Il 9 Marzo del '45

  C'è una strada che corre diritta, partendo dall'Osteriola, in direzione Sud, verso Canolo e Correggio. Sulla destra c'è il Naviglio e, oltre il canale, una striscia di terra che fa parte del Comune di Rio Saliceto. Percorse alcune centinaia di metri, sulla destra c'è il podere della famiglia Rustichelli, di circa 60 biolche, condotto in proprietà dalla stessa famiglia da oltre 70 anni. Sul podere ci sono tre case: la vecchia casa (Merlina), la casa nuova costruita dai proprietari nel 1933, bella e grande, e molto più all'interno una casupola abitata nel '45 da dei “casanti”, la famiglia Davoli. Sul terreno di questo podere vennero ritrovati nel Novembre del 1946 i resti di mio padre, Flavio Parmiggiani, di Umberto Nicolini, di sua figlia Marisa e della cugina di quest'ultima Maria Domenica Ghidini. L'indicazione che aveva portato sul luogo era stata abbastanza precisa, ma non sarebbe stata sufficiente al ritrovamento se non fosse intervenuto un familiare dei proprietari ad indicare il luogo giusto in cui scavare. Per il riconoscimento dei miseri resti si recarono sul posto, per la nostra famiglia, mio zio Ferruccio e mia zia Emma. Il padre di Maria Domenica arrivò con un carretto e quattro povere casse. A questo punto sorse un problema: si trattava del primo ritrovamento (purtroppo per Campagnola rimarrà anche l'ultimo!) dei resti di vittime dei partigiani ed il sindaco comunista, Ennio Griminelli, non voleva dare il permesso di sepoltura nel cimitero. L'intervento dell'arciprete fece risolvere il caso. Ma adesso dobbiamo fare un passo indietro.

  La sera del 9 Marzo, approfittando forse del fatto che il giorno prima il presidio tedesco aveva abbandonato il paese, parte una azione in grande stile diretta dal Comandante della Brigata SAP Guerrino Cavazzoni, con la partecipazione anche di partigiani di Canolo e Fabbrico. Vengono bloccate le strade di accesso al paese, un gruppo di partigiani si presenta a casa nostra, subito dietro la chiesa, un altro si porta a casa dei Nicolini, a metà portico in piazza, ed un terzo a casa di Ghidini, sempre in piazza.

  A casa nostra i partigiani picchiano violentemente contro la porta ed urlano a mio padre di uscire. In casa ci sono mio padre, mia madre, mio fratello Silvio di 4 anni ed una vecchia zia di mia madre (morirà nel '47 mentre io sono nato solo nel Luglio del '45). Mia madre supplicò mio padre di non aprire e di nascondersi (era una casa grande e complicata), lui disse che non aveva niente da temere o da nascondere. Aprì e in un attimo i partigiani furono dentro e gli intimarono di seguirli. A questo punto dovette aver capito che le cose si sarebbero messe male e porse il portafoglio a mia madre; un partigiano lo riprese dalle mani di mia madre e glielo rimise in tasca: “Tanto torna a casa subito”, disse. Mio padre era un operaio e lavorava presso l'unica fabbrica del paese, l'officina Ferrari, che produceva pigiatrici e pompe per cantine. A causa della guerra, con l'Italia divisa in due ed esclusi pertanto i mercati del Sud, l'officina Ferrari aveva praticamente sospeso le attività nell'autunno del '44. Mio padre aveva iniziato un'attività in proprio lavorando nel laboratorio sotto casa nostra. Quella mattina si era recato a Reggio dove aveva venduto alcune macchine ed aveva, perciò, nel portafoglio una somma notevole. Sarà stato un caso che sia stato prelevato proprio quella sera ? C'è poi la questione della bicicletta: mio padre doveva seguire i suoi sequestratori in bicicletta ma per qualche motivo la sua non c'era. I partigiani se ne fecero prestare una da Ariberto (Nani) Marmiroli e gliela riportarono il giorno dopo. Nei mesi successivi mia madre chiese ripetutamente, ma inutilmente, a Marmiroli chi gli avesse restituito la bicicletta, nella speranza che mio padre fosse ancora in vita e di potersi quindi rivolgere a chi lo aveva portato via.

  Mirello Nicolini aveva quindici anni e stava già dormendo. Fu svegliato da un uomo mascherato che gli puntò la canna della pistola sotto il naso e gli disse in dialetto: “Stai fermo e non muoverti!”. In casa c'era tutta la famiglia: Umberto Nicolini, 60 anni, la moglie Rita, e i quattro figli, Marisa, Mirello, Gianni e Tina. I partigiani erano entrati attraverso la casa adiacente dei Ferrari (quelli dell'officina) e, passando da un terrazzino, erano entrati in casa dei Nicolini dopo aver sfondato una finestra. Costrinsero Umberto Nicolini e la figlia Marisa, 18 anni, a seguirli in bicicletta. Dissero loro di portare dei soldi, molti soldi perchè sarebbero stati lontani diverso tempo. Un terzo gruppo di partigiani si recò a prelevare Maria Domenica Ghidini, anche lei diciottenne.

  Sequestrati e sequestratori si avviarono in bicicletta verso l'Osteriola. Alla famiglia Rustichelli, del tutto estranea al fatto mentre i basisti furono i Davoli, era stato intanto intimato di andare a letto presto. I prigionieri vennero portati nella casa vecchia, in uno stanzone, “al camaroun”, che serviva come deposito granaglie. Qui vennero sottoposti ad “interrogatorio”. Secondo una testimonianza di Baraldi l'interrogatorio venne condotto dal Toscanino e da Bolondi; Baraldi dice di aver criticato aspramente il Bolondi per aver partecipato all'interrogatorio; infatti essendo egli di Campagnola e quindi riconosciuto, lo stesso interrogatorio non avrebbe potuto concludersi in altro modo che con l'uccisione dei prigionieri. Il Toscanino, sentito in anni recenti ormai vecchio e malandato presso l'Ospizio di Reggio, ha detto di non ricordare il fatto. Una anziana signora di casa Rustichelli dice che non ha più dimenticato le urla disperate di persone violentate e torturate provenienti quella sera dal “camaroun”.

  Una volta uccisi i quattro vennero sistemati alla bene meglio in un solco del granoturco e appena ricoperti di terra: scavare una fossa avrebbe richiesto troppa fatica ai partigiani; d'altra parte non si poteva chiedere alle vittime di scavarsela loro perchè avevano appena subito un “interrogatorio” e certamente non sarebbero state in grado di farlo. Questo della fatica a scavare le fosse è un aspetto sinora trascurato della Resistenza: nei giorni dell'immediato dopoguerra, quando si trattò di seppellire centinaia di cadaveri, vennero largamente impiegate le cave di terra delle fornaci: a Campagnola verrà utilizzato il “Cavòun”, a Correggio la famigerata cava della fornace di Fosdondo. Qualche giorno più tardi i bambini, giocando sui campi, videro un piede ed un braccio che uscivano dal terreno. Avvisarono in casa e i Rustichelli decisero di chiamare i Carabinieri. La cosa si seppe in giro perchè c'erano dei lavoranti; l'indomani si presentò un partigiano e minacciò che, se avessero avvisato i Carabinieri del ritrovamento, avrebbero avuto la casa bruciata.

  Cosa aveva fatto scattare l'operazione del 9 Marzo e di cosa erano accusate le quattro vittime ? C'erano state in quel periodo, a livello provinciale, delle spiate che avevano portato ad arresti nelle fila della Resistenza. A Campagnola, a parte alcuni fermati subito rilasciati, non c'era stato niente di tutto ciò. Il CLN provinciale aveva deciso che bisognava fare qualcosa contro le spie, e i partigiani di Campagnola non se lo erano fatto ripetere due volte. L'accusa contro mio padre, Nicolini e le due ragazze sembra essere stata quindi quella di essere delle spie. L'accusa sembra del tutto inconsistente anche perchè, in quel periodo, a Campagnola, non era avvenuto niente che potesse scatenare una reazione di questo tipo. La giovane età delle due ragazze poi avrebbe dovuto muovere ad un senso di pietà e di moderazione. Per mio padre, avendo parlato con diverse persone, ho maturato la convinzione che la sua fine sia stata causata da dissidi con elementi della Resistenza che lavoravano alla Ferrari, quali Angelo Menozzi, che sarà il primo sindaco comunista dopo la Liberazione, o Morgotti Dino (Sangue). Umberto Nicolini faceva di mestiere il “picchiatore” di formaggi; il fatto che girasse tra i vari caselli per il suo lavoro può avere indotto qualcuno, nel clima esacerbato di sospetti di quei mesi, a pensare che facesse la spia.