Introduzione

«Russia»

    Non si era ancora spenta in seno all’opinione pubblica mondiale l'ondata di entusiasmo suscitato dal clamoroso processo, celebrato pochi mesi or sono alla 17a Camera Correzionale di Parigi, che ha preso il nome dal querelante e principale protagonista Victor Kravcenko, quando avanti al Tribunale Penale di Roma -Sez. X ha avuto inizio il procedimento a carico di alcuni ufficiali italiani, in gran parte reduci dalla prigionia in Russia, per diffamazione a mezzo stampa.
    Querelante il senatore comunista Edoardo D'Onofrio, a carico del quale, sia detto tra parentesi, proprio in questi giorni è stata presentata una denuncia alla Procura della Repubblica da parte della Autorità di P. S. per associazione a delinquere al fine di favorire l'espatrio clandestino di delinquenti comuni ricercati dalla giustizia.
    Il foglio incriminato è il numero unico «Russia», pubblicato nell'aprile 1948, alla vigilia della competizione elettorale politica, a cura dell’Associazione Nazionale Italiana Reduci di Russia (U.N.I.R.R.).
    Al banco degli imputati (ma son proprio degli accusati o non piuttosto degli accusatori?) siedono Ugo Graioni, ex segretario generale del Servizio Informazioni, e Giorgio Pittaluga, ex ufficiale del C.V.L., rispettivamente direttore e redattore responsabile del foglio; Ivo Emett rimpatriato dalla prigionia nel 1947; Domenico Dal Toso di Vicenza; Luigi Avalli di Parma. Questi ultimi sono giovani che hanno molto sofferto fino a rimanere fiaccati nel corpo e nello spirito, conosciuti e stimati per la loro onestà e probità, dalle cui labbra non può uscire ombra di menzogna.
    Il collegio di difesa risulta composto dall'on. avv. Mastino Del Rio, parlamentare democristiano, e dall'avv. Rinaldo Taddei, entrambi decorati di medaglia d’argento per atti di valore compiuti nella Lotta per la Liberazione Nazionale contro il tedesco invasore. Il che non evita loro di essere quotidianamente additati dalla stampa di estrema sinistra come «fascisti» e «reazionari».
    La parte civile è rappresentata dagli avv. Mario Paone e prof. Giuseppe Sotgiu. Presiede il Collegio il dott. Vincenzo Carpanzano. P. M. il dott. Pietro Manca.
    Da un punto di vista strettamente giuridico si deve osservare che nei racconti dei reduci contenuti nel famoso numero unico, tutti pienamente concordanti fra loro nella descrizione di fatti, circostanze, date, non può assolutamente ravvisarsi l'estremo del reato di cui all'art. 595 c. p. perché improntati a obbiettività e diretti a fini sociali riconosciuti, primo fra tutti quello di impedire, nei modi legali, che gli italiani, illusi e ingannati, potessero permettere che il paese cadesse in mano di pochi rinnegati, nemici della fede e della patria, mimetizzati nelle liste del Fronte Democratico Popolare. Esulava completamente dai reduci l'animus diffamandi, ossia il dolo costitutivo di tale specie di reato.
    Del resto la dottrina e la giurisprudenza sono oggi orientate decisamente nel senso di riconoscere allo scrittore in genere e al giornalista in specie, il dovere di illuminare la opinione pubblica in ordine a tutti quei fatti o notizie, anche lesive della altrui onorabilità, che egli non abbia attinto da voci incontrollabili o fantasiose, ma degne di fede, mantenendosi entro i limiti del suo diritto di cronaca (animus narrandi).
    Se qualche perplessità poteva sussistere riguardo alla aperta e specifica denuncia contenuta a pag. 7 visualizza il documento e 16 visualizza il documento della pubblicazione contro i compagni D'Onofrio, Robotti, Gottardi (Rizzoli), Ossola, Fiammenghi, Cocchi, Torre (una donna), Roncato, essa è ormai superata dalla esauriente prova liberatoria offerta dagli innumerevoli testi, circa trecento, ridotti a sessantacinque dal magistrato per ragioni di economia di tempo, i quali hanno attestato la verità delle gravi asserzioni riferentesi alla responsabilità del querelante e soci nei maltrattamenti inflitti ai prigionieri italiani nei campi di concentramento sovietici.
    Ogni altro commento costituisce valutazione di carattere politico che sfugge all'apprezzamento del magistrato per rientrare nella sfera della libera espressione del pensiero individuale, perfettamente lecita in regime democratico.
    Forse se il sen. D'Onofrio avesse dovuto presentare oggi la querela se ne sarebbe astenuto ben volentieri, dopo l'insuccesso toccato ai compagni francesi in quegli ambienti forensi e dopo l'esito delle elezioni italiane.
    Il processo di Parigi e quello di Roma hanno punti di contatto e punti di divergenza. A Parigi si sono scontrate due opposte mentalità, due mondi antagonistici, due diverse concezioni di vita, spiritualistica l'una, materialistica l'altra. Civiltà occidentale e barbarie sovietica, Stati Uniti d'America e U.R.S.S., Patto Atlantico e Blocco Orientale: dall'urto è emersa vittoriosa la personalità forte e coraggiosa di Kravchenko, il popolare autore di: «Ho scelto la libertà!». A Parigi i comunisti erano sulla difensiva e non all'offensiva.
    A Roma lo sfondo politico è sempre lo stesso ma la passione ardente che avvolge uomini e avvenimenti supera l'angusta visuale delle fazioni e dei partiti. La figura degli imputati sembra attenuarsi e scomparire a poco a poco, come assorbita nella figura maestosa e solenne dell’Italia che addita al disprezzo di tutto il mondo civile gli aguzzini dei suoi figli migliori, i complici di un regime di schiavitù e di sangue.

Prigionieri italiani in mano dei sovieti

    Nessuna propaganda, venduta a interessi stranieri, riuscirà mai a dimostrare che il trattamento riservato ai nostri fratelli prigionieri dei bolscevichi è stato umano.
    Il Regolamento dell'Aia del 1899 e la IV e V Convenzione dell'Aia del 18 ottobre 1907 dettano le norme che ogni paese civile deve osservare nei confronti dei militari caduti nelle sue mani in tempo di guerra. Il concetto ispiratore di tale disciplina, consacrato dall'etica prima che dal diritto, riposa sul riconoscimento della dignità e della personalità del prigioniero il quale non soltanto non è uno schiavo ma non può neppure essere equiparato a un condannato che sta espiando una pena detentiva. Di fronte allo stato che lo ha catturalo, egli non deve rispondere di nessun reato, perché obbedendo all'ordine insindacabile impartitogli dai propri capi di combattere, il soldato null'altro fa se non il proprio dovere di cittadino.
    Il prigioniero viene privato della libertà, come misura di sicurezza, imposta da inderogabili necessità militari, in quanto ciascun belligerante mira a diminuire il potenziale bellico avversario. In ossequio a tali principi di elevato valore morale e giuridico, i prigionieri hanno diritto al rispetto e alla tutela del loro onore, conservano la piena capacità civile né possono essere assoggettati a quelle rappresaglie, cui erano sottoposti coloro che si rifiutavano di seguire le direttive politiche del sig. D'Onofrio. Molti di questi infelici, rinchiusi nei campi di punizione, languono forse ancor oggi nel campo di concentramento di Kiev.
    L'art. 16 del Regolamento di Ginevra riconosce ai prigionieri di guerra piena libertà di pratica e di assistenza religiosa, in ordine alla quale il lettore avrà invece modo di apprendere, sfogliando gli atti del processo, che non soltanto la celebrazione della S. Messa era interdetta ai cappellani militari ma perfino la recita in comune del S. Rosario: almeno in alcuni campi.
    A proposito degli estenuanti e raffinati interrogatori del sig. D'Onofrio e dei suoi degni compagni deve osservarsi che il diritto internazionale vieta espressamente le pressioni esercitate sui prigionieri al fine di conoscere informazioni sulla situazione del loro esercito e sul loro paese. Donde discende che i prigionieri che rifiutino di rispondere non avrebbero potuto essere insultati, né esposti a molestie, minacce o svantaggi in genere, come in effetti avvenne.
    Pertanto appaiono illecite, a prescindere da ogni considerazione di ordine morale, le minacce di deportazione in Siberia, lo spauracchio agitato avanti agli occhi di quei disgraziati, ridotti agli estremi della umana sopportazione, di trasferimenti in regioni ove il gelo del terribile inverno russo avrebbe dilaniato ancor più quelle povere carni martoriate, se è ben vero che i prigionieri, catturati in zone malsane o il clima delle quali sia pernicioso per le persone provenienti da zone temperate, debbono essere trasportati al più presto in un clima favorevole.
    E poiché la prigionia di guerra non scioglie i militari dall’osservanza dei loro doveri verso la patria, non sembra dubbio che alcuni di quegli sciagurati che non si sono peritati di venire a deporre contro i loro commilitoni, sapendo di mentire, così come ieri, non si fecero scrupolo di spiare e denunciare i loro fratelli ai tirannelli bolscevichi, dovrebbero essere deferiti al tribunale militare a norma della legge penale militare di guerra.
    Non una parola di conforto che non celasse un doppio fine, o di mero interessamento per la sorte di quegli infelici, sfiniti dalle lunghe marce sulla steppa coperta di neve, uscì mai dalle labbra e dal cuore, indurito nell’odio, di quelli che per la ideologia politica professata nel paese straniero, erano i soli che avrebbero potuto alleviare le pene di quegli sventurati.
    Tale inqualificabile comportamento costituisce una ennesima prova che coloro i quali, più o meno consciamente, aderiscono alle dottrine marxiste, spezzano per sempre ogni legame di affetto verso la famiglia e verso la patria e perdono quella sensibilità morale che differenzia l’uomo dal bruto,
    Il tenore stesso del libro, di carattere eminentemente informativo, non ci consente altre riflessioni o anticipazioni che toglierebbero all'opera il pregio della immediatezza e della spontaneità. Abbiamo voluto riprodurre fedelmente le varie fasi del processo, riassumendo laddove esigenze di spazio e di snellezza della narrazione lo imponevano. Tragga il lettore intelligente ed obbiettivo le sue conseguenze.

«Vade retro!»

    Da parte nostra il processo voluto e provocato dallo stesso Partito Comunista Italiano, dimostra ancora una volta a quali eccessi belluini sia capace di giungere l’uomo quando infrange i vincoli della legge divina.
    Nessun vero progresso sociale si può sperare di raggiungere in un paese ove la libertà dello spirito è un mito, l'istituto familiare è minato alla base colla perdita della propria autonomia economica attraverso la abolizione della proprietà privata, e la cultura è mortificata dalla spersonalizzazione dell’individuo nella massa e dal tecnicismo meccanicistico che misconosce le esigenze supreme di una visione sintetica e organica della umana società. È la logica conseguenza del sistema collettivistico, il quale degrada l'uomo da centro dell’universo a strumento indifeso di uno stato, ove regnano il terrore e il sospetto reciproco e dove imperversano lo spionaggio e la polizia politica, che il prigioniero sia ridotto a quello stato di servitù che il Cristianesimo era riuscito faticosamente ad abolire nella pratica delle nazioni civili.
    Ma a coloro che, in buona fede, ancora si illudessero di poter stringere la mano insanguinata che il bolscevismo quotidianamente tende agli ingenui, o di poter cogliere negli uomini asserviti a Mosca qualche anelito di verità o di bontà, i reduci di Russia potranno ben rispondere con le illuminate parole del grande Pontefice PIO XI v. m., il quale, nel 1937, nell'Enciclica «Divini Redemptoris Promissio» così scriveva contro il Comunismo Ateo:
    «Il Comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con lui di chiunque voglia salvare la civilizzazione cristiana. E se taluni, indotti in errore, cooperassero alla vittoria del comunismo nel loro paese, cadranno per primi come vittime del loro errore e quanto più le regioni dove il comunismo riesce a penetrare si distinguono per la antichità e la grandezza della loro civiltà cristiana, tanto più devastatore vi si manifesterà l’odio dei «Senza Dio».
    Mentre ancora oggi bagliori di sangue squarciano il tenebroso cielo di Oriente, sia di conforto ai superstiti di sì immane tragedia e ai popoli che gemono sotto il tallone dell’oppressore straniero, la certezza che le nazioni non muoiono e che il più folle esperimento compiuto nell’era cristiana di costruire una società senza Cristo e contro Cristo è immancabilmente destinato a fallire, tra la universale esecrazione dei buoni.
    E sulle rovine tornerà a splendere la luce che irradia dalla Croce; che sola è vera luce di pace, di amore e di fraternità umana.

Avv. ALBERTO PASSARELLI