La gioia del paradiso è perdonare

Vincenzo Zarri

Carissimi confratelli e cari fedeli,
non potrebbe esserci testo più adatto per raccogliere i nostri pensieri nella luce della verità del Signore - oggi 40° anniversario dell’uccisione del parroco di questa comunità di Lorenzatico - del brano di Giovanni letto nella liturgia di questo giorno.

I discepoli che Cristo lascia e manda nel mondo come agnelli tra i lupi, non potrebbero reggere se con loro e in loro non fosse presente lo Spirito Santo: l’Avvocato, il Consolatore che li fortifica contro i pericoli e le infermità del loro stesso cuore, l’errore, l’ignoranza, l’orgoglio, le passioni, l’egoismo in ogni sua forma e li rende capaci non solo di superare le difficoltà esterne, ma di portare frutto attraverso di essi.

Troppe volte la nostra superficialità e dissipazione ci impedisce di accorgerci di questo ospite divino e di collaborare con Lui, ma la Sua presenza ed azione non scompaiono ed emergono in momenti di grazia.

I cristiani, infatti, in quanto cristiani, sono richiesti di intervenire nelle più complesse e dibattute situazioni nelle quali si tratta di salvezza o di condanna. Dovrebbero fare ciò con generosità, con prontezza, lieti di servire a Cristo, portando le ragioni della verità e della speranza, che il Signore ha loro trasmesso per il bene di tutta la società. Questo è il modo più chiaro ed esplicito per rendere testimonianza, ma se i cristiani vivono in coerenza con la verità ricevuta, anche solo con la loro presenza, il loro comportamento, diventano testimoni, a conforto e sostegno di quanti amano la giustizia e la rettitudine, ma anche ad accusa contro tutto ciò che si stacca da Dio. E se i cristiani non sono coerenti, non sono testimoni contro Cristo, ma contro sè stessi, perché si dimostrano falsi. In ogni caso il cristiano non può nascondersi né cancellare la sua caratteristica di cristiano, non può rimanere neutrale: o è con Cristo o è contro Cristo.

Nella parola testimoni o testimonianza è incluso tutto il dono e il servizio che il cristiano può e deve dare al mondo. Mondo è una realtà piena di contrasti. È creazione di Dio, opera di Dio e nessuno più del cristiano è in grado di apprezzare il mondo in quanto opera di Dio. Eppure, il mondo non riconosce Dio come suo autore ed è sempre intento a sfuggirgli o a ribellarsi. Il mondo ha bisogno di essere salvato e tuttavia è orgoglioso di perdersi e si accanisce con tutti coloro che vogliono salvarlo.

Il cristiano deve volere il bene del mondo e in questo senso deve amarlo, deve però anche saperlo respingere, deve giudicarlo e anche condannarlo. In questa vicenda così complessa solo chi sta assiduamente con Cristo può riuscire a dare una testimonianza fedele e valida senza confusioni, senza cedimenti, con carità ed efficacia.

Il canonico don Enrico Donati fu cristiano e sacerdote, che rimanendo fedelmente e costantemente unito a Cristo, portò nel mondo una chiara ed efficace testimonianza di discepolo e apostolo di Cristo. I riferimenti alla sua persona e al suo comportamento sono concordi nel presentarcelo come uomo di fede e di solido carattere, sincero, leale, fiducioso nella bontà degli uomini, generoso fino al sacrificio e, nello stesso tempo, dedito al raccoglimento e alla preghiera, umile, povero, distaccato dai beni della terra. Amò la sua chiesa, questa sua chiesa, in tutte le sue espressioni. Restaurò ed abbellì le strutture parrocchiali impiegando prima di ogni altro mezzo le sue stesse risorse, raggranellate con una vita parsimoniosa fino all’austerità. Riordinò carte e documenti, quasi per meglio individuare attraverso le linee di una lunga storia la fisionomia della sua comunità. Diede tutto se stesso per portare la sua gente più vicina a Dio, attraverso il ministero della parola, la celebrazione dei sacramenti, gli incontri personali, la visita alle famiglie specialmente dove c’erano ammalati. Animò le associazioni, specialmente quelle di Azione cattolica. Nella sua schiettezza si coglieva il suo costante e intenso desiderio di combattere il male e di spronare tutti ad essere vigilanti.

Giunse il tempo triste in cui gli animi cominciarono ad esacerbarsi per le vicende politiche e sociali della guerra. Sospetti reciproci, incomprensioni, ostilità, dividevano le persone anche all’interno delle stesse famiglie. Si cominciò a coltivare la violenza e a proporre l’odio come gli strumenti più adatti e più rapidi di una nuova giustizia umana.

In questo contesto poteva essere da tutti compreso, amato, condiviso l’amore per la verità, la giustizia, il bene, aldilà di qualsiasi preconcetto o passione di parte? Dice Gesù: "vi emargineranno, vi presenteranno come nemici del popolo e chiunque vi ucciderà potrà essere ritenuto benemerito", così possiamo trasporre in termini attuali quelle frasi già pur così chiare che abbiamo letto nel Vangelo.

C’è una rispondenza agghiacciante fra queste parole di Cristo e la sorte che andò maturandosi per don Enrico in quei mesi tormentati dalla tempesta che lacerava cuori e società. Sostenuto dall’antica saggezza umana e cristiana poneva la sua vita migliore difesa nella tranquillità della sua coscienza "non ho nulla da rimproverarmi, non ho fatto del male a nessuno".

Si accorgeva, tuttavia, che proprio la rettitudine e la coerenza del buon pastore erano ritenute un male, un grande male, perché costituivano un ostacolo per chi intendeva imporre un assetto che fosse trionfo di propri insani pensieri. Si accorgeva di ciò perché altri confratelli avevano subito intimidazioni, violenze e persino supplizi senza fondati motivi. Non ci sono mai motivi sufficienti per agire con soprusi e violenze, ma non senza il pretesto che il fatto di essere prete era motivo sufficiente per autorizzare il sospetto, la calunnia e l’odio.

Pochi mesi prima di essere ucciso commentando con un confratello una grave intimidazione subita da un amico sacerdote si espresse così: "Penso che il Signore mi vorrà far degno di lavare le mie debolezze con il mio sangue".

Tuttavia, la fiducia nella bontà degli uomini rimase in lui sempre più grande del timore della loro malizia. Se non fosse stato così la sera del 13 maggio del 1945 non avrebbe acconsentito a quelli che lo invitavano a seguirli con dei motivi che apparivano banali e falsi a chi avesse dato spazio più al timore che alla fiducia.

D’altra parte è evidente che chi lo uccise non voleva colpire un colpevole, ma eliminare un’autentica guida del popolo, distruggere un testimone.

Testimone non tanto di fatti indegni, ma testimone di quelle verità che elevano l’uomo e rendono salda la società. Intendeva distruggere chi edificava la civiltà dell’amore per fare posto al terrore.

Sembrava proprio in quei giorni che stesse vincendo il terrore, infatti don Enrico pur stimato, amato, pianto, non ebbe un funerale. La sua salma non appena fu ritrovata, fu accompagnata al camposanto solo da un giovane confratello e da altre tre o quattro persone.

Dominava la paura, agli onesti facevano paura i violenti e ai violenti i morti da loro uccisi.

Anche i cristiani sentivano la paura, forse la sentì anche il canonico don Donati quando scoprì le vere intenzioni di quelli che l’accompagnavano la tarda sera del 13 maggio, ma i cristiani hanno un segreto per vincere la violenza: la forza della verità e dell’amore che diventa perdono. Il sangue dell’innocente che cade sotto i colpi della violenza macchia, ma soprattutto lava. Don Enrico desiderava lavare con il suo sangue le sue debolezze e non soltanto le sue. Il suo sangue col perdono che egli certamente concesse ai suoi uccisori, ha lavato, ha tolto perfino la paura.

Noi, simbolicamente, raccogliamo questo sangue, rammentiamo che Cristo ci ha parlato di ciò che poteva succedere ai suoi discepoli, rammentiamo ciò che Cristo ha scelto per sé.

Insieme col sangue di don Donati raccogliamo il perdono che egli ha concesso e offriamo questo sangue e questo perdono per la conversione nostra e di tutti, per una riconciliazione che sia trionfo della misericordia di Dio. Non possiamo dimenticare questi nostri morti: sarebbe un tradire i nostri migliori amici, misconoscere la loro fedeltà a Cristo, profanare la passione di Cristo che continua nel mondo. Ma il nostro ricordo non è contro nessuno; a tutti offriamo accoglienza a cuore aperto, per tutti desideriamo il bene, il bene sommo, l’amore di Dio, l’amore a Dio.

Il 13 maggio ricorda a noi un’altra violenza, quella dell’attentato al Papa, quattro anni fa. Ricorda quindi le file di un intento diabolico che si ripresenta puntualmente in tutta la storia umana, ricorda però anche la prima apparizione della Madonna a Fatima, ci ricorda quindi la Madre della misericordia, Colei che ha dato a noi l’Autore della salvezza, ci ricorda Colei che deve schiacciare il capo al serpente e vincere il maligno che sembra dominare nel mondo.

È con questo sguardo rivolto alla misericordia del Signore, rivolto a Maria Madre di misericordia in questo maggio a Lei consacrato che noi eleviamo ora la preghiera di suffragio per don Enrico e per tutti i morti a causa di qualsiasi violenza ed eleviamo anche una preghiera per questa comunità che egli ha tanto amato perché continui l’esempio che le ha dato e faccia tesoro degli ammaestramenti che ha ricevuto.

Ed è doveroso qui ricordare anche il pastore che gli è succeduto, il canonico don Antonio Pasquali, che appena due anni fa ha lasciato questa parrocchia chiamato dal Signore al premio eterno e che già anni fa’ nel 25° della morte di don Donati fece la prima commemorazione in maniera che il ricordo di questo sacerdote fosse di nuovo presente a tutti i suoi fedeli e fosse per tutti di esempio, di incoraggiamento per una vita cristiana sempre più impegnata, per un servizio del Signore sempre più generoso.

Con il ricordo per don Antonio Pasquali celebriamo questa Eucaristia , implorando la misericordia del Signore. Certi che il Signore sovrabbonda nella sua misericordia, certi che il Signore vuole la conversione di tutti e che la vera gioia del Paradiso è quellA dove si può perdonare.


Mons. Vincenzo Zarri è attualmente (nel 1995 ndr) vescovo di Forlì