava a letto nella sua canonica di Grassano. Siccome il richiamo alla porta si faceva insistente, si mise una vestaglia addosso, scese e andò ad aprire. Quel che avvenne dopo è difficile ricostruire e facile a immaginarsi. La realtà è che l’indomani il vecchio sacerdote fu trovato ucciso nella cucina dove erano evidenti i segni di chi aveva mangiato e bevuto. Il cadavere della donna di servizio, invece, stava nel corridoio. Evidentemente, a quel rumore essa era scesa, aveva visto le persone e per questo fu eliminata. Ricercando le cause di quest'odio non si sanno trovarle che in motivi di rapina: una rapina non completamente monda di lotta di classe.
I soliti ignoti si presentarono, nella stessa maniera, al cappellano di Felina don Giuseppe Iemmi. Don Giuseppe, un giovane prete di 27 anni, non era in canonica. «E’ uscito» rispose la donna di servizio a quei due che lo cercavano. «Avete niente da lasciargli detto?» — «Niente» e se ne andarono. Mezz’ora dopo, ecco don Iemmi di ritorno. Lo avvertono dei due che lo cercavano e che se ne sono andati per la strada. A far presto, li raggiungerebbe. Così fece. Il giovane cappellano in quel 19 aprile 1945, corse e li raggiunse. Lo portarono fuori strada nella boscaglia, ma egli riuscì a sfuggire e a nascondersi dentro un fosso. Un ragazzo lo tradì. I due lo ripresero e nel bosco lo freddarono. Nella predica domenicale aveva deplorato eccessi disumani commessi da chi non onorava così il movimento partigiano. Aveva ventisette anni. Un pretino affabile e magro.
Per la stessa deplorazione, dettata dal dovere sacerdotale di impedire l’estendersi delle vendette, anche il parroco di Villaminozzo si prese una scarica di mitra addosso. Si chiamava don Luigi Manfredi. Da pochi mesi era stato trasferito a Budrio. Vecchio di sessant’anni non si era ancora insediato nella nuova parrocchia in quella tarda sera del 14 dicembre 1944, quando le solite due persone ignote si presentarono alla canonica di Villaminozzo e a lui che andò ad aprire la porta chiesero: «E’ lei il nuovo parroco di Budrio?» Ebbe appena il tempo di pronunciare: «si», che cadde sulla soglia esanime, trivellato dalla scarica di mitra.
Il prevosto di Ventosa, quando lo misero appoggiato al muro della Chiesa di San Ruffino per fucilarlo, gridò, davanti ai calibri delle pistole: «Viva Cristo Re». Fu l’ultima parola di don Carlo Terenziani, che così si chiamava il prevosto di Ventosa. Siccome era stato cappellano militare della Milizia, per due volte avevano tentato di rapirlo dalla sua canonica. Non riuscirono. Per questo, consigliato dai Superiori, aveva abbandonato la parrocchia e si era rifugiato a Reggio. La mattina del 29 aprile 1945: grande festa della Madonna della Ghiara. Don Carlo andava verso le 10 circa ad assistere al Pontificale del Vescovo. Un camion lo seguì e mentre lo sorpassava lentamente tre persone scesero lo presero di peso e dopo averlo caricato alla rinfusa lo legarono. La rapida manovra avveniva in pieno Corso. Lo portarono così legato nella sua parrocchia a Ventosa e lo fecero girare per le strade in mezzo a scherni e dileggi. In una nota osteria del paese lo fecero entrare e lo abbeverarono di vino rosso. Don Carlo non mosse ciglio e non pronunciò parola. Quando la sera lo portarono vicino al muro della chiesa di San Ruffino fu allora che inneggiò a Cristo Re.
Aveva 46 anni.
Nel numero dei sacerdoti uccisi mettiamo anche un seminarista di 15 armi. Portava la tonaca nera che, con tutta probabilità, fu l’unico movente della sua soppressione se essa fu conservata come un trofeo ed appesa al portico di un contadino della zona. Il giovane seminarista si chiamava Rolando Rivi ed era di San Valentino. La mattina del 10 aprile 1945 il Rivi ritornava a casa dalla Chiesa parrocchiale, e dopo aver baciato la mamma, si recava in un boschetto poco lungi dalla sua abitazione per studiare. All’ora solita del pranzo non lo si vide ritornare. La madre, impressionata, lo cercò nel boschetto. Il suo libro giaceva sull’erba in disordine, accanto ad un quaderno. Su un foglio era scritto: «Non cercatelo, viene un momento con noi partigiani».
La notizia rispondeva purtroppo a verità. Il Rivi era stato portato via dai partigiani (si sanno anche i nomi essendo già avvenuto il processo che li ha condannati a 23 anni di carcere) i quali, spogliatolo, e fattagli scavare la fossa ve lo rotolarono dentro dopo che la scarica di mitra lo raggiunse mentre s'era inginocchiato per terra e indirizzava piangendo una preghiera a Dio per «papà e mamma». Dal processo sopratutto risultò l’odio al prete.
Sempre i soliti due ignoti si presentarono alla Canonica di Garfagnolo per parlare col parroco sessantunenne, don Luigi Ilariucci. Don Luigi non era a casa. Essi se n'andarono. Ma, ritornato poco dopo e saputo che due persone lo avevano cercato s'affannò a raggiungerle in quel pomeriggio del 19 agosto 1944, lungo la stradicciola montana. Due colpi alla nuca a bruciapelo, e poi tutto finito.
Nemmeno la tomba e il cadavere sono stati trovati di don Dante Mattioli, parroco di Coruzzo. Trascinato via da casa, è scomparso per sempre. Forse una fossa comune (come purtroppo allora si usava) custodisce le sue ossa fracassate.
L’ultimo della serie è don Umberto Pessina: 18 giugno 1946. Don Pessina era parroco a San Martino di Correggio, in pianura. Nel breve perimetro della sua parrocchia erano state prelevate 19 persone. Diciannove persone scomparse per l'odio di parte. Don Pessina, temperamento sicuro e leale, sapeva molte cose di questo disumano mistero. Troppe cose forse.... Per questo, dopo l’Ave Maria, mentre stava uscendo di canonica per andare a vedere se le vesti dei chierichetti fossero confezionate, lo raggiunse una raffica di mitra. Ebbe appena il tempo di ritornare indietro per cadere bocconi nell’andito rantolante. E’ risultato dal processo che il mandante del delitto fu il sindaco comunista di Correggio. Comunista era pure l’esecutore materiale.
Con don Pessina si chiude il martirologio del clero reggiano. Undici assassinati.(1)
(1) Non computiamo Don Bolognesi nel numero dei preti ammazzati in quanto non c'è la mano assassina diretta. Però lo segnaliamo.
Don Sperindio Bolognesi, parroco a Nismozza, fatto saltare con una mina mascherata e camuffata a guisa di pacchetto postale. L’aveva confezionata in quella maniera un profugo sovietico che faceva parte di una banda di stranieri comandata da un altro russo. Molto bravo quegli nel manovrare gli esplosivi, aveva escogitato questa scatoletta con nastrino azzurro e l’aveva seminata lungo la strada dove passava il giovane parroco. Don Sperindio vide quell’oggettino per terra, si chinò a raccoglierlo. Un’esplosione violenta, e di lui non rimasero che membra infrante. Quando comunicarono la disgrazia al russo, egli per nulla scomponendosi rispose: «Lui prete, lui paradiso».