Non temete coloro che uccidono il corpo....

  Dove ha inizio il viale della stazione di S. Giovanni in Persiceto, sorge un malinconico cippo roccioso, dedicato ai caduti della guerra etiopica.
  Nella sera del 4 novembre 1948, una sera brumosa e fredda, scesa rapidamente sui campi squallidi, una coppia incurante l’umidità indugiava su di una panchina di fronte al monumento. Il luogo scarsamente illuminato appariva deserto, come del resto erano mute le strade periferiche che dal paese si dirigono verso la campagna.
  Un individuo di singolare robustezza passeggiava sul tratto che congiunge il viale alle Carceri situate nella Porta del paese. La calma indifferente che egli ostentava, contrastava assai con l’espressione pericolosa del volto violento ed astuto. Capo all’aria, fingeva di interessarsi all’architettura delle vecchie prigioni e intanto non perdeva d'occhio i due sulla panchina.
  «Cosa fate qui ?» La voce di un gendarme lo fece trasalire.
  «Io? Nulla... Guardavo...»
  «Circolate!»
  Finalmente la coppia decise di muoversi e l’uomo si diresse allora rapidamente alla panchina, ne tolse di sotto una sbarra di ferro acuminata che accuratamente celò.
  Due uomini attendevano sulla provinciale. Pedalarono silenziosamente deviando attraverso il Ponte Rosso, nella Biancolina e a un km. e mezzo dal paese accanto a un sentiero laterale si fermarono. Bisbigliate poche parole, il giovanottone robusto ritornò sulla provinciale e si fermò poco lontano dal paese.
  Erano circa le 21,30.
  La blanda luce di un lampione rischiarava un tratto d'umido asfalto; dal buio nebbioso egli poteva così scorgere i rari passanti e scrutarne i volti.
  Ad un tratto i suoi occhi brillarono fissi sulla via.
  Veloce e tranquillo veniva verso di lui un giovane. La luce rivelò un attimo il bel volto sereno nel quale la dolcezza infantile delle linee temprava un'espressione di sana e maschia sicurezza.
  «E' lui» pensò l’uomo nell’ombra. Lo vide attraversare il ponte, dirigersi sulla Biancolina e lo seguì a breve distanza. Sul luogo ove i compari attendevano, lo sorpassò e gli chiuse la strada.
  «Chi è lei?» chiese l’uomo incerto sulla identità del ciclista.
  «Fanin, perchè?».
  La risposta che s'abbatte sul volto levato fu un colpo di sbarra che spezzò la mano alzata istintivamente in difesa e lacerò la fronte.
  Un grido, un'implorazione d'aiuto si spensero nella nebbia. Giuseppe Fanin lasciata la bicicletta tentò con un dietro front di fuggire, ma i due dalla siepe balzarono sulla via e gli furono addosso con i pugni alzati. Raggiuntolo di nuovo, l’uomo dalla sbarra lo colpì al capo.
  Giuseppe barcollò, incespicò in un mucchio di ghiaia, cadde con il volto prono.
  Una follia orribile, bestiale travolse allora gli assassini. Mentre due lo percuotevano con calci e pugni, l’altro, con violenza selvaggia continuò a picchiare sul capo spezzando le ossa, penetrando nel cervello, tre, quattro, cinque volte. Poi non sazio infierì ancora e con l’acuminata punta del ferro lacerò i fianchi e il dorso della vittima rantolante. Quando la tremenda follia fu placata, gettò la sbarra oltre la siepe e insieme ai complici dileguò nel buio.
  Allora intorno a Giuseppe Fanin morente sul mucchio di ghiaia fu silenzio.

* * *

  Giuseppe Fanin il pomeriggio del 4 novembre era venuto a Persiceto con un allegro mazzo di fiori. Erano i suoi fiori, da lui coltivati con amorosa gentilezza e naturalmente erano per la fidanzata. Con lei aveva deciso di andare al cinema. C'era un film quella sera dal titolo nostalgico «I migliori anni della nostra vita».
  Davanti al locale la folla faceva ressa. Troppa gente e i posti erano tutti occupati. I due giovani indugiarono un poco poi se ne andarono. Nella piazza nebbiosa le lampade diffondevano un mite chiarore. Una corriera piena di bimbi cinguettanti si fermò: erano di ritorno da un pellegrinaggio alla Madonna di S. Luca.
  «Pippo» rimase ancora con Lidia, la fidanzata, poi pensò di ritornare a casa. Gli amici li aveva già visti prima di incontrarsi con Lidia; aveva chiacchierato con loro degli argomenti del giorno: tesseramento Fuci, sindacalismo. Pippo aveva annunciato che sarebbe stato relatore del nuovo patto di Compartecipazione agricola da lui studiato al Congresso di Molinella nella seguente domenica... «Salterà fuori il solito Congresso!...» Pippo aveva reagito...
  Il treno è mattiniero e la casa di Pippo è lontana dalla Stazione.
  Egli salutò la fidanzata; un ultimo bacio, l’ultimo e s'incamminò veloce sulla bicicletta incontro alla sua tragica morte.
  Tre quarti d'ora dopo sfigurato e privo di conoscenza fu rinvenuto da un passante che lo aveva preso per un ubbriaco. All’ospedale nessuno lo riconobbe e solo la carta d'indentità potè stabilire chi egli fosse. Il volto era tumefatto, solcato profondamente da rosse ferite, il labbro superiore nero orribilmente gonfio. Pochi minuti dopo, la zia di Giuseppe, prof. Lidia Fanin, era avvertita vagamente del grave fatto. Recatasi immediatamente all’ospedale riconobbe sconvolta il nipote prediletto.
  Con indicibile angoscia si affrettò in macchina alla casa dei genitori.
  «Pippo s'è fatto male» annunciò alla madre, e non ebbe la forza di dire altro. Ma al fratello Virgilio padre di Giuseppe, in disparte disse:
  «Bisogna che tu venga subito».
  Quando il babbo entrò nella camera di medicazione davanti al suo ragazzo irriconoscibile s'arrestò rigido. Un dolore infinito gli impietrì il volto. Osservò le tremende ferite, la devastazione di quel volto tanto caro, comprese che non c'era più speranza... «Assassini!» mormorò ma la sua voce non aveva l’accento dell’odio. Poco dopo il medico se lo vide accanto:
  «Mi pare grave! dobbiamo chiamare il Sacerdote?».
  Il medico fece cenno col capo. D. Giuseppe, il cappellano dell’Ospedale, fu chiamato per amministrare l’Estrema Unzione.
  Alle 1,45 il temibile rantolo che giungeva anche nel corridoio dove la fidanzata attendeva tremante, si affievolì e tacque. La sorella Adriana continuava ad asciugare le ferite grondanti sangue; zia Lidia guardò il babbo a fianco del letto: era ancora immobile rigido: la statua del dolore. Solo le labbra si muovevano appena a scandire qualcosa: pregava.
  A casa la mamma di Pippo dormiva inquieta. Sognava un lungo misterioso corteo funebre. Si svegliò e attese angosciata ma nessuno tornava. Nell’alba grigia e sonnolenta fu in piedi e decise di recarsi a S. Giovanni. Quando giunse accanto al mucchio di ghiaia insanguinato, un presentimento tragico le agghiacciò il cuore: «E' il mio sangue!» e sentì l’istintivo impulso di gettarsi su di esso per raccoglierselo tutto. E intuì pure vagamente la realtà: non un incidente, ma un agguato spaventoso aveva fermato il figlio sulla ghiaia. Allora pregò Dio che le concedesse la forza di sopportare tutto il dolore che presentiva.
  Davanti alla Chiesa del Crocefisso vicino all’ospedale incontrò il fratello della fidanzata. «E Peppino?» Non ci fu altra risposta che quella di un viso sconvolto. Allora ruppe in un lungo pianto sconsolato: «I miei figli! E' il secondo che mi muore senza che l’abbia potuto vedere!» Zia Lidia le fu accanto con miti parole di conforto: «Sii forte; hai un Martire in cielo!» Si scosse allora un poco: «Sì, sì meglio certo in Cielo, che saperlo vivo fra gli assassini».
  Volle vederlo. Nella camera dei morti dell’ospedale scorse il figlio oramai irrigidito con l’irriconoscibile volto fasciato alla meglio. La madre se lo strinse forte fra le braccia: le ferite sanguinavano ancora. «Povero Peppino, come ti hanno ridotto!» E aggiugeva con quell’espressione indimenticabile del volto impietrito: «Eri tanto bello, Peppino! Quei cattivi...» e il pianto le toglieva la voce.
  Il padre alle 6 del mattino, aveva lasciato l’ospedale e s'era recato ad avvertire il Parroco. Anche i suoi ragazzi erano in Chiesa a Lorenzatico per la Comunione del Primo Venerdì del mese. E in Chiesa li vide tutti: Gianni, Lino, la Gianna assorti davanti all’altare, muti nella pena e nel dubbio terribile che dalla notte li angosciava. Don Antonio uscì dal confessionale
  «Don Antonio, sa ancora niente della disgrazia?».
  «No; di quale disgrazia?».
  «Hanno assassinato Peppino!».
  Il signor Virgilio aveva parlato col tono normale di voce, piano, appena velato.
  Quando D. Antonio diede ai fedeli il tristissimo annuncio, tutti piansero con lui: accanto all’altare avvolto nel mantello, il Sig. Virgilio interrogava impietrito il Crocifisso grande dell’altare maggiore e il suo occhio non diede una lacrima.